Bisanzio e l'Occidente (Teofano, Desiderio di Montecassino, Cluny, Venezia, Sicilia)
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra X e XII secolo numerosi manufatti artistici dall’impero bizantino, per diverse ragioni, arrivano a Roma e in Europa centrale. Non sono solo le opere d’arte a migrare: anche le maestranze bizantine, chiamate a lavorare in Occidente, contribuiscono alla diffusione della cultura orientale che presto si fonde con la tradizione occidentale. Determinante è il ruolo svolto da alcune figure chiave: tra queste la principessa Teofano che, giunta in Europa, porta con sé e fa confezionare oggetti d’ispirazione bizantina, e Desiderio di Montecassino, che contribuisce alla formazione di una scuola locale di mosaicisti basata su tecnica e stile costantinopolitani. Più controverso è il rapporto che lega a Bisanzio la produzione miniaturistica dello scriptorium dell’abbazia di Cluny in cui convivono stile romanico ed elementi bizantini di derivazione incerta. Casi peculiari sono invece quelli di Venezia e della Sicilia che assorbono quella stessa impostazione “imperiale” propria di Costantinopoli.
La questione “Bisanzio e l’Occidente”, binomio tanto affascinante quanto insidioso per le sue numerose implicazioni metodologiche, merita di essere analizzata sotto diversi punti di vista e offre allo studioso molteplici chiavi di lettura. In primo luogo, essa va inquadrata sotto l’aspetto della trasmissione diretta di oggetti e manufatti che dall’impero bizantino (quasi sempre dalla capitale) e per le più disparate ragioni, “migrano” verso ovest: Roma, l’Europa centrale – in particolare, durante l’impero degli Ottoni prima e soprattutto in seguito alle crociate. In seconda istanza, bisogna tener conto del fatto che non solo gli oggetti, ma anche le maestranze hanno conquistato, soprattutto dopo l’anno Mille, una notevole mobilità che porterà diversi artisti bizantini a essere chiamati in Occidente, principalmente in virtù della loro rinomata fama di artefici particolarmente capaci.
Essi attenderanno alla realizzazione di opere di importanza fondamentale per la storia dell’arte medievale europea (Montecassino ne è il caso più emblematico). Infine le idee. L’opera d’arte, la sua evoluzione sul piano stilistico-formale e concettuale, così come viene elaborata a Bisanzio, trova spesso in Europa – si pensi, per esempio, a Venezia – terreno particolarmente fertile ove attecchire, e dove la componente orientale si unisce e si plasma con la tradizione occidentale locale. La classificazione appena proposta non deve però indurre a inquadrare nell’una o nell’altra categoria il singolo fenomeno artistico, poiché nella maggior parte dei casi esse s’intrecciano e si fondono insieme, a volte rasentando l’impossibilità di stabilire con certezza l’origine di manufatti e botteghe.
La tradizione di oggetti inviati da Bisanzio e giunti in Occidente affonda le proprie radici in tempi assai remoti e, almeno in una prima fase, si configura come una consuetudine per cui gli imperatori bizantini – o, comunque personaggi di alto rango – inviano manufatti, soprattutto a Roma, con l’intento di conciliare le relazioni tra la sede papale e l’impero. Ne è prova, sin dal VI secolo, la preziosa croce-reliquiario inviata intorno al 575 dall’imperatore bizantino Giustino II al pontefice romano quale dono personale. La forte presenza di Bisanzio, tuttavia, e la sua ricezione non si misurano solo ai livelli più alti delle corti imperiali (si ricordino i Vangeli carolingi dell’Incoronazione di Vienna), ma anche in ambito provinciale, come accade nel Salento bizantino fra X ed XI sec.
Si tratteggia qui una sintetica rassegna di alcuni dei momenti storicamente più significativi di questo dialogo fra la fine del X e del XII secolo.
Nel 972 giunge in Occidente la principessa Teofano, nipote dell’allora imperatore bizantino Giovanni I Zimisce: il suo matrimonio con il successore al trono sassone, il futuro Ottone II, a lungo pianificato dalle diplomazie dei due imperi, ha significative implicazioni e conseguenze sul panorama culturale europeo.
Al di là delle importanti ripercussioni sul piano storico-politico che tale evento ha sugli equilibri internazionali – le cui circostanze sono narrate con minuzia dalla legatio constantinopolitana di Liutprando da Cremona –, è facile immaginare come esso crei, contestualmente, le condizioni per il fiorire di un’arte mistilingue, in cui l’eredità carolingia va fondendosi con il gusto “importato” dalla futura imperatrice. Oltre che una ricchissima dote (costituita da gemme, ebani intarsiati, ricche stoffe e oggetti in metallo prezioso), la giovane Teofano porta con sé anche una consolidata consuetudine nell’impero d’Oriente che vede le arti al servizio del potere, attitudine che la corte ottoniana non tarda a far propria.
L’ideale sugello di tale nuovo orientamento dell’arte mitteleuropea, all’indomani della salita al trono di Ottone II e della moglie (col titolo di co-imperatrix dal 981), si riconosce nella splendida placchetta eburnea in cui Cristo incorona la nuova coppia imperiale. L’intera scena resta inquadrata entro un leggiadro baldacchino di bizantina memoria: ma soprattutto le vesti che i due personaggi indossano – costumi della corte costantinopolitana –, le iscrizioni in latino e greco che li identificano, l’impaginazione della raffigurazione e, non da ultimo, la scelta dell’avorio quale materiale costitutivo del manufatto sono elementi che fanno della tavoletta di Cluny quasi un clone occidentale (probabilmente realizzato in Italia meridionale) di un prototipo o modello bizantino, come poteva essere la tavoletta dell’incoronazione di Romano IV ed Eudocia, oggi al Cabinet des Médailles della Bibliothéque Nationale di Parigi. Presumibilmente si tratta di un dono da parte del futuro arcivescovo di Piacenza, il monaco Giovanni Filagato di Calabria che gli studiosi identificano con il committente genuflesso ai piedi di Ottone. Il forte messaggio che questo oggetto sembra tuttavia trasmettere è quello di una totale parificazione dei ruoli tra la corte costantinopolitana e quella sassone, nei modi che alla prima sono più congeniali e familiari, inaugurando di fatto una prassi di continua emulazione del nuovo regno ROMANORUM (R[o]ma[ w]n) – come cita il titulus – con Bisanzio.
Come detto, Teofano porta in prima persona objects d’art dall’impero d’Oriente, ma molti altri ne fa confezionare una volta giunta in Europa. Tra questi, la produzione miniata gioca un ruolo determinante. Si pensi, per esempio, alla rappresentazione della Vergine come un’imperatrice bizantina ritratta in uno dei più celebri manoscritti della scuola della Reichenau (Heidelberg, Universitätsbibliothek, cod. Sal. IXb, f. 40v): la miniatura a piena pagina apre il Liber Sacramentorum del codice e raffigura Maria seduta su un trono privo di spalliera con un cuscino tubolare, tipico delle raffigurazioni della Vergine a Costantinopoli (si confronti il mosaico absidale di Santa Sofia), avvolta in un maphorion decorato con rote e incorniciata da un largo clipeo. Sebbene nello stile e nelle fatezze emerge indissolubilmente la tradizione miniaturistica sassone, l’iconografia appare legata ai costumi orientali, tanto da aver spinto alcuni studiosi a scorgervi addirittura un possibile ritratto della stessa Teofano. L’influsso della coeva miniatura bizantina sulla scuola della Reichenau – ma non solo – emerge anche in altri elementi: per esempio, nell’utilizzo di posture classiche per i ritratti degli Evangelisti inseriti in sfondi architettonici, anch’essi di gusto classicheggiante (si veda l’evangelista Luca nel Vangelo di Treviri, oggi a Praga, Museum of Czech Literature, MS D.F.III, f. 3, 104v); o nell’impaginazione e nell’iconografia dei cicli cristologici di alcuni dei più celebri codici ottoniani che si rifanno direttamente ai lezionari bizantini. Tra i più significativi, si ricordano il Codex Egberti della Reichenau, del 985 ca. (Stadtbibliothek di Treviri, cod. 24) e il sacramentario di San Gereone di Colonia (Bibliothéque Nationale di Parigi, cod. Lat. 817, del 996-1002).
Oltre che un’ispirazione iconografica diretta, l’arte ottoniana sperimenta anche il “riuso” di oggetti bizantini all’interno di manufatti elaborati in ambito sassone. Il caso più ricorrente sembra essere quello delle placchette eburnee riutilizzate nelle splendide coperte auree dell’evangeliario di Ottone III a Monaco (Staatsbibliothek, Clm. 4453), con una Dormizione della Vergine d’atelier costantinopolitano, o l’Hodigitria del Sacramentario di Fulda, del 1000 circa (Bamberga, Staatsbibliothek, Lit. 1).
Quello spirito di emulazione con Bisanzio che s’è detto contraddistiguere la corte ottoniana, soprattutto dopo gli anni di Teofano, trova ovviamente anche una sua giustificazione storica nella forte volontà di affermare saldamente le radici del “nuovo” Sacro Romano Impero d’Occidente da contrapporre a quello d’Oriente, e di cui la dinastia di Sassonia diviene erede diretta. È significativo a tal proposito il fatto che lo stesso figlio dell’imperatrice Teofano, Ottone III, avvolge la salma di Carlo Magno di cui la famiglia degli Ottoni ha accolto l’eredità, in un preziosissimo tessuto di seta del X secolo, che un’iscrizione assegna all’opificio del Grande Palazzo di Costantinopoli: un ideale trait d’union tra passato e presente all’ombra di Bisanzio.
Un altro personaggio di elevata caratura culturale segna una nuova stagione d’intense relazioni con Bisanzio sul piano artistico, oltre che politico: Desiderio di Montecassino. Dopo la sua nomina ad abate del monastero benedettino nel 1058, Desiderio avvia fin da subito una radicale opera di ricostruzione dell’intera abbazia, a cominciare dalla chiesa, la stessa consacrata da papa Alessandro II nell’ottobre del 1070.
I dettagliati resoconti trasmessi dagli scritti del tempo (i Chronica monasterii Casinensis di Leone Ostiense, e la Historia Normannorum di Amato di Montecassino) sono una fonte inesauribile per recuperare memoria del forte contributo delle maestranze bizantine chiamate dallo stesso Desiderio a intervenire in vari ambiti della nuova fondazione, in primo luogo dell’apparato d’immagine, per il quale vengono chiamati maestri direttamente da Bisanzio.
In realtà, già prima dell’avvio dei lavori della nuova fabbrica, Desiderio ha avuto modo di entrare in contatto con le officine costantinopolitane, commissionandovi la porta bronzea a due valve per il vecchio edificio, porta che oggi ancora in parte si conserva, pur se nascosta da una redazione successiva dell’iniziale XII secolo. Quella delle porte bronzee è, in effetti, una categoria di oggetti per cui l’Occidente guarda specificatamente a Costantinopoli, come confermano non solo il caso di Montecassino, ma anche quelli, altrettanto noti, della porta del duomo di Amalfi (dal quale lo stesso abate trae spunto per la commisione cassinese), delle vicine cattedrali di Atrani e di Salerno, di San Paolo fuori le mura a Roma, e altri ancora.
Per quanto concerne l’apparato figurativo in senso stretto della nuova basilica benedettina, si sa che Desiderio fa arrivare da Costantinopoli in primo luogo maestranze che possano attendere alla decorazione a mosaico della chiesa, laddove invece il quadriportico esterno viene dipinto da affreschi. È sui modi di questa presenza costantinopolitana che a immediato ridosso di tempo si esemplano gli affreschi della vicina chiesa del priorato di Sant’Angelo in Formis, presso Capua, e altri ancora, mentre a mosaico viene eseguita la decorazione, di cui restano pochi lacerti sull’arco absidale della cattedrale di Salerno, consacrata nel 1084.
Sempre a Montecassino, maestranze bizantine lavorano pure al pavimento in opus sectile, e soprattutto realizzano la sontuosa iconostasi, cui restano riferimenti nelle fonti, plasmata probabilmente sul modello aulico di quella di Santa Sofia di Costantinopoli. Dalla capitale dell’impero d’Oriente giunge anche molta suppellettile liturgica, tra cui un ricco antependium.
Il grande merito di Desiderio non risiede solo nell’aver importato oggetti e botteghe, ma aver fatto in modo che le stesse maestranze che egli chiama a lavorare a Montecassino possano formare una scuola locale di mosaicisti basata sulla tecnica e sullo stile costantinopolitani. Questo fa del colto abate il maggior promotore dell’arte bizantina nell’Italia meridionale dell’XI sec., ma con un’eco che si protrarrà fin ben oltre l’inizio del XII, di cui però non è sempre possibile, per le molte lacune (in modo particolare, della pittura monumentale), valutare appieno la persistenza sul territorio. In tal senso, sopperiscono in parte i numerosi codici miniati nello scriptorium dell’abbazia. Se il lezionario Vat. lat. 1202 costituisce il capolavoro cassinese, altri manoscritti e, soprattutto il folto gruppo degli Exultet, consentono di riconoscere con altrettanta efficacia, non solo lo spirito riformato che permea l’arte dell’epoca di Desiderio, ma testimoniano altresì quanto importante sia stata l’esperienza pittorica bizantina nella formazione dello stile dei copisti.
Sebbene quello bizantino funge da elemento catalizzatore, soprattutto nelle raffigurazioni a carattere narrativo (come chiarisce il caso dell’Anastasis dell’Exultet 1 della cattedrale dei Bari), va parimenti ricordato che non mancano apporti significativi dall’arte carolingia e ottoniana da una parte – come nelle iniziali decorate –, e paleocristiana dall’altra. L’anelito verso la tradizione classicista si individua nel simultaneo impegno di recuperare a Roma colonne e capitelli per la nuova abbazia, ma si consolida ancor più nel bel disegno della Dormitio Virginis di un omiliario cassinese 98 (Montecassino, Archivio dell’Abbazia, Casin. 98, pag. 186): forte di una confezione iconografica evidentemente bizantina, il miniatore propone una diretta citazione dall’antico nell’utilizzo del sarcofago strigilato sul quale riposa la Vergine, in luogo del tradizionale catafalco.
Un’altra categoria di oggetti la cui origine non si pone direttamente nell’entourage di Montecassino strictu sensu, ma a ridosso dell’egemonia commerciale della città di Amalfi nel Mediterraneo dell’XI sec. è quella degli avori. Lungo un asse Amalfi-Salerno (senza che sia stato possibile, finora, individuare con certezza assoluta il centro di lavorazione tra le due città campane) corre, infatti, la più copiosa produzione eburnea di sempre a queste latitudini. In particolare nel partito decorativo di talune placche della cosiddetta cattedra di Salerno, come nei tralci vegetali abitati da animali che inanellano gli olifanti, si colgono cogenti affinità con alcuni manufatti bizantini del X ed XI secolo, analogie che investono tanto la sfera esecutiva dell’intaglio nella delicata lavorazione del fogliame, quanto quella figurativa nell’uso, per esempio, poco comune, della stessa forma della cornucopia.
Tornando brevemente alla tradizione miniaturistica tra XI e XII secolo, assai più controversa è la questione relativa al rapporto che lega lo scriptorium dell’abbazia di Cluny con Bisanzio.
Sebbene il patrimonio cluniacense dell’epoca dell’abate Ugo si sia conservato solo in minima parte, v’è un gruppo ristretto di manoscritti, prodotto certamente a Cluny, che rileva un forte bipolarismo: se da un lato è evidente uno stile romanico di ascendenza ottoniana – tanto in talune immagini, quanto nello stile delle iniziali –, dall’altra vi si scorgono alcuni elementi bizantini la cui origine appare, come detto, difficile da identificare. Il più delle volte le due componenti convivono all’interno dello stesso manoscritto. Fanno parte di questo insieme lo splendido De verginitate Mariae di Ildefonso (Parma, Biblioteca Palatina, ms. 1650), nel cui colofone compaiono i ritratti dello scriba e del vescovo Godescalco di dichiarata ascendenza bizantina (o italo-bizantina); e ancora, il lezionario parigino 2246 (Parigi, Bibliothéque Nationale, Nouv. Acq. Lat. 2246); e infine, il foglio erratico con la raffigurazione di san Luca (Cleveland, Museum of Arts, J. H. Wade Fund 68.190). Ad ogni modo, l’influsso bizantino su questi manufatti, benché indiscutibile, va probabilmente mediato e giustificato con i fitti rapporti che la fondazione benedettina di Cluny intrattiene sia con Roma, ma soprattutto con Montecassino, senza però che ciò possa escludere a priori una conoscenza diretta di manufatti costantinopolitani.
Nel panorama delle relazioni tra l’Occidente e Bisanzio, rivestono ruoli del tutto peculiari il caso di Venezia e quello della Sicilia normanna. In entrambi i casi, anche se in epoche e condizioni storiche diverse, tanto la città lagunare quanto il regno dell’Italia meridionale manifestano una forte “dipendenza” dall’ideale artistico della capitale orientale. A differenza di quanto accade a Montecassino al tempo di Desiderio, Venezia e la Sicilia non si limitano solo all’acquisizione di manufatti bizantini o di sole maestranze greche, ma fanno propria l’ideologia stessa di arte imperiale che caratterizza la corte di Costantinopoli.
A fare della Sicilia normanna una sorta di avamposto dell’arte bizantina in Occidente contribuiscono certamente le grandi campagne musive completate tra il terzo quarto e l’ultimo decennio del XII secolo, ma anche una larga produzione di manufatti di chiara derivazione orientale. All’interno del Palazzo Reale di Palermo sono attivi numerosi opifici, direttamente dipendenti dal sovrano (come accade, d’altronde, nelle officine del Grande Palazzo), in cui vengono realizzati tessuti e confezionati gli abiti del sovrano, manufatti in cui spesso si sommano le due anime culturali della Sicilia del XII secolo: quella islamica, rintracciabile in alcuni elementi decorativi direttamente desunti dal catalogo delle decorazioni monumentali (in particolare, gruppi di animali affrontati), e quella bizantina nella realizzazione di peculiari tipologie accessorie (per esempio, il loros). Benché si sia conservata in misura minore rispetto agli oggetti d’arte secolare, altrettanto significativa è la produzione della ricca suppellettile liturgica delle chiese regie. Al contempo sono attivi sull’isola centri sia di produzione manoscritta, sia di pittura su tavola. Oggetto di probabile fattura siciliana è, per esempio, la bella icona della Vergine con Bambino oggi al Museo Diocesano di Palermo, di cui le fonti restituiscono il nome del committente (Matteo d’Ajello, cancelliere di Guglielmo II) e la datazione, legata alla dedicazione, nel 1171, della chiesa palermitana di Santa Maria de Latinis. Le eleganti posture della Madre e del Figlio, l’incarnato delicato, il rindondate e frenetico avvolgersi di cordoli di stoffa delle vesti e la ricercata crisografia che solca l’himation di Cristo sono elementi che si aprono verso l’orizzonte della produzione tardo-comnena della pittura su tavola costantinopolitana.
Ugualmente intricato appare il legame tra Venezia e Costantinopoli fra il XII ed il XIII secolo. Già la sola basilica contariniana di San Marco compendia, tanto nella scatola architettonica quanto, soprattutto, nella decorazione musiva, il forte debito della città lagunare verso Bisanzio: il rimando – reale o presunto, ma comunque citato nelle fonti già ab antiquo – al sistema pentacupolato dell’Apostoleion costantinopolitano, e lo stile e l’iconografia della decorazione musiva (soprattutto della chiesa, e in parte dell’atrio) rivelano relazioni complesse con l’arte bizantina. Un rapporto che però non si esaurisce in una passiva sudditanza ed asettica dipendenza, quanto piuttosto in una prolifica ispirazione culturale che si connatura all’essenza stessa della contemporanea arte veneziana: lo confermano, per esempio, le diverse fasi della decorazione musiva della chiesa di Santa Maria Assunta di Torcello.
Accanto al tradizionale patrimonio figurativo veneziano, si pone con eguale rilevanza anche la copiosa eredità materiale che la città importa da Costantinopoli. In tal senso, un sensibile mutamento nelle relazioni veneto-bizantine si verifica in seguito al terremoto storico del 1204.
Il sacco di Costantinopoli non segna solo la partizione dei territori bizantini tra crociati e Veneziani, ma eleva la Repubblica a potenza egemone del Mediterraneo orientale. Questa nuova condizione spinge Venezia a un’ingente appropriazione non solo del prestigio politico, ma anche della identità artistica e religiosa della città di Costantinopoli. A questa data infatti molte delle preziose reliquie costantinopolitane come pure oggetti provenienti dai tesori delle chiese sul Bosforo prendono la via verso l’Adriatico e oggi costituiscono in gran parte il tesoro della basilica di San Marco, e non solo. Il significato politico dei quattro cavalli bronzei usurpati all’ippodromo costantinopolitano; il gruppo porfireo dei tetrarchi, oggi incastonato nell’angolo sud-ovest della basilica; i pilastri acritani che troneggiano di fronte all’ingresso della chiesa marciana; gli stessi spolia marmorei che ornano la sua fiancata meridionale, sono alcuni dei simboli che la Repubblica adotta per ribadire la propria supremazia politica sulla caduta – almeno per il momento – di Bisanzio. Allo stesso modo, l’acquisizione di reliquie, icone e oggetti liturgici provenienti dalla capitale saccheggiata vengono assimilati nel cerimoniale liturgico della basilica: alcuni vasi fatimidi in cristallo di rocca; calici e patene in pietre dure bizantini e decorati con smalti cloisonnés databili dal X sec.; il bel bruciaincenso che riproduce il modello di una chiesa a croce greca con cupole; la splendida icona a mezzo busto dell’arcangelo Michele, opera costantinopolitana realizzata in lamina sbalzata e dorata, decorata con gemme, perle e smalti cloisonnés più antichi; e, all’interno della basilica, la grande Pala d’Oro, un sontuoso collage medievale di smalti rimaneggiati in epoca diversa.