CALANDRINI
Famiglia originaria di Luni ed emigrata a Sarzana: ebbe il suo capostipite in un Buongiovanni, vissuto nella prima metà del secolo XIII. Il figlio di Buongiovanni, Calandrino, si segnalò in Sarzana per la partecipazione alla vita pubblica, come membro del Parlamento del Comune nel 1278 e del Consiglio generale nel 1288, all'epoca del dissidio con Enrico vescovo di Luni che aveva colpito i Sarzanesi con interdetto e scomunica. Calandrino di Buongiovanni ricoprì inoltre la carica di podestà a Castelnuovo di Magra a partire dal novembre 1296. Rimasto vedovo di Iacopina di Mercadante di Rolandino di Pezamezana, s'imparentò in seconde nozze con i Mascardi de' Nobili di Trebbiano sposando, ignoriamo quando, Beatrice di Azzolino, che i documenti danno come vedova nel gennaio 1306. Ebbe sei tra figli e figlie; Federico, che aveva avuto dal matrimonio con Iacopina, continuò la discendenza (che prese nel sec. XIV a denominarsi da Calandrino) e gettò le basi del cospicuo patrimonio della casa. Federico esercitò la mercatura e il cambio, né dovette astenersi da fraudolente speculazioni a giudicare dalle preoccupazioni per la sua anima e dalla volontà di riparare che dimostra in un testamento da lui redatto nel 1321, in occasione d'una grave infermità, poi felicemente superata. Suo figlio Iacopo, notaio, fa cancelliere del Comune di Sarzana; castaldo di Bernabò Malaspina, vescovo di Luni; podestà della terra di Brina per conto di Franceschino Malaspina, marchese di Lusuolo. Dalla moglie, Francesca Cattani de' Nobili di Massa Lunense, Iacopo di Federico ricevette in dote, il 14 dic. 1370, 140 fiorini d'oro. Ebbe tre figli maschi ed una femmina, Gabriella, promessa sposa il 9 aprile del 1387 a maestro Pietro, fisico, fratello di quel Bartolomeo Parentucelli da cui sarebbe nato Tommaso, il futuro papa Niccolò V. Il figlio primogenito di Iacopo, Leonardo, non ebbe discendenza maschile; un altro figlio, Federico, rinnovò l'avo nel nome e nell'avarizia: scrive di lui un contemporaneo che "vivea in casa ala zenovexe, e pezo". Dal suo matrimonio con Maddalena di Ettore de' Griffi, ebbe Isabella, andata sposa a Giovanni di ser Niccolosio, Bonaparte, e Melchiorre, il quale prese dimora a Pietrasanta, segnalandosi per la personalità energica e decisa e per la vivacità delle risse e delle contese che ebbe con i nobili delle altre consorterie, quali i Michelucci, i Colucci, i Baldi, i Panichi. Dall'imperatore Federico III Melchiorre di Federico fu insignito del titolo di conte palatino il 25 apr. 1452. La sua linea - aveva sposato Benedetta di Niccolò Gambaro da Genova - si estinse dopo sole due generazioni.
Il terzo figlio di Iacopo, Tommaso, sposò in prime nozze Elisabetta di Masinello de' Nobili di Brucciono e di Leona di Spinetta Malaspina, da cui ebbe un figlio, Pietro; e, rimasto vedovo, Andreola di ser Tomeo di ser Puccio, vedova a sua volta di Bartolomeo Parentucelli, forse perito nella peste del 1400, mentre prestava la sua opera di medico. Da Andreola, che già aveva dato alla luce Tommaso, il futuro papa Niccolò V, nacque oltre ad una figlia, Caterina, un maschio, Filippo. Quest'ultimo fu vescovo di Bologna, ottenne la dignità cardinalizia, e fu uno degli antagonisti di Enea Silvio Piccolomini nel conclave che si riunì dopo la morte di Callisto III nel 1458. Pietro di Tommaso sposò Elena di Galeazzo Malaspina, marchese di Mulazzo, dalla quale ebbe un figlio, GiovanMatteo, che fu giureconsulto d'una certa fama e studioso versato in più di una disciplina: a lui si attribuiscono un Opus de mulieribus claris e un Libellus de rerum inventoribus, che sarebbero stati fatti pubblicare a Parigi dal vescovo Agostino Giustiniani sotto il nome di Ioannes Mathaeus Lunensis.
La brillante carriera di Filippo vescovo di Bologna e cardinale consentì ai C. di aspirare ad incarichi al di fuori della cerchia provinciale: il presule, infatti, pur senza indulgere al nepotismo -, fedele in questo all'esempio di disinteresse offertogli da Niccolò V - ottenne agevolazioni ed onori per i suoi, e principalmente per Giovan Matteo, creato senatore di Roma nel 1462, con residenza in Campidoglio, e successivamente scrittore apostolico. Tuttavia Giovan Matteo non si legò all'ambiente romano di Curia; fin da quei tempi meditava infatti di ottenere la cittadinanza lucchese. A tal fine rivolse una istanza alla Repubblica, che nel 1466 si compiacque di accettarlo come cittadino originario "cum ob singulares eius virtutes… tum intuitu et reverentia Reverendissimi Domini Cardinalis Bononiensis", e di esonerarlo dal pagamento delle gabelle nell'acquisto di beni immobili per il valore di 2.000 ducati d'oro larghi. Morto il 24 luglio del 1476 lo zio Filippo, in cui onore fece erigere un monumento nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina, Giovan Matteo, essendo Roma turbata da "disordini et rumori", mandò a compimento il proposito già espresso di trasferirsi nella città di Lucca in quanto "libera et accomodata al viver civile". Pare che "nel far questa mutattione" sia stato derubato da un servitore di una notevole somma che riponeva in un luogo segreto del suo palazzo di Roma, "senza averne mai recuperato niente". I molti beni lasciati dallo zio, principalmente a Lucca e Sarzana (con le quali, quindi, non smise i contatti), gli consentirono tuttavia di far fronte con tranquillità alla "disgratia" occorsagli. Accolto con ogni onore nella nuova patria, prese dimora nella casa già donata dai Lucchesi ad Andreola nel 1448 in piazza S. Piercigoli e si sposò con Chiara di Gregorio Arrighi, dalla quale ebbe sette figli. Delle due femmine, Maddalena andò sposa a Bartolomeo di Francesco Cenami, e Caterina a Federico di Cristoforo Trenta futuro suocero di Francesco Burlamacchi. Dei maschi sopravvissuti, Giuliano fu canonico della cattedrale di Bologna dal 1476 al 1486;Filippo, nato postumo, si sposò ed ebbe prole.
Cresciuto sotto la tutela di Benedetto Buonvisi, Filippodi Giovan Matteo ne ottenne in sposa la figlia Caterina con la dote iniziale di 700 ducati d'oro, aumentati col tempo di altri beni fino a toccare la cifra di 1.075 ducati, e sulle orme del suocero si dedicò all'attività mercantile. Fu interessato agli affari della ditta di Benedetto Buonvisi e dei suoi eredi e di Bonaventura Micheli in Lione dal 1513 al 1518. In particolare Filippo intui le nuove esigenze dell'economia lucchese, allargando, unico forse tra i concittadini, il giro di affari della sua casa al commercio del bestiame con largo impiego di capitali: un contratto del 1530 testimonia, ad esempio, dell'acquisto da parte sua di mandrie per il valore di 1.500 ducati dal mercante fiorentino Niccolò di Filippo de' Medici. L'attività di allevatore andò affievolendosi man mano che le marine, prima adibite a pascolo, venivano ridotte a coltura, al punto che nel 1543, come risulta da un'autorizzazione emessa dal Consiglio generale, egli dovette disfarsi di settanta capi bovini, vendendoli a forestieri: Poiché godeva dell'amicizia e dei favori del cardinale Pompeo Colonna, viceré di Napoli, prese anche l'iniziativa di aprire una casa commerciale in quella città, "con negotii sotto il governo di Andrea Sbarra suo genero in la quale furno poco avventurati". Sembra inoltre che abbia avuto relazioni e "intrinsechi negotii" con altri personaggi dell'epoca, fra cui Filippo Strozzi.
Nella vita pubblica Filippo sostenne un ruolo di primo piano: anziano tredici volte, negli anni 1520, 1522, 1524, 1526, 1529, 1531, 1534, 1536, 1539, 1541, 1545, 1549, 1552, ebbe dalla Repubblica le più svariate incombenze: ambasciatore a Firenze nel marzo e nell'agosto del 1529, inviato a Pescia presso Maramaldo nello stesso anno. Nella Vita di Bartolomeo di Poggio lo si dice incaricato segretamente - insieme con Giovan Paolo Gigli e Bartolomeo di Francesco Cenami - di provvedere all'uccisione di Iacopo e Bernardino di Poggio, avvenuta nel 1523.L'anno successivo fu ambasciatore a Firenze insieme con Baldassarre Orsucci; "in la sedittione che nacque fra il popolo et li principali cittadini che si chiamavano il cerchietto [la rivolta degli Straccioni]… molto confidente di ambe le parti maneggiò le cose in modo che ne seguì il buon accordio che ha durato doppoi".
Nel 1533Filippo, insieme con Iacopo Arnolfini e Francesco Guinigi, rappresentò la Repubblica dinanzi a Clemente VII, assolvendo il delicato incarico di chiedere la mediazione papale perché il duca Alessandro volesse "levare di quel dominio fiorentino li rebelli" lucchesi "et monstrare con li effecti di havere più cara una repubblica che dieci ladroncelli della sorte che sono loro". La missione fu condotta felicemente: si ha notizia infatti dal carteggio intercorso fra gli oratori e il loro governo che in data 26settembre era già stata concessa la "exemptione delle decime dell'hospitale et monache" per cui anche i Lucchesi si erano rivolti al papa, mentre d'altra parte l'"ambasciatore cesareo" aveva "dicto come è stato per la cosa dei rubelli con N. S. et il duca Alexandro molto vivamente, et da loro li è stato promisso che infallanter faranno" ciò di cui erano stati richiesti. Ancora una volta troviamo il nome di Filippo come rappresentante lucchese a Firenze in occasione d'una vertenza nel luglio 1535. Filippo ebbe probabilmente un ruolo di primo piano nell'episodio della congiura di Pietro Fatinelli del 1543. Stando a un racconto inserito nella Cronaca di Matteo Civitali, il Fatinelli sarebbe stato raggiunto dalla grazia divina alla vigilia di venir giustiziato e dialogando con alcuni interlocutori avrebbe espresso convinzioni "luterane"; la narrazione della sua "notabile conversione", che il Civitali afferma di aver appreso "da huomini degni di fede che vi si ritrovarono presenti", è ritenuta dal Berengo "l'unico testo della propaganda riformata lucchese che ci sia stato trasmesso" (Nobili e mercanti, p. 438).Quanto al principale interlocutore del Fatinelli, il Civitali lo indica con le iniziali F. C.: e secondo il Berengo (ibid.)"appare evidente l'identificazione di questo laico… con Francesco Cattani". Tutt'altra versione ci è fornita dall'anonimo autore di alcuni Mémoires touchant la famille de Calendrin composti verso la fine del XVII secolo e conservati nella biblioteca del Trinity College di Dublino. In queste pagine si afferma che Filippo aveva aderito alla Riforma e se ne indica come prova un "livret imprimé qui contient la mort de Pierre Fatinelli" il sunto che del contenuto del libretto - di cui finora non si conoscono copie - viene dato dall'anonimo autore convince che si tratti dello stesso testo noto finora soltanto attraverso la Cronaca inedita del Civitali. Filippo Calandrini (il vero F.C.) "avait été present a tous ses discours [del Fatinelli]" e "il a pris soin de le recueillir et les a fait imprimer, depuis, pour l'édification publique". L'attribuzione a Filippo del testo relativo alla conversione del Fatinelli sembra troppo circostanziata per esser messa in discussione, ma val la pena osservare che secondo l'anonimo autore del manoscritto di Dublino il racconto della conversione del Fatinelli sarebbe preceduto, nella stampa, da una lettera di Filippo Calandrini del 20 novembre 1543 indirizzata al fiorentino Girolamo Benivieni: se si tratta dell'omonimo poeta seguace del Savonarola, egli era morto l'anno precedente. Si avverta poi che Filippo ebbe proprio lui a denunciare alla Signoria di Lucca la trama del Fatinelli: quando nel maggio del 1543 giunse a Lucca il segretario del conte piacentino Agostino Lando, che da Venezia prometteva le preziose informazioni sulla congiura ordita contro la Repubblica lucchese dal Fatinelli, egli si indirizzò non agli Anziani ma privatamente a Filippo. E quando il Lando ebbe il prezzo della sua delazione, ben 2.000scudi, firmò una dichiarazione in cui asseriva di aver sì ricevuto la somma dalla "Repubblica di Lucca", ma "per mano del magnifico messer Filippo Calandrini cittadino lucchese" (Sforza, La congiura, p. 75).Se questi elementi valgono a confermare che Filippo seguì assai da vicino la tragica vicenda del Fatinelli, d'altra parte appare sorprendente che proprio Filippo, dopo aver assicurato alla giustizia il congiurato, si preoccupasse di configurarne la morte come "santa" nell'ispirazione d'una religiosità tipicamente riformata. Ma se è vero che fra gli scopi che il Fatinelli si proponeva con la sua congiura v'era anche quello di "purgare" il governo di Lucca "da alcuni cittadini che in fatto di religione inclinavano alle nuove dottrine" (ibid., p. 26), è comprensibile che Filippo, la cui discendenza passò tutta alla Riforma, abbia voluto mutar di segno radicalmente alla vicenda del Fatinelli: nell'atto di espiare il delitto contro lo Stato il congiurato approdava contemporaneamente alla vera fede; quasi si suggerisse che solo nel nuovo credo la Repubblica lucchese avrebbe trovato lo strumento adatto a garantirne la stabilità.
Scarse notizie si possiedono sugli ultimi anni della vita di Filippo; morì nel corso del 1554, dopo aver stilato testamento per tre volte: in occasione di un'infermità l'11 giugno del 1522; successivamente il 22 agosto del 1552, quando, fra l'altro, egli restituiva, a determinate condizioni, la libertà ad una schiava, Caterinetta, che l'aveva servito per quarantadue anni, assegnandole una casa in usufrutto per il suo sostentamento, morta che fosse Caterina Buonvisi; una terza volta, infine, l'11 ag. 1553, quando istituiva suoi eredi in parti uguali i figli maschi. Dei figli di Filippo, due furono i maschi: Giuliano e Benedetto; quattro invece le femmine: Sara, nata nel 1506, unita in matrimonio a Giovanni Buonvisi, con 1.500 scudi di dote; Maddalena, moglie di Vincenzo di Gherardo Burlamacchi; Caterina che sposò Andrea Sbarra ed Elisabetta che sposò Giovanni Balbani.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Lucca, Notari, n. 759 (ser Benedetto Franciotti), c. 91 (Per Filippo); n. 761 (id.), c. 29 (per Filippo); Dublino, Library of the Trinity College, ms. 1152: Mémoires touchant la famille de Calendrin (secc. XVII-XVIII), cc. 1-39v; Ginevra, Bibl. publ. e universit., ms. Suppl. 438: Libro de' degnissimi, ricordi delle nostre famiglie, passim;F. A. Vitale, Storia diplomatica dei senatori di Roma, II, Roma 1791, pp. 448 ss.; J. A. Galiffe, Notices généalogiques sur les familles genevoises depuis les premiers temps jusqu'à nos jours, II, Gèneve 1836, pp. 536-561; C. Eynard, Lucques et les Burlamacchi. Souvenirs de la Réforme en Italie, Paris 1848, pp. 111, 166; V. Santini, Commentari storici sulla Versilia centrale, Pisa 1858-63, VI, pp. 139-141; G. Sforza, La congiura di P. Fatinelli contro la Signoria lucchese raccontata sui docc., Lucca 1865, passim;Id., La patria, la famiglia e la giovinezza di Papa Niccolò V, in Atti della R. Acc. lucchese di scienze, lett. e arti, XXIII (1884), estr.; A. Pascal, Da Lucca a Ginevra…, in Riv. st. ital., XLIX(1932), pp. 474 s.; G. Carocci, La politica estera di Lucca fra il 1480 e il 1530 studiata nelle relazioni dei suoi ambasciatori, in Not. degli Arch. di Stato, IX(1949), pp. 79-80; M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinauecento, Torino 1965, ad Indicem;F. Casali, L'azienda domestico-patrimoniale di L. Buonvisi e la sua partecipazione alle compagnie principali del casato…, tesi di laurea, università di Pisa, fac. di economia e commercio [1964], ad Indicem.