CAPPELLO, Bernardo
Nacque a Venezia nel 1498 da Francesco di Cristoforo e da Elena di Piero Priuli. Il padre, illustre diplomatico della Repubblica, morì nel 1513 e il giovane C. fu quindi affidato alla tutela dei fratelli maggiori: la sua educazione fu seguita in particolare dal fratello Carlo. Frequentò, al pari di altri giovani patrizi veneti, la scuola di Battista Egnazio, rivale del Sabellico, amico del Bembo e di Erasmo, curatore di varie edizioni aldine. Il suo vero maestro fu però Pietro Bembo, come il C. riconobbe apertamente, ormai maturo ed egli stesso poeta affermato, in un sonetto a Veronica Gambara: "tutto quello che da me, donna, sen venne / di bello e di gentil, tutto ha radice / da lui...". In questi anni di noviziato letterario strinse anche altre amicizie intellettuali con il poeta Trifon Gabriele, con Andrea e Bernardo Navagero, Gasparo Contarini e Marcantonio da Mula; ebbe modo inoltre di frequentare Luigi Alamanni, ospite del fratello Carlo, quando dovette riparare a Venezia perché compromesso in una congiura antimedicea (1522).
L'attività letteraria non distolse tuttavia il giovane patrizio dalla vita pubblica: nel 1523 fu eletto savio agli Estimi, nel 1529 savio agli Ordini, importante magistratura attraverso la quale si indirizzavano alle supreme cariche i giovani più promettenti.
A pochi mesi da tale elezione fu protagonista di un grosso scandalo riferito dal Sanuto: abbandonò una seduta in Pregadi per incontrarsi con la moglie del nobile Pietro Memmo; sorpreso dal marito in flagrante adulterio, fu ferito al petto da un colpo di spada. Il clamoroso episodio gli precluse forse, pochi giorni dopo, l'elezione alla Quarantia civil vecchia (fu ballottato ma non eletto); tornò tuttavia a sedere tra i savi agli Ordini nell'ottobre 1530 e nel 1533 entrò in Quarantia criminale.
Il 26 maggio 1532 aveva sposato Paola Garzoni, che gli dette due figlie ed un maschio, Francesco, tenuto a battesimo (1537) da Bernardo Tasso, legato al C. da una lunga e cordiale amicizia. In questi anni la sua fama di poeta raffinato ed elegante si era diffusa: il Bembo gli inviava dei sonetti per chiederne il giudizio, il marchese del Vasto, don Alfonso d'Avalos, mandato a Venezia da Carlo V per sollecitare la Repubblica a continuare la guerra contro Solimano, conobbe e stimò moltissimo il C. tanto da rivolgergli, nel lasciare la città (1539), due lettere ed un sonetto.
L'anno successivo però una severa condanna del Consiglio dei dieci allontanò per sempre il C. da Venezia: il 19 maggio 1540 fu condannato al confino perpetuo nell'isola dalmata di Arbe. L'accusa di aver creato scandalo e di aver messo in pericolo l'ordine pubblico colpiva taluni discorsi tenuti in Senato ed in vari luoghi della città, con i quali il C. aveva offeso la dignità dei capi del Consiglio dei dieci e dello stesso istituto. In effetti egli, capo dei Quaranta, aveva proposto in Senato ed in Maggior Consiglio che venisse fissata una "contumacia" di un anno tra l'elezione a consigliere ducale e quella a membro del Consiglio dei dieci (e viceversa), allo scopo di evitare il concentrarsi di tanto potere nelle mani di pochi patrizi. Tale proposta si inseriva in un clima di insofferenza che andava diffondendosi in una parte del patriziato veneto nei confronti di alcune grandi famiglie che tendevano a monopolizzare l'effettiva gestione del potere politico, attraverso il controllo del consiglio dei Dieci e della zonta, riducendo così il ruolo delle altre magistrature e dell'intero ceto nobiliare (è dello stesso anno, com'è noto, la conclusione della controversa pace col Turco, stipulata dal Consiglio dei dieci, al di fuori delle norme e della prassi costituzionale).
Non estranei a tale clima antioligarchico erano stati gli esuli fiorentini antimedicei che avevano trovato riparo a Venezia (e taluni, come Antonio Brucioli, avevano frequentato casa Cappello), ravvivando il dibattito politico e culturale veneziano.
La dura condanna del C. intendeva colpire appunto questi fermenti antioligarchici prima che assumessero dimensioni preoccupanti per il ceto dominante. La posizione del capo della Quarantia criminale non era infatti isolata: l'elezione del fratello Carlo, nel novembre dello stesso anno, a duca di Candia, operata dal Maggior Consiglio, assumeva infatti il significato di una manifestazione di dissenso nei confronti del Consiglio dei dieci e di solidarietà per la famiglia Cappello.
L'esilio nell'isola dalmata, per cui indirizzarono al C. affettuose lettere consolatorie B. Tasso e Marcantonio da Mula, ebbe però breve durata: nel settembre 1541 egli riuscì a raggiungere Roma, ponendosi sotto la protezione del cardinale Alessandro Farnese. Il Consiglio dei dieci intentò quindi un secondo processo al fuggitivo, invitato a presentarsi a Venezia entro quindici giorni, con la nuova accusa di aver propalato segreti di Stato (settembre 1542). La gravità dell'accusa indusse il C. a non costituirsi, fu quindi condannato al bando perpetuo, con una grossa taglia sul capo; se fosse caduto nelle mani dei Dieci sarebbe stato impiccato alle colonne di piazza S. Marco (sentenza del 16 nov. 1542).
Neppure Roma parve sicura al C., che dovette rifugiarsi temporaneamente a castel S. Angelo "dubbioso de la sua vita", per consiglio dello stesso cardinale suo protettore (dicembre 1542). La primavera successiva, essendo diminuito il pericolo di cadere nelle mani di emissari dei Dieci, il C., apprezzato dal Farnese non solo come letterato e poeta ma anche come uomo di governo, ottenne dal papa la luogotenenza di Tivoli, dove nell'ottobre fu raggiunto da moglie e figli. Nel 1544, già sofferente per una malattia agli occhi che l'aveva reso quasi cieco, fu nominato governatore di Orvieto, nel 1546 passò al governo di Todi, quindi a quello di Assisi (1547), infine a Spoleto (1549).
La morte di Paolo III interruppe la carriera romana del C., invano proposto dal cardinale come governatore di Fano nel 1550. Il soggiorno romano permise tuttavia al C. di stringere rapporti di cordiale amicizia con alcuni fra i maggiori letterati del tempo che frequentavano casa Farnese, quali il Giovio, il Molza, monsignor Della Casa e Annibal Caro, segretario del cardinale. Nel 1551, quando, a causa dell'atteggiamento antimperiale assunto dai Farnese a proposito del ducato di Parma, il cardinale dovette lasciare Roma per un breve esilio a Firenze, il fedele C. lo accompagnò. Durante il soggiorno fiorentino conobbe P. Vettori, B. Varchi e il Castelvetro. Sul finire del 1551 rientrò con il cardinale a Roma per un breve periodo; nell'agosto del 1552 si recò a Siena, latore delle felicitazioni del Farnese alla Repubblica per la riconquistata libertà e nel settembre seguì il cardinale in Francia, dove si recava come legato ad Avignone.
Il C. rimase in Francia quasi tre anni: nel 1553 fu nominato procuratore del cardinale per i beni dell'abbazia di S. Stefano di Caen, di cui il Farnese era commendatario. Nella città normanna curò coscienziosamente gli affari del suo signore, che, in segno di stima e di riconoscimento, gli concesse il godimento di una pensione vitalizia sopra una prebenda diaconale di Caen.
Rientrò a Roma nell'autunno del 1555 e vi rimase sino all'estate del 1557, quando fu chiamato a Urbino dall'amico B. Tasso, intento alla revisione del suo Amadigi. Fu accolto onorevolmente alla corte di Guidobaldo della Rovere, il quale, a causa della malattia agli occhi del C., invitò a Urbino il letterato marchigiano Dionigi Atanagi, col compito di leggergli il poema tassiano. Probabilmente in questo periodo il C. ebbe modo di raccogliere e riordinare le sue Rime, che furono pubblicate, a cura dell'Atanagi e con dedica al cardinal Farnese.
Nel 1559 il poeta aveva lasciato Urbino e aveva raggiunto il suo protettore a Parma, per rientrare quindi a Roma, dove trascorse, ormai vecchio e malato, gli ultimi anni di vita. Gli furono compagni gli amici di gioventù Marcantonio da Mula, ambasciatore della Repubblica veneta (1559) e poi cardinale (1561), e Bernardo Navagero, creato cardinale anch'egli nell'anno 1561.
Si spense a Roma nella notte tra il 7 e l'8 marzo del 1565, ormai divenuto cieco del tutto, lodato ed ammirato da molti dei letterati italiani suoi contemporanei.
In una lettera datata 13 nov. 1526 Pietro Bembo inviava un sonetto al C. pregiandolo del diritto di priorità rispetto agli altri corrispondenti sempre desiderosi di primizie poetiche; altrove l'anziano poeta esortava il discepolo a perseverare negli studi letterari, lo ringraziava per il dono di una poesia e gli suggeriva qualche modifica da apportare alla stessa: "La fede che mi fa il vostro grave e dolce sonetto, che eziandio nelle molte vostre cure et occupazioni domestiche non lasciate d'esser poeta, m'è molto cara e molto grata stata; di ciò vi lodo grandemente. Anzi vi conforto io a dover così fare spesso" (11nov. 1535).
In effetti, nonostante le traversie della vita politica, la carriera del letterato si rivela continua e coerente, garantita dall'autorità del Bembo, anche quando il nome dell'autore era caduto in disgrazia. Sì che le Rime del C. godettero di una notevole fortuna nel Cinquecento; raccolte e stampate dall'Atanagi a Venezia nel 1556, furono riprodotte nel 1560, mentre la personalità del C. si imponeva come quella di un felice interprete del nuovo petrarchismo anche presso gli scrittori della seconda generazione bembiana: soprattutto il Caro e il Della Casa. Con quest'ultimo restano peraltro le tracce di una cospicua corrispondenza poetica orientata nel senso di una comune deferenza verso il maggior modello della lirica cinquecentesca.
Consegnato alla tiepida ammirazione dell'età concettista e barocca, il C. ricevette un definitivo riconoscimento, in epoca arcadica, da un benemerito del petrarchismo cinquecentesco, il Serassi, che pubblicò nel 1753 le Rime del C., precedute da una vita dello scrittore, e corredate da un notevole apparato di annotazioni: Rime corrette,illustrate e accresciute colla vita dell'Autore scritta dall'abate Serassi e le annotazioni di Agamiro Pelopideo, Bergamo 1753.Da questo momento lo scrittore è presente nel campo degli studi sulla poesia e la poetica del primo Cinquecento.
Più volte antologizzato nel corso dell'Ottocento (le Lettere furono pubblicate a Bologna nel 1870a cura di A. Ronchini), egli ha successivamente usufruito del favore che eruditi e critici hanno concesso alla lirica petrarchistica di impronta bembiana.
Di tale lirica il C. si mostra un entusiastico seguace, sia conformando la propria scrittura al profilo unitario di un canzoniere (aderente a una ideale vicenda biografica), sia attingendo dal Bembo temi e moduli espressivi. Questa è probabilmente la ragione per cui il Bembo accordò sempre la sua stima al C., anche quando nella schiera dei discepoli più osservanti cominciava a maturare qualche fermento di innovazione. L'adesione al concetto del canzoniere come specchio di vita, esempio morale in versi, comporta anche nel C. la canonica contrapposizione di rime d'amore e poesie di pentimento; solo che egli accentua il motivo del colloquio "alla propria anima" sino a farne non soltanto il tema risolutivo del contrasto interiore, ma il centro di cupe e iterate meditazioni sulla vanità dell'esistenza, che lo scrittore ravvisa nel desiderio della gloria e degli onori, e da cui si riscatta con l'elogio, che a volte sembra sincero e meditato, di una vita nobilmente appartata. A un assunto moralistico che non dispiacerà ai lirici della Controriforma, anche se altri sono i temi più congeniali al temperamento artistico del C., come quelli in qualche modo connessi alla sua vocazione descrittiva o quelli in cui una struggente consapevolezza del proprio destino di esule si traduce in forme di classica, eloquente evidenza.
C. Mutini
Fonti e Bibl.: P. Bembo, Opere in volgare, a cura di M. Marti, Firenze 1961, ad Indicem; M. Sanuto, Diarii, XXIX, XXXIV, L, LI, LIII, LIV, LVII, LVIII, Venezia 1879-1903, ad Ind. Notizie sul C. sono apparse in quasi tutti gli studi dedicati al Bembo e alla lirica del primo Cinquecento: cfr. per tutti L. Baldacci, Il petrarchismo italiano del Cinquecento, Milano-Napoli 1957, ad Indicem. Sulla biografia vedi in particolare: A. Zilioli, Vite di gentiluomini veneziani del secolo XVI…, Venezia 1848, pp. 24, 38; P. A. Paravia, Discorso sui codici delle rime e sulla vera causa dell'esilio di B. C., in Memorie veneziane di letteratura e storia, Torino 1850, pp. 155 ss.; A. Salza, Due date nella biografia di B. C., in Rassegna bibl. della letteratura italiana, V (1897), pp. 225 s.;. L. Dalla Man, La vita e le rime di B. C., Venezia 1909; Lirici del Cinquecento, a cura di D. Ponchiroli, Torino 1957, ad Indicem; Lirici del Cinquecento, a cura di L. Baldacci, Firenze 1957, ad Indicem.
F.Fasulo-C. Mutini