BATTAGLIA Achille (Viterbo, 31 ottobre 1893-Roma, 21 febbraio 1960).
Secondogenito di Luigi e di Angela Ballarati, proveniva da una famiglia della borghesia viterbese che attraverso entrambi i coniugi aveva non pochi collegamenti con la vicenda democratica dell’epoca. Il padre, avvocato, esponente di una famiglia legata al mondo del diritto fin dal XVIII secolo, già presidente dell’Ospedale cittadino e consigliere comunale, fu eletto sindaco della città nel 1917, dopo Caporetto, sostituendo Giovan Battista Savini, anch’egli espresso dalla coalizione di blocco popolare affermatasi nel capoluogo della Tuscia sulla scia dell’esperimento avviato nel 1907 da Ernesto Nathan a Roma. La madre era figlia di Achille Ballarati, sindaco di Valmontone, mentre lo zio, Giuseppe, fu agitatore sociale, organizzatore di un movimento contadino nelle campagne laziali e fondatore nel 1906 del periodico de «La Difesa del contadino».
Battaglia compì gli studi superiori a Viterbo (Pierotti, p. 51), non senza alcuni inciampi dovuti a una certa giovanile intemperanza, denunciata al padre nell’aprile 1912 dal preside del liceo ginnasio Umberto I. Si iscrisse poi alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma. Con l’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale partì invece volontario, insieme con i suoi due fratelli, uno dei quali, Alessandro, cadde nel 1916. Battaglia fu gravemente ferito, poi promosso e decorato. Curato nell’ospedale militare di Roma, volle dopo Caporetto ritornare al fronte. Raggiunse nel gennaio 1918 il fratello Ugo che comandava il XXXIII gruppo di obici. Conclusero insieme la guerra, vivendo prima a Opicina e poi a Fiume, da dove furono congedati poco prima dell’occupazione operata da Gabriele D’Annunzio.
«Dopo qualche mese di sbandamento», passato a Torino e Milano, Battaglia andò a vivere «un breve tempo, gogliardicamente [sic], a Roma, in va XXIV Maggio, col cugino Felice» (lettera di Ugo Battaglia alla nipote Giulia). Per la menomazione del braccio riportata sul Carso intendeva rinunciare al matrimonio cui pensava prima della guerra ((TAA di Adolfo Battaglia). Si sposò poi il 29 giugno 1920 con la fidanzata Anna Teresa (Annie) Cancani-Montani (1895-1972). Proveniente da una famiglia romana legata agli ambienti papalini, che fino al Concordato del 1929 rifiutò di esporre il tricolore, era figlia della contessa Virginia de Cadilhac e del fisico Adolfo, sismologodi valore cui si deve la Scala Mercalli-Cancani tuttora in uso (Ferri 1974). Morto il padre nel 1904, Annie crebbe con gli zii paterni e studiò presso l’esclusivo Istituto Sacro Cuore della Trinità dei Monti, tenuto da suore francesi, dal quale fu espulsa per indisciplina (TAA di Adolfo Battaglia). Dal loro matrimonio nacquero Maria Felice (1921), Giulia (1922), Sandra (1923) e Adolfo (1930).
Anche per Battaglia la guerra fu un’esperienza decisiva. Si legò ad altri esponenti dell’interventismo democratico e in particolare ai promotori e collaboratori di «Volontà», il periodico interventista pensato nelle trincee già nel 1917, diretto da Vincenzo Torraca e finanziato da Lucangelo Bracci Testasecca, primo nucleo di elaborazione di un progetto democratico per il paese.
«Volontà» può essere ascritto a quella riflessione di respiro globale aperta dalla guerra sulla fisionomia delle società contemporanee, alle prese con gli straordinari processi di trasformazione connessi col confitto. Esso aveva mostrato nel nostro caso la terribile concretezza del farsi degli italiani, sicché quello che era apparso fino ad allora il «popolo più indisciplinato, più cialtrone, più volubile, più venale, più smidollato del globo terracqueo» si era in realtà rivelato nei soldati e negli ufficiali, cioè nelle masse popolari e nella borghesia combattente, sostanzialmente nazione: «Bisogna che gli Italiani edifichino nel loro spirito l’Italia» (Volontà, a. I. n. I, 5 settembre 1918. Il corsivo è nel testo). Erano tutti elementi centrali, che avrebbero animato la riflessione liberale e democratica da una parte e nazionalfascista dall’altro, a riprova del fatto che il conflitto degli anni postbellici fu irriducibile proprio perché investiva i tratti essenziali delle fondamenta su cui inserire gli stati nazionali in accelerato mutamento.
Della stagione del combattentismo e dei suoi tentativi di trasformarsi in fatto politico, Battaglia fu uno dei più vivaci e attivi partecipanti. Prese parte al convegno di Rinnovamento, promosso nel giugno del 1920 dalla Lega democratica salveminiana, espressione dei tentativi molteplici di dare uno sbocco politico democratico a quell’unità morale che «Volontà» aveva visto divenire realtà nelle trincee. Si impegnò nell’obiettivo di coinvolgere l’Associazione Nazionale Combattenti in questo disegno, facendo parte con Camillo Bellieni, Mario Bracci e Federico Comandini della commissione che assicurava il coordinamento dei “gruppi d’azione per il rinnovamento politico”, guardando in particolare all’universo contadino del Mezzogiorno. Battaglia scrisse due opuscoli - L’Opera Nazionale Combattenti e la cooperazione e Le Casse agrarie e il problema del credito agrario nel Mezzogiorno-, che testimoniavano di questo interesse, mentre il progetto del movimento combattentista si esaurì rapidamente, come constatò nell’articolo dell’autunno 1921 La fine del partito nazionale dei combattenti. (in «Rivista Romana», anno I, n. 1, 15 novembre-15 dicembre 1921).
Nel 1920 Battaglia divenne redattore del «Popolo romano», quotidiano di orientamento democratico-nittiano, rinnovato da Vincenzo Torraca. I fasti del giornale erano precedenti allo scandalo della Banca romana, nel quale aveva finito coll’essere coinvolto. E anche il nuovo tentativo visse solo il tempo del rilievo di Nitti, per chiudere definitivamente nell’ottobre 1922. I Battaglia abitavano allora in via dell’Umiltà e nei primi anni venti la loro casa fu uno dei luoghi di ritrovo dell’antifascismo democratico in formazione. Vi passava il giovanissimo Piero Gobetti, quando scendeva di primo mattino dal treno che da Torino lo portava a Roma. In quell’ambiente, «più le cose andavano male e più si esercitava lo spirito scanzonato di alcuni di essi, alla cui testa era l’indimenticabile amico Achille Battaglia», ha testimoniato Jolanda Torraca (pp. 74-5). Dopo la marcia su Roma, chiuso il quotidiano e in difficoltà economica, i Battaglia tornarono a Viterbo. Achille si laureò in giurisprudenza all’Università di Perugia nell’ottobre 1923 con una tesi in Diritto penale, I delinquenti abituali. Iniziò l’attività forense nello studio paterno, situato nel palazzo di famiglia in piazza San Simeone.
Promosse a Viterbo col fratello Ugo il settimanale «La Nuova Provincia», il cui nome si riallacciava al disegno di ricostituire l’antica struttura istituzionale, cancellata con la soppressione della Delegazione apostolica di Viterbo dopo lo scioglimento dello Stato Pontificio. Pubblicato tra l’agosto 1923 e il febbraio 1924, il giornale fu uno strumento essenziale nel contrasto al fascismo al governo del paese. Si oppose al cosiddetto “Patto di trincea” tra il Pnf laziale e l’Anc, che finiva col prospettare l’assorbimento della seconda nel primo (Sul “Patto di trincea”, in «La Nuova Provincia», 24 settembre 1923). Fin dal febbraio 1924, peraltro, Battaglia andava organizzando all’interno dell’Anc viterbese un gruppo legato a «Italia libera», il movimento antifascista sorto nel 1923 e addentro ai gruppi combattentistici. Il 28 gennaio 1924 venne eletto presidente della sezione viterbese dell’ANC: la sua lista prevalse per 25 voti su circa 250 votanti. «La Nuova Provincia» lesse quel voto come la conferma dell’indipendenza dell’Anc da qualsiasi partito politico. L’elezione di Battaglia significava però una sconfessione della precedente gestione, esplicitamente fascista. Lo scontro fu inevitabile, dato il profilo antifascista di Battaglia sia nell’attività giornalistica sia nelle reti alle quali apparteneva e con le quali manteneva i rapporti. Ne conseguì un primo avvertimento. Una notte, i fascisti assaltarono e sfregiarono la sede dell’Anc. Più avanti, le copie della «Nuova Provincia» appena stampate furono sequestrate e bruciate, provocando la reazione del settimanale che fu mite e contenuta (La Nuova Provincia al rogo, in «La Nuova Provincia», 17 febbraio 1924). Violento, al contrario, continuò ad essere il tono del foglio fascista «La Rocca», che esplicitava l’inammissibilità di qualsiasi forma di opposizione al governo espresso dal Pnf. Alle violenze e alle minacce seguì così il ritiro dei finanziatori e il settimanale dovette cessare le pubblicazioni (De Amicis, Combattenti cit., p. 269).
La lotta interna alla sezione di Viterbo, tuttavia, continuò. Il 15 febbraio 1925, dopo un’aspra contesa Battaglia venne rieletto presidente. A quel punto, il prefetto di Roma sciolse la sezione il 6 maggio per «attività antinazionale e diretta a sovvertire i poteri dello Stato» (De Amicis, p. 353). Con la partecipazione ai congressi nazionali, specie a quello di Assisi conclusosi col compromesso della nomina a presidente dell’Associazione di Ettore Viola, Battaglia non era più una figura provinciale.
L’analisi politica che Battaglia andava sviluppando sul suo giornale risentiva indubbiamente delle riflessioni di Gaetano Salvemini e di Piero Gobetti. Nasceva dalla sottolineatura della fragilità strutturale del metodo liberale sia nelle classi dirigenti tradizionali sia in quelle che si affacciavano con i nascenti partiti di massa. L’inevitabile e irriducibile conflitto che ne derivava con il ricorso sistematico a una risorsa come la violenza - non meramente legittimata dalla brutalità della guerra appena conclusasi, ma radicata nella pratica politica del paese - non poté che decretare la prevalenza del disegno di omogeneizzazione totalitaria della nazione, così come era emersa dal conflitto mondiale. In un articolo apparso sia su «Volontà» sia su «La Nuova Provincia», Battaglia sostenne: «Se al fascismo è riuscito così facile vincere, imporre al paese il suo dominio ed il suo arbitrio, sopprimere libertà essenziali e dileggiare fin l’idea di libertà in nome di un misticismo autoritario, vuol dire che la libertà non doveva essere molta né profondamente radicata negli italiani, nei loro istituti, nelle loro tradizioni amministrative e politiche, nelle loro rappresentanze, nelle loro organizzazioni sindacali» (Il problema politico italiano, «La Nuova Provincia», 14 gennaio 1924 n. 21).
Ricordava che l’interventismo democratico aveva visto nei «primi fasci di combattimento» uno speculare tentativo di un ripensamento globale del contemporaneo, le cui origini risiedevano nei mutamenti radicali accelerati dalla Grande Guerra. Pertanto, «non sapemmo trattenere un moto spontaneo di ammirazione e simpatia verso quella improvvisa ondata di giovanile entusiasmo» e di desiderio di radicale rinnovamento (Sancio Pancia e il fascismo, ivi).
La opposizione al regime in formazione costrinse Battaglia a una stretta vigilanza da parte degli organi di polizia. Preoccupò il sottoprefetto, in vista delle elezioni del 1924, il rapporto con Giovanni Amendola. A Viterbo era ricoverata la moglie Eva Kühn: in occasione di una visita a lei in clinica il deputato di Sarno, nel novembre 1923, ebbe un lungo colloquio con Battaglia, che venne interpretato dalle autorità come l’avvio di una strategia volta a radicare l’antifascismo costituzionale.
D’altra parte, il ruolo assunto da Battaglia nell’Anc viterbese non solo aveva acuito i contrasti con il locale combattentismo dei fascisti (De Amicis, p. 234), ma aveva messo in discussione la loro pretesa di rappresentarne la totalità. Nella circoscrizione Lazio-Umbria, tuttavia, la lista dell’opposizione costituzionale guidata da Amendola non fu presente, mentre i combattenti di Viterbo ufficialmente si astennero: nel listone fascista erano candidati, e furono eletti, esponenti di primo piano del combattentismo laziale. Nelle elezioni del 6 aprile 1924, sulle cui violenze e frodi Battaglia rese testimonianza nelle Lezioni sull’antifascismo (1962, pp. 82 ss.), i fascisti raggiunsero a Viterbo città il 79% dei voti. Dell’area cui egli apparteneva erano presenti il Pri, che ebbe in città 85 voti (1,5%) e che elesse nella circoscrizione Giovanni Conti, e il Psd’az che ne contò 5 (0,1%) (De Amicis, p. 296). Nell’ottobre 1924, Battaglia fu inserito nell’elenco dei sovversivi di Viterbo: erano 23, dei quali 4 appartenenti ai ceti professionali e industriali, 19 ai ceti popolari (Ivi, p. 238). Nello stesso mese aderì all’Unione Nazionale Democratica appena costituita da Amendola e specificò in una testimonianza successiva: «Non fui particolarmente vicino ad Amendola; ma condivisi la sua posizione politica» (Lezioni sull’antifascismo, p. 93).
Ritiratosi a vita privata e dedicatosi alla professione, la sua abitazione divenne un punto di riferimento per l’antifascismo. Ne fu ospite tra l’altro il figlio di Giovanni Amendola, Giorgio, durante il suo servizio militare nel 1927. Fu accolto «con grande affettuosità»: «Battaglia mi dava i libri, che poi all’indomani avrei letto in caserma»; «la vecchia signora Battaglia mi invitò ad andare tutte le sere a cena e, naturalmente, non mi feci pregare» (Amendola, Una scelta di vita, pp. 178-9). Si infittì l’attività professionale che lo mise in luce in un ambito più vasto di quello viterbese. Nel 1933 pubblicò uno scritto nella «Rivista positiva», nel quale giudicava sia il perdono giudiziale sia il complesso del nuovo codice di procedura penale di Alfredo Rocco una «deviazione» dal principio secondo cui «al delitto deve seguire la pena» (Il perdono giudiziale, p. 11). Alla Corte d’Assise di Viterbo erano al tempo rinviati a dibattimento i processi per i delitti più gravi, spesso di sangue; e Battaglia associò alla difesa alcuni dei maggiori penalisti dell’epoca, da Enrico De Nicola a Giovanni Porzio, da Giuseppe Romualdi a Bruno Cassinelli. Divenne più stretta, tanto da trasformarsi in rapporto di stampo quasi famigliare, l’amicizia con Mario Berlinguer, che giungeva da Sassari in occasione dei processi riguardanti cittadini sardi. Battaglia fu assai attivo quando il fratello Ugo fu arrestato il 2 novembre 1930 insieme con i gruppi dirigenti di Roma e Milano di «Giustizia e Libertà», l’organizzazione fondata da Carlo Rosselli a Parigi. Battaglia tentò con Umberto Zanotti Bianco di mettersi in contatto con gli amici milanesi attraverso una cartolina scritta con inchiostro simpatico, ma fu subito decifrata dalla polizia.
L’intensificarsi delle attività professionali e l’avvio degli studi universitari della primogenita Maria Felice, che proseguì poi l’attività del padre, indussero la famiglia a trasferirsi nel 1938 a Roma, nella centrale piazza della Pollarola, per poi spostarsi di pochi metri nella casa della famiglia Cancani-Montani in piazza Teatro di Pompeo. Battaglia riprese i contatti con molti intellettuali dell’antifascismo democratico, che poi in gran parte confluirono nel Partito d’Azione: Luigi Salvatorelli, Stefano Siglienti, Raimondo Craveri, Umberto Morra di Lavriano, Elena Croce. Al pari del fratello Ugo, che dopo il proscioglimento in istruttoria fu sottoposto all’ammonizione per due anni, Battaglia fu iscritto nei primi anni trenta nel Casellario politico centrale, con la qualifica inesatta di “socialista” e fu seguito con attenzione nelle sue attività dalla polizia, specie per i trascorsi in «Italia libera» e nel combattentismo antifascista.
Caduto il fascismo nel luglio ’43, Battaglia tornò a collaborare al «Popolo romano» alla cui direzione era l’amico Corrado Alvaro. Pochi giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, fu ricercato a Viterbo dalla polizia tedesca, che irruppe all’improvviso nella sua casa di campagna. Tornò a Roma per partecipare all’opera clandestina del Partito d’Azione, collaborando in particolare a «Italia Libera», grazie al rapporto strettissimo con Francesco Fancello. Nel viterbese contribuì all’organizzazione e all’armamento della Banda del Cimino guidata da Mariano Buratti, professore di storia e filosofia del liceo di Viterbo che reca ora il suo nome: arrestato in dicembre, quando a un controllo stradale di polizia fu trovato in possesso di armi, fu torturato e poi fucilato a Forte Bravetta il 31 gennaio 1944. Alla notizia la famiglia Battaglia abbandonò immediatamente la casa: le figlie furono ospitate nel convento delle suore dorotee al Gianicolo; Battaglia, la moglie e il figlio trovarono riparo nella garçonnière di un gerarca fascista che aveva abbandonato Roma per seguire al Nord Mussolini. Tornò a casa nel marzo 1944 e il giorno stesso del rientro riuscì a sfuggire attraverso le cantine dell’abitazione alla polizia fascista che lo ricercava e riprese l’attività nel PdA (TAA di A. Battaglia).
Conclusasi la guerra, Battaglia si immerse in un’intensa attività professionale, politica, pubblicistica, saggistica sul filo dell’impegno civile ed etico. Scriveva per il consolidamento della Repubblica democratica e pluralista, modello che si generalizzò nel secondo dopoguerra, ma che in Italia scontava il peso della nazionalizzazione totalitaria delle masse e, necessariamente, della costante repressione dei nuclei antifascisti, delle strette determinate dal conflitto mondiale e dalla loro espressione sul terreno interno come guerra civile. Come avvocato fu partecipe di molti tra i più significativi casi politico-giudiziari del tempo. Insieme con Piero Calamandrei e Federico Comandini, rappresentò la parte civile per la famiglia Rosselli nel processo contro i responsabili del Servizio Informazioni Militari (SIM), imputati dell’assassinio dei fratelli Rosselli a Bagnoles-de-l’Orne il 9 giugno 1937. Era fra essi in primo luogo, l’ex capo del SIM, il generale Mario Roatta del quale Battaglia, nella sua arringa all’Alta Corte di Giustizia, dimostrò le responsabilità. Assistette Ferruccio Parri nel processo per diffamazione contro «Il Becco Giallo» per gli attacchi personali che miravano a svilire la figura del leader della Resistenza per colpirne il valore stesso. Insieme con altri celebri legali, difese Danilo Dolci nel processo che intendeva bruciarne l’attività nel palermitano. Con Leopoldo Piccardi assistette i coniugi Bellandi nella causa contro il vescovo di Prato, monsignor Pietro Fiordelli, che li aveva definiti «pubblici concubini» per avere contratto matrimonio civile e non religioso. Come Battaglia esplicitò, era in gioco nel processo la salvaguardia delle prerogative dello Stato democratico pluralista di contro alla rivendicazione dell’assenza di argini al potere ecclesiastico. Era un episodio dello storico conflitto che si attenuò solo successivamente, grazie all’evoluzione della Chiesa cattolica, promossa dal papato giovanneo e dal Concilio Vaticano II, che agevolarono la successiva revisione del Concordato del 1929.
Dopo la liberazione di Roma Battaglia era stato chiamato a far parte della Commissione alleata sull’epurazione, promossa dal governatore di Roma Charles Poletti. Poi, dall’estate 1944, fu componente delle due commissioni istituite dal governo Bonomi per l’epurazione della Pubblica Sicurezza e del personale del ministero dell’Interno. Sui problemi della epurazione intervenne criticamente, con costanza, specie su «Realtà politica», la rivista azionista diretta da Riccardo Bauer. La critica principale di Battaglia era rivolta soprattutto alle modalità con cui l’epurazione era stata concepita. A suo avviso, il criterio informativo avrebbe dovuto essere la ricerca delle responsabilità politiche per i ruoli ricoperti e non per le tempistiche di formale adesione al Pnf. Per categorie, insomma, e non per individui. Per esempio i prefetti, per i molteplici ruoli che avevano ricoperto nelle province, erano politicamente responsabili e in quanto tali andavamo allontanati dal servizio: mantenerli in funzione avrebbe inevitabilmente indebolito il regime democratico in costruzione. Il modo in cui era stata formalizzata l’epurazione, parcellizzandola caso per caso, e occupando lo spazio a denunce eteronome, costituiva a suo avviso la premessa del suo inevitabile fallimento. Acuiva, anzi, lo scontento generalizzato che si stava diffondendo nel paese, primo frutto di uno stato di «giustizia incerta» («Realtà politica» I (1945), n. 2). Conseguentemente, Battaglia si dimise il 5 maggio 1945 dalle due commissioni epurative.
Il Partito d’azione lo designò nel 1945 alla Consulta nazionale. Fu componente della Commissione incaricata di definire la legge per l’elezione dell’Assemblea Costituente, partecipando con assiduità alla definizione delle norme fondate sulla proporzionale (Bettinelli, All’origine della democrazia dei partiti, Bettinelli 1982). Legato a Ferruccio Parri e a Ugo La Malfa, Battaglia li seguì nella scissione che concluse il primo congresso nazionale del Pd’A nel febbraio 1946. Aderì al Movimento democratico repubblicano che con altre formazioni promosse la Concentrazione democratica repubblicana nelle elezioni per la Costituente. Sottolineò dopo il referendum istituzionale, quando i monarchici tentarono di mettere in discussione il risultato del voto, che «da parte degli uomini della Repubblica si ebbe la massima fermezza e moderazione». Concluse: «Nessuna monarchia è caduta in clima di altrettanto perfetta legalità e nessuna Repubblica si è instaurata con altrettanto minor ricorso alla forza» (Lezioni sull’antifascismo, pp. 293-4).
Con La Malfa e con Parri confluì nel Pri, per il quale venne candidato nel 1948 nel collegio di Viterbo, risultando col 9,77% il primo dei non eletti. Battaglia non si candidò invece nel 1953, anche in virtù del dissenso sulla “legge truffa” e dell’uscita di Parri dal partito. Nel 1958, il Pri lo ripresentò al Senato in tre forti collegi del Lazio nelle liste congiunte coi radicali, di impianto culturale laico, orientate in favore del centro-sinistra. Nel Lazio, così come nel resto d’Italia, non riuscirono però a eleggere alcun senatore. Il suo nome fu poi, nel 1959, proposto e sostenuto da Parri nell’elezione a Camere riunite dei componenti laici il primo Consiglio Superiore della Magistratura. Fu appoggiato dalle sinistre nelle prime votazioni, ma non dal segretario del Pri Oronzo Reale, sicché Battaglia non fu inserito nella lista di compromesso tra tutti i partiti, che il 2 luglio elesse i sette laici.
L’attività pubblicistica si era intanto allargata specie alle pagine de «Il Mondo» di Mario Pannunzio, del quale fu collaboratore assiduo a partire dal 1950, avendo anche parte attiva in alcuni convegni degli Amici del Mondo tenuti al teatro Eliseo. Del settimo convegno fu relatore sul tema Stampa e giustizia; e suoi furono anche il Manifesto che lo lanciò e la prefazione del volume laterziano che ne pubblicò gli atti. La tesi era che non soltanto occorreva diffidare della denuncia dei giornalisti ma che la loro attività era parte della «comunione del diritto con la società» e pertanto doveva esserne salvaguardato il diritto di pubblica accusa, stando bene attenti a non confonderlo con lo «jus murmurandi».
Battaglia proseguì i suoi impegni fondamentali per la riforma dell’ordinamento giudiziario e dei codici, per l’indipendenza della magistratura riaffermando nel contempo la responsabilità civile dei giudici al fine del rafforzamento della fiducia dei cittadini nel loro operato, per l’attuazione della Costituzione, per la difesa delle libertà civili. Fu per questa aperta e fiduciosa posizione democratica e per il valore che assumeva in una società ancora chiusa se non asfittica, che Battaglia fu chiamato da Ignazio Silone a sostituire Egidio Reale nel consiglio direttivo dell’Associazione Italiana per la libertà della cultura. Sotto altri profili – e in particolare per il rapporto tra giustizia e politica che si definisce nella giurisprudenza – Battaglia si legò strettamente a Piero Calamandrei, come mostra la collaborazione per la pubblicazione del volume collettaneo Dieci anni dopo, che contiene uno dei testi più importanti di Battaglia, ancora oggi intatto nel suo valore.
Quel saggio infatti getta luce sulla varietà delle radici che hanno nutrito disfunzioni strutturali dell’Italia contemporanea, frutto di un non compiuto equilibrio intorno alla questione cruciale della separazione dei poteri. Battaglia implicitamente poneva in luce la radicale soluzione di continuità della Costituzione, confermata, con apparente paradosso, dalla sentenza della Corte di Cassazione del 7 febbraio 1948. Essa rivelava infatti quanto fosse profonda l’innovazione introdotta col testo costituzionale e mirava ad attenuarne l’impatto, con la distinzione, ex-novo, tra norme programmatiche e norme precettive. E queste ultime, ancora, dovevano essere distinte tra norme complete e incomplete. Col risultato che alla Costituzione formale entrata in vigore il 1° gennaio 1948 si sovrappose la Costituzione sostanziale del 7 febbraio 1948, a opera del massimo livello del potere giudiziario. Una condizione, questa, che poté essere superata soltanto con l’entrata in funzione della Corte Costituzionale.
Più in generale Battaglia richiamò l’attenzione su un dato di lungo periodo, connaturato con la problematica della separazione dei poteri, resa complicata anche dalla debole legittimazione del potere politico, come avevano rivelato sia il complesso della legislazione sull’epurazione sia l’approssimazione tecnica dell’amnistia licenziata dal guardasigilli Palmiro Togliatti. Scriveva Battaglia nel 1955: «Per comprendere veramente cosa accada in una società in un periodo di crisi - quando un nuovo ordinamento giuridico si sostituisce o tenta di sostituirsi all’antico - poco giova l’esame delle sue leggi, e molto più quello delle sue sentenze. Le leggi emanate in questi periodi ci dicono chiaramente quali siano state le volontà del ceto politico dirigente, i fini che esso si proponeva di raggiungere, le sue aspirazioni e velleità. Le sentenze ci dicono anche quale sia stata la sua forza, o la sua capacità politica, e in che modo la società abbia accolto la sua azione, o vi abbia resistito» (Giustizia e politica nella giurisprudenza, pp. 319- 320).
Impegnato con ostinazione nella difesa della Resistenza e dell’ordine democratico, protagonista senza risparmio della battaglia per la civiltà liberale del paese, la sua morte improvvisa provocò molta emozione e grande eco sulla stampa. Sofferente da tempo di cuore, avvenne una domenica pomeriggio, il 21 febbraio 1960, nella sua casa al Teatro di Pompeo, dopo avere partecipato il mattino alla manifestazione al Teatro Eliseo del Consiglio Federativo della Resistenza fondato da Ferruccio Parri, del quale faceva parte. Era un’organizzazione che entro poche settimane avrebbe avuto un ruolo decisivo nel contrasto al governo Tambroni e al repressivo disegno che lo animava.
Le carte di Battaglia sono depositate presso l’Archivio di Stato di Viterbo. Altri documenti di carattere privato - tra cui le citate lettere del preside del liceo- ginnasio Umberto I a Luigi Battaglia del 20 aprile 1912 e di Ugo Battaglia a Giulia Battaglia del 24 novembre 1976 - sono conservati a Roma nell’archivio di famiglia. In Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, sono i fascicoli su Achille e Ugo Battaglia, rispettivamente B. 404, f. 92287, B. 406, f. 93865.
Tra i suoi scritti ricordiamo L’Opera Nazionale dei Combattenti e la Cooperazione. Relazione presentata al Convegno delle cooperative di produzione e lavoro tra ex combattenti tenutosi a Genova nei giorni 17-18-19 dicembre 1922, Federazione italiana delle cooperative, s.a., 1922; Le Casse agrarie e il problema del credito agrario nel Mezzogiorno, Federazione italiana delle cooperative fra combattenti, Roma 1923; Il perdono giudiziale. Portata e giustificazione dell'istituto, in «Scuola Positiva- Rivista di diritto e procedura penale», 1933 (XIII), ff. 11-12; Processo alla giustizia, Laterza, Bari 1954; Giustizia e politica nella giurisprudenza, in Dieci anni dopo 1945-1955 Saggi sulla vita democratica italiana, Laterza, Bari 1955, pp. 317-408; Volontà di giustizia, Associazione italiana per la libertà della cultura, Roma 1956; Processo all’articolo 4 nella documentazione di Achille Battaglia [et alii], Einaudi, Torino 1956, pp. 275-91; L’errore giudiziario, in Quaderni ACI 25, Associazione culturale italiana 1957-1958, pp. 7-26; con Marcello Capurso, La Repubblica e i cittadini. Norme di educazione civica per le classi superiori, La Nuova Italia, Firenze 1959 e La società e lo Stato, La Nuova Italia, Firenze 1960; le interviste a Paolo Pavolini in Lezioni sull’antifascismo, a cura di Piergiovanni Permoli, Laterza, Bari 1962, pp. 82-4; 93-4; 292-4; I giudici e la politica. Prefazione di Aldo Garosci, Laterza, Bari 1962; Diritto e libertà. Scritti e discorsi di un giurista militante. Editi e inediti 1944-1960, a cura di Giuseppe Armani, Edizioni Archivio Trimestrale, Roma 1988, che contiene anche una bibliografia degli scritti.
Per le vicende delle famiglie Battaglia e Cancani, cfr. Gerino Pierotti, Il liceo-ginnasio di Viterbo, Tip. Agnesotti, Viterbo 1928, p. 51; Enrico Ferri, Adolfo Cancani, in Dizionario biografico degli italiani 1974, XVII; Gabriele De Bianchi, Giuseppe Ballarati, promotore di lotte contadine nel Lazio centro-meridionale (1900-1920), I.T.L. , Valmontone Palestrina 1984; Clementina Miele, Il movimento contadino nel Lazio. Giuseppe Ballarati e la «Difesa del Contadino» (1906-1919), Annales, Roma 2017. Si vedano inoltre Sara Battaglia, Processo di epurazione e attuazione della Costituzione. Il ruolo di Achille Battaglia, Tesi di laurea discussa nell’a.a. 1999-2000, relatore Pietro Scoppola; Armani, Profilo di Achille Battaglia, in Diritto e libertà cit. Sulla sua attività, Giovanni Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Laterza, Roma-Bari 1974; Idem, La stampa del combattentismo (1918-1925), Cappelli, Bologna 1980; Sandro De Amicis, Combattenti tra democrazia e fascismo. L’Associazione Nazionale Combattenti di Viterbo (1919-1925), Sette Città, Viterbo 2019; Giorgio Amendola, Una scelta di vita, Rizzoli, Milano 1976; Atti della Commissione per la elaborazione della legge elettorale politica per l’Assemblea Costituente, Stab. tip. UESISA, Roma 1946; Ernesto Bettinelli, All’origine della democrazia dei partiti. La formazione del nuovo ordinamento elettorale nel epriodo costituente (1944-1948), Edizioni di Comunità, Milano 1982; Jolanda Torraca, La mia storia, seguita da Diario di una sedicenne d’altri tempi, Epsylon editrice, Roma 2013; https://parlamento18.camera.it/60?leg=3 per i verbali del Parlamento in seduta comune del 18 marzo, 23 aprile, 6 maggio, 2 luglio 1959 (consultato il 15 giugno 2022).
Tra gli articoli in sua morte si segnalano A courageous democrat, in «The Times», 23 febbraio 1960; Ė morto Achille Battaglia, in «La Voce repubblicana», 22-23 febbraio 1960; L’improvvisa scomparsa dell’avvocato Achille Battaglia, in «Avanti!»; Luciano Ascoli, Una perdita della democrazia, in «l’Unità», 23 febbraio 1960; Ugo La Malfa, Una grande coscienza civica e democratica, in «La Voce repubblicana», 23-24 febbraio 1960; P[aolo] P[avolini],«Nemo propheta», in «Tempo presente» 1960 (V), nn.2-3, febbraio-marzo; Stefano Rodotà, Cronache delle istituzioni, in «Nord e Sud», 1960 (VII), n. 3; Arrigo B[enedetti], Battaglia, in «L’Espresso», 28 febbraio 1960; Lutto della Resistenza, in «Il Ponte» 1960 (XVI), febbraio, n.2; Achille Battaglia, in «Il Mondo», 1° marzo 1960; Un combattente della democrazia, in «Vie nuove», 5 marzo 1970; Angiolo Orvieto, Quattro avvocati veramente esemplari, in «Epoca», Aldo Garosci, Battaglia, in «L’Espresso», 6 marzo 1960; Alberto Aquarone, Un difensore del cittadino, in «Il Mondo», 8 marzo 1960; Anna Garofalo, Ricordo di Achille Battaglia, in «Paese sera», 18 febbraio 1961