SEVERI, LEONARDO. – Nacque a Fano il 31 dicembre 1882, figlio di Zaccaria e di Giulia Masarini. Di famiglia nobile, completati gli studi classici nel 1900 con licenza d’onore, si trasferì a Roma, dove conseguì la laurea in giurisprudenza il 12 luglio 1904. Cominciò subito la carriera nell’amministrazione dello Stato. All’inizio, come alunno di prima categoria al ministero dell’Interno per due anni; poi, alla Pubblica istruzione, dove svolse una lunga e proficua carriera che lo portò ai vertici della gerarchia, fino a occupare, dopo il 25 luglio 1943, la carica di ministro dell’Educazione nazionale nel governo postfascista del maresciallo Pietro Badoglio. Alla Minerva, come allora era chiamato il ministero della Pubblica istruzione (dal nome della piazza dove aveva sede il dicastero prima di traslocare, nel 1928, nell’edificio di viale Trastevere), giunse nel 1907 dopo aver superato con successo il concorso di vicesegretario. Nel quadro dell’applicazione della legge Daneo-Credaro, con la quale nel 1911 cominciava il grande processo di trasferimento allo Stato della gestione dell’istruzione elementare, Severi fu inviato a Potenza nel 1913, in qualità di provveditore agli studi con l’incarico specifico di realizzare le disposizioni della riforma. Nel 1908, intanto, aveva sposato Clementina Badaloni. Due anni dopo era nata la prima figlia, Graziella, e nel 1911 Zaccaria Giulio (Focardi, 2006, p. 1663). Liberale (fin dal 1904 aveva aderito all’Unione liberale di Fano), con lo scoppio della Prima guerra mondiale Severi partì volontario per il fronte. Sottotenente, poi tenente, infine capitano degli alpini, fu decorato con croce di guerra e medaglia di bronzo al valor militare.
Dopo la guerra divenne segretario capo del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. Croce ministro, nel quinto e ultimo dei governi presieduti da Giovanni Giolitti, dal 15 luglio del 1920 al 4 luglio 1921, Severi ne divenne collaboratore tecnico (cfr. Tognon, 2016, p. 368), legandosi così per una lunga stagione al progetto di riforma liberale della scuola italiana. Fu Croce infatti a presentare Severi a Giovanni Gentile, il quale divenuto a sua volta ministro nel 1922, lo nominò suo capo di Gabinetto, carica che Severi tenne fino al 1924. Nel luglio di quell’anno, dimessosi Gentile e con l’intento esplicito di vegliare sulla riforma, Severi divenne direttore generale dell’Istruzione media. Il ministro era Alessandro Casati e la sua nomina, concordata tra Gentile stesso e Benedetto Croce, era giunta solo dopo il netto rifiuto di Croce di prendere il posto dell’amico al governo della scuola italiana (Charnitzky 1996, p. 202). Severi rimase in carica fino all’ottobre del 1928. La nomina di Severi alla direzione generale dell’Istruzione media garantì a Gentile un «prezioso appoggio per il varo della riforma e un solido argine per la sua applicazione» (Galfré, 2000, p. 49). Collocato in una posizione chiave del governo burocratico della scuola, dalla quale esercitava un potere «quasi assoluto» sulle questioni relative al personale (era anche il membro più influente della II Commissione che trattava degli affari disciplinari), Severi svolse senz’altro il suo compito in linea con le indicazioni che, puntuali, continuavano a giungergli dall’ex ministro. Il 4 gennaio 1925 così scriveva al filosofo: «Eccellenza, conservo la Sua cara lettera come la più autorevole e gradita attestazione sebbene non possa credere di meritarla fuorché per l’ostinazione che io metto nel seguire le sue direttive». Non meno vasto fu il controllo esercitato sui programmi di insegnamento e sulla loro applicazione negli istituti. Dalla sua posizione al ministero, Severi poteva infatti mobilitare una vasta schiera di ispettori centrali e capi divisione capaci di esercitare a loro volta un capillare controllo sugli istituti tramite le relazioni dei presidi, esaminate sempre con grande attenzione e scrupolo (Galfré, 2000, pp. 49 s.). Ma già nel gennaio 1925, dopo l’uscita di scena di Casati, il quadro si fece molto complicato e difficile divenne manovrare in difesa della riforma. Ancora nel dicembre precedente, nell’ambito della discussione parlamentare sullo Stato di previsione della spesa del Ministero dell’Istruzione Pubblica per l’esercizio finanziario dal 1° luglio 1924 al 30 giugno 1925, Alessandro Casati era riuscito a ottenere un largo voto a favore dell’impianto generale della riforma. Tuttavia le condizioni che si andavano profilando dovevano apparire già chiare se in un breve biglietto di quel mese, Gentile scriveva all’allora e ancora per poco ministro: «Bada a non lasciarti strappare dalla Camera promesse di concessioni per gli esami di maturità. Sarebbe un disastro» (Carteggio Gentile-Casati, 2016, p. 205). La più fascista delle riforme, come l’aveva definita a suo tempo Mussolini, del fascismo contraddiceva un elemento essenziale: la logica di massa. La riforma Gentile aveva immaginato una scuola secondaria presidiata da solide barriere alle sue porte che sempre più tuttavia confliggeva con la possente spinta alla certificazione educativa proveniente da una società italiana in rapida trasformazione.
Severi svolse un ruolo importante con l’arrivo alla Pubblica istruzione di Pietro Fedele, notoriamente ostile a Gentile. La lettera del 4 gennaio citata più sopra aveva come scopo proprio quello di tranquillizzare il filosofo sulla tenuta del fronte della riforma nelle mutate condizioni politiche. Schierandosi da subito con le richieste di mitigazione della severità dell’impianto gentiliano avanzate dal fascismo, il nuovo ministro non solo concesse una terza sessione di esami agli studenti delle scuole medie, ma con il regio decreto n. 2473, del 31 dicembre 1925, emanò una versione attenuata dei programmi di insegnamento al fine di temperarne il rigore originario. Fin dall’inizio, Severi si mosse per ostacolare Fedele con il solo risultato però di venir emarginato dal processo decisionale del ministero. Come scrisse a Gentile il 27 settembre 1925: «Tutto quanta riguarda i programmi è trattato dal Ministro direttamente con gli ispettori centrali i quali per correttezza mi tengono informato. Che cosa posso fare? Io manifestai due o tre volte a S.E. il mio dissenso; ma come si vede, non lo convinsi; lo convinsi a fare a mia insaputa» (cit. in Charnitzky 1996, p. 222 nota).
Derivarono da questo stretto legame con il filosofo, in quanto «uomo di Gentile», le campagne diffamatorie di cui Severi divenne oggetto fin dal 1925 ad opera del giornale fascista L’Impero. E fu probabilmente sotto la pressione di simili attacchi che Severi si risolse nel 1926 a prendere la tessera del Partito nazionale fascista (Focardi, 2006, p. 1665). Questo non valse però a metterlo al riparo tanto dalla diffidenza dei gerarchi fascisti, segnatamente di Michele Bianchi e Achille Starace, quanto dal fastidio che la sua presenza alla Minerva recava ai successori di Gentile. L’ 1 ottobre 1928, con il regio decreto n. 2248, concernente il collocamento a riposo «di autorità» di funzionari della carriera amministrativa dell’Amministrazione centrale del ministero della Pubblica istruzione, il nuovo ministro Giuseppe Belluzzo ottenne di poter rimuovere dal suo incarico il direttore generale dell’Istruzione media, a norma dell’articolo 2 del decreto che dava la possibilità al ministro di procedere «indipendentemente dalle condizioni stabilite dalle leggi civili e militari» in relazione a tutti i funzionari dell’ amministrazione centrale della pubblica istruzione di grado superiore al quinto (G.U. n. 246, 22 ottobre 1928, pp. 5115-5116). A nulla valsero interventi autorevoli a favore di Severi e tra questi la mossa di padre Pietro Tacchi Venturi, che in una lettera a Mussolini del 28 ottobre faceva notare che «la Santa Sede è particolarmente grata al detto funzionario [Severi] pel modo col quale ha sempre trattato gli istituti privati cattolici e venne applicando la riforma Gentile che tanti vantaggi arreca ai medesimi» (cit. in Galfré, 2000, p. 119 nota). Il fatto è che Belluzzo era «peggio di Fedele» per Gentile e attraverso Severi colpiva l’ex ministro e la sua pretesa di ingerirsi nel governo della scuola. Alla base dello scontro ci sarebbe stata la decisione di Mussolini di avocare al ministero della Pubblica istruzione le scuole professionali dipendenti dal dicastero dell’Economia nazionale di cui proprio Belluzzo era responsabile, prima che il capo del fascismo lo nominasse alla Minerva e in qualità di nuovo ministro della scuola italiana gli affidasse il compito di gestire la transizione. Belluzzo si era opposto a questa decisione e fin dal giugno del 1927 aveva difeso le ragioni della permanenza dell’istruzione professionale nell’ambito della competenza tecnica e amministrativa dell’ Economia nazionale (Scotto di Luzio 2007, pp. 179 s.). Qualche mese più tardi, in novembre, durante una riunione del Gran consiglio, nella quale sedeva in qualità di presidente dell’Istituto nazionale fascista di cultura, fu proprio Gentile, contro il parere di Belluzzo, ad esprimersi a favore del passaggio dell’istruzione professionale al ministero della Pubblica istruzione. Sebbene non abbia avuto nessun effetto sulla maturazione della decisione di Mussolini, Belluzzo ne ritenne Gentile responsabile (sul contesto di questa decisione cfr. Charnitzky 1996, pp. 240 ss.; Scotto di Luzio, 2007, pp. 179-186). Più recentemente, Alessandra Tarquini ha ritrovato le dichiarazioni di alcuni informatori di polizia secondo i quali il fatto che il filosofo avesse «preparato l’annessione alla Minerva delle scuole professionali che prima dipendevano dall’Economia nazionale» spiegherebbe i suoi cattivi rapporti con Belluzzo, il quale essendo «vendicativo, ha liquidato, rovinandolo il Direttore generale Severi, che è dipinto come il migliore Alto funzionario dell’Istruzione, ed ha avuto il torto di applicare le leggi vigenti» (cit. in A. Tarquini 2009, p. 129). Collocato forzatamente a riposo per i suoi rapporti con Gentile, fu proprio il filosofo a soccorrere il suo prezioso collaboratore. Lasciata Roma e trasferitosi a Milano, Severi ottenne tra l’altro la direzione di un ufficio distaccato dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana. A Milano fu anche per un breve periodo funzionario della Rizzoli, la casa editrice fondata nel 1927.
L’ «esilio» di Severi durò fino al 1932 quando, grazie anche all’aiuto del senatore Luigi Simonetta, che era stato membro del Consiglio superiore della Pubblica istruzione, poté ottenere la nomina a Consigliere di Stato. Assegnato alla V Sezione, dove restò per ben quindici anni, il 1° ottobre del 1947 ne divenne il presidente per poi essere nominato l’ 8 febbraio 1951, in quanto presidente di Sezione con più anzianità, al vertice del Consiglio di Stato stesso. Nell’attività spesa per il Consiglio di Stato, Severi poté mettere a frutto la lunga e notevole esperienza maturata al ministero della Pubblica istruzione. Tanto nella Relazione annuale del 1931-1935 che in quella del 1936-1940, sua è la parte relativa a Gli insegnanti e Attività inerenti all’Educazione nazionale. Alla quinta Sezione si occupò anche di arbitrati e, in modo particolare, di quelli che vedevano coinvolti i Lavori Pubblici e il ministero della Guerra. Esaminatore nelle scuole all’estero tra il 1937 e il 1938, alla fine degli anni Trenta partecipò a numerose commissioni nominate da Giuseppe Bottai ministro dell’Educazione nazionale, al quale lo legavano rapporti di antica data. Al ministero ora denominato dell’Educazione nazionale in verità Leonardo Severi era tornato con ben altro titolo, riassumendo nel 1940 il ruolo di direttore generale dell’ordine superiore classico (vedi lettera a Gentile del 4 ottobre 1940). Nominato consigliere giuridico del ministero della Cultura popolare nel 1943, dopo il 25 luglio, su segnalazione di Marcello Solari al ministro della Real Casa, il conte Acquarone, fu indicato come ministro dell’Educazione nazionale nel primo governo Badoglio.
In questo ruolo, Severi provvide alla sostituzione di molti rettori dell’Università italiana con personalità di orientamento antifascista. È il caso di Pietro Calamandrei a Firenze, Luigi Einaudi a Torino, Adolfo Omodeo a Napoli, Guido De Ruggiero a Roma, Luigi Russo a Pisa e un perplesso e dubbioso Concetto Marchesi a Padova (cfr. Canfora, 2005, pp. 92 s.). Severi si impegnò anche nell’istituzione di una commissione «per il riordinamento e l’epurazione universitaria», di cui chiamò a far parte tra gli altri Calamandrei e Omodeo, con lo scopo di avviare la defascistizzazione degli ordinamenti universitari e vagliare la posizione di quei professori che più si erano compromessi con il regime mussoliniano (Woller, 2004, p. 38).
L’episodio più clamoroso che caratterizzò la sua attività di ministro fu però la dura lettera pubblica con la quale il 4 agosto 1943 Severi respinse la presunta offerta di collaborazione rivoltagli da Giovanni Gentile a fine luglio, rinfacciandogli il Discorso agli italiani del 24 giugno e dichiarando che il ministro dell’Educazione nazionale di «un governo che ripristina la libertà» «non può più averla tra i suoi consiglieri» (cit. in Turi, 1995, p. 502). La lettera di Severi era particolarmente insidiosa perché finiva per esporre Gentile alle accuse di tradimento da parte del fascismo più intransigente, scoprendo il filosofo sul duplice fronte del fascismo e dell’antifascismo, isolandolo e spingendolo anche per questo di lì a poco ad accettare la nomina a presidente dell’Accademia d’Italia. In questo modo Gentile finiva per legarsi fatalmente all’ultima e più cruenta fase della traiettoria mussoliniana, diventando anche per questa via un facile e comodo bersaglio. Vale la pena notare che l’Accademia d’Italia aveva sede a Firenze, capitale culturale della Repubblica sociale italiana ha scritto Canfora, dove il filosofo venne assassinato il 15 aprile 1944 (cfr. Canfora, 2016, p. 727).
Le lettere inviate da Gentile erano quattro. La prima, in realtà, spedita il 27 luglio era per congratularsi della nomina e perché, preoccupato per la sorte del figlio Benedetto, Severi spendesse una parola in suo favore presso il ministro degli Esteri Raffaele Guariglia. Le altre tre, inviate in successione il 29, il 30 e il 31 luglio – conservate dal nipote di Leonardo Severi, Giulio Colavolpe Severi –, sono state pubblicate da Luciano Canfora nel libro dedicato all’assassinio di Giovanni Gentile, La sentenza. Gentile era allora direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, figura eminente della cultura italiana e professore universitario. Stava cioè al centro di una trama fittissima di rapporti accademici. Al nuovo ministro scriveva da professore universitario per questioni universitarie circa l’opportunità innanzitutto di prorogare i concorsi in scadenza, viste le condizioni di guerra e l’impossibilità per molti candidati di dare alle stampe loro pubblicazioni o, in alcuni casi, di farle giungere al ministero. C’era poi la richiesta di sostituire Vladimiro Arangio Ruiz alla vicedirezione della Normale. Arangio Ruiz era ammalato e «incapace di reggere alle fatiche» dell’incarico pisano. Gentile chiedeva che al suo posto andasse Delio Cantimori. C’era infine la questione della successione di Pietro Fedele e la contesa per la cattedra di storia medievale tra Gioacchino Volpe e Raffaello Morghen. Gentile interveniva su sollecitazione degli organi accademici (Canfora, 2005, pp. 97-101). Non proprio dunque una offerta di collaborazione, né ad essere onesti dei consigli per guidare l’azione del ministro.
A questa serie di lettere Severi volle dare un risalto tutto politico che si spiega solo con la necessità, per lui ministro del governo Badoglio, di affermare la propria autonomia, sottraendosi in pubblico alla tutela di una figura tanto ingombrante nella sua storia politica e personale (cfr. Turi, 1995, p. 503). In quei giorni di agosto, Severi doveva infatti affrontare in seno al Consiglio dei ministri, la reintegrazione nel loro ruolo di professori che erano stati rimossi per motivi politici dal regime, apprestandosi nello stesso tempo alle importanti nomine ai vertici dell’Università italiana di cui prima si è detto. Nella commissione per il riordinamento e l’epurazione delle università, inoltre, in cui sedeva tra gli altri Adolfo Omodeo che di Gentile era stato allievo, si sarebbe posta di lì a poco la questione del destino accademico del filosofo, che avrebbe dovuto togliere tutti dall’imbarazzo chiedendo il collocamento anticipato a riposo. Insomma, i nodi al pettine erano molti e Severi cercava una legittimazione anche attraverso la plateale mossa contro Gentile.
Prima di rispondere sui giornali, Severi aveva privatamente ringraziato il filosofo il 2 agosto per il biglietto del 27. Per «le Sue gentili, affettuose espressioni», vi si legge (come d’altronde aveva fatto Bartolini, ministro delle Finanze, a cui Gentile aveva mandato un analogo biglietto, cfr. di Lalla, 1975, p. 539). E rassicurandolo riguardo al figlio: «Ho visto stamane Guariglia che mi ha informato che lascerà Benedetto al suo posto. Lo conosce e, naturalmente, lo stima». «Il peso è grave – aggiungeva – e da Lei e da alcuni altri che mi vogliono bene si fa soverchio affidamento sulle mie modeste forze». La lettera del 4, invece, aveva un ben altro contenuto. Severi vi definiva «consigli» quelli che Gentile aveva nella sua lettera del 29 chiamato «appunti», specificando che due di essi riguardavano questioni «urgenti». E come consigli, non poteva accettarli. Dal 1924 e fino all’ «infelice discorso del 24 giugno di quest’anno», Gentile «non aveva esitato a mettersi al servizio della tirannia – e quale tirannia – e con l’autorità allora indiscussa del Suo nome ha contribuito più che tanti altri a rafforzarla».
La lettera di Severi, pubblicata inizialmente sul Giornale d’Italia e su La Nazione, il 7 agosto su tutti i quotidiani nazionali e nuovamente l’8 agosto sul Giornale d’Italia con grande rilievo, parve inutilmente brutale a molti, che non mancarono di far giungere a Gentile i sensi della propria vicinanza. Così Anita Mondolfo, che era stata la direttrice della Biblioteca nazionale di Firenze; e così Ugo Guido Mondolfo, che era stato colpito dalle leggi razziali e che pur non mancando di dichiarare il proprio vivo dispiacere nei confronti di un filosofo che aveva posto la sua cultura al servizio della dittatura, gli riconobbe l’azione svolta all’interno del fascismo per «risparmiare o attenuare il danno che esso cercò sempre di infliggere ai non consenzienti» (cit. in Turi, 1995, p. 503). Lo stesso Croce che pure con Gentile aveva interrotto ogni rapporto dal 1924 non poté fare a meno di deplorare l’intervento di Severi (ibid.). Dopo l’8 settembre, come racconta Giovanni Focardi, Severi riparò in San Giovanni in Laterano, dove si trovavano altri esponenti politici e dove strinse rapporti con Ivanoe Bonomi e Alcide De Gasperi. Da Bonomi ricevette l’incarico di una missione da svolgersi in provincia di Pesaro e a Fano, sua città natale, in modo particolare. Lì probabilmente aveva il compito di valutare per conto di un nuovo governo lo stato dei pubblici servizi e forse riallacciare i rapporti con gli esponenti locali della vecchia galassia liberale. Deferito al giudizio della Commissione per l’epurazione del Consiglio di Stato, nessuna sanzione venne deliberata a suo carico. Nell’occasione tanto Alessandro Casati quanto Benedetto Croce fecero giungere al giurì lettere di elogio a suo indirizzo. Proprio con Casati nel marzo del 1946 collaborò alla stesura della relazione sui problemi della scuola da presentare al congresso dei liberali (Focardi, 2006).
Tra il 1944 e il 1947, Severi fu membro di numerose commissioni. Tra le altre, quella per la riforma dell’amministrazione creata dalla Presidenza del Consiglio, presso la quale ricoprì il ruolo di presidente della sottocommissione «decentramento amministrativo» oltre che componente di quelle dedicate alla «Regione» e alla «Burocrazia». Nel 1945-1946, il ministero per la Costituente lo volle membro della Commissione di studi per la riorganizzazione dello Stato (sottocommissioni «Problemi costituzionali» e «Organizzazione dello Stato»). Nel 1948 presiedette la commissione di tutela del Pio Istituto di S. Spirito in Sassia ed Ospedali riuniti di Roma. Nel 1949 venne nominato commissario straordinario dell’Ente universale esposizione di Roma. Numerose anche le onorificenze ricevute tra il 1914 e il 1924, quando era stato insignito del titolo di Grand’ufficiale.
Messo a riposo per sopraggiunti limiti d’età nel dicembre del 1952, Luigi Einaudi rinnovò al presidente uscente del Consiglio di Stato il suo «cordiale saluto formando l’augurio più fervido che il Paese po[tesse] ancora contare sulla sua preziosa opera» (pp. 1670- 1671).
Morì a Fano il 28 maggio del 1958.
Il carteggio tra Leonardo Severi e Giovanni Gentile, che conta più 222 lettere scambiate, 7 telegrammi e un biglietto scambiati tra il 3 giugno 1922 e il 30 agosto 1943, è conservato nell’archivio della Fondazione Gentile. Oggi è consultabile online presso il Patrimonio dell’archivio storico del Senato della Repubblica al seguente indirizzo: https://patrimonio.archivio.senato.it/inventario/fondazione-gentile/fondazione-giovanni-+gentile-fondo-istituzionale . Il fascicolo di Severi all’Archivio centrale dello Stato è conservato tra le carte della Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 78, HR; G. Gentile, Epistolario, XV, Carteggio Gentile-Casati, a cura di e con introduzione di F. Mazzei, s.l. 2016. M. di Lalla, Vita di Giovanni Gentile, Firenze 1975, ad ind.; G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Giunti, Firenze 1995; J. Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), Scandicci (Firenze) 1996; M. Galfré, Una riforma alla prova. La scuola media di Gentile e il fascismo, Milano 2000; H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia. 1943-1948, il Mulino, Bologna 2004; L. Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo 2005; G. Focardi, Leonardo Severi, in Il Consiglio di Stato nella storia d’Italia. Biografie di magistrati. 1861-1946, a cura di G. Melis, Milano 2006, pp. 1663-1675 (anche per la ricchissima bibliografia e indice delle fonti); A. Scotto di Luzio, La scuola degli italiani, Bologna 2007; A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna 2009; L. Canfora, Gentile dal Discorso agli italiani alla morte, in Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, Roma 2016, pp. 720-729; G. Tognon, Croce ministro della Pubblica Istruzione, ibid., pp. 366-371