MARTIRANO, Bernardino
– Nacque a Cosenza intorno al 1490 da Giovan Battista, di antica nobiltà calabrese, come lo stesso M. ricorda in un libello rimasto manoscritto e intitolato Commentariolum de aliquibus antiquioribus patritiis Consentinis familiis. È ignoto il nome della madre, mentre conosciamo quelli dei fratelli Coriolano, Giovanni Antonio e Girolamo.
Notizie sul padre si ricavano dalla Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti, che delinea una figura di apprezzato poeta: «uomo di rado, et curioso ingegno, che con le sue argute, et ornate rime volgari, a i mortali fa intendere l’altezza, sottilità et delicatezza della sua dottrina». Il giudizio era tanto più autorevole poiché Alberti aveva conosciuto Giovan Battista a Cosenza nel 1526, in occasione di uno dei suoi viaggi lungo la penisola. Alcuni anni dopo, Giovan Battista si trasferì a Napoli, dove fu nominato reggente della Vicaria negli anni 1529 e 1530.
Il M. svolse i suoi primi studi a Cosenza, alla scuola di Aulo Giano Parrasio, nella quale si formarono, tra gli altri, anche Antonio Telesio, zio del filosofo Bernardino, Giovanni Antonio Cesario, Giovanni Antonio Pantusa e, più tardi, Carlo Giardino, Piero Cimino, Nicola Salerno, quest’ultimo amico del Martirano. In ricordo di questo magistero il M. curò l’edizione del commento di Parrasio all’Ars poetica di Orazio (In Q. Horatii Flacci Artem poeticam commentaria luculentissima), pubblicata a Napoli, per G. Sultzbach, nel 1531, quando l’autore era morto da circa un decennio. La lettera al cardinale Benedetto Accolti premessa al testo rappresenta l’unico scritto del M. dato alle stampe in vita, fatta eccezione per alcuni versi dedicati all’umanista campano Giovanni Francesco (Giano) Anisio, che li inserì nei suoi Variorum poematum libri duo (Napoli, G. Sultzbach, 1536, c. 32).
Terminati gli studi a Cosenza, il M. si trasferì a Napoli, forse al seguito del padre, per dedicarsi molto probabilmente agli studi di giurisprudenza, dal momento che iniziò a svolgere funzioni e ad assumere ruoli sempre più importanti all’interno dell’amministrazione spagnola nel Regno. Fece parte del seguito del viceré Charles de Lannoy allorquando, nell’autunno del 1523, questi dovette recarsi in Lombardia «per li torbidi allora surti tra ’l pontefice Clemente VII e i comandanti delle truppe cesaree» (Spiriti, p. 53). In occasione di quella missione, protrattasi per alcuni anni, il M. ebbe modo di conoscere il conestabile Carlo di Borbone, passato dal campo francese a quello spagnolo, e di divenire in breve tempo suo fidato collaboratore. Il nome del M. compare in un documento stilato a Milano il 1° genn. 1527 in cui il Borbone, comandante delle truppe imperiali in Italia, reintegrava Girolamo Morone negli onori e nelle cariche – tranne in quella di cancelliere del Ducato di Milano – che aveva ricoperto prima di essere denunciato quale artefice di una congiura antimperiale. Alcuni mesi dopo, il 16 marzo, la firma del M., accanto a quella del Borbone, sigillò un decreto emanato in favore dello stesso Morone, affinché gli fosse rifusa una taglia da lui anticipata per sedare un tumulto di soldati imperiali rimasti senza paga.
Molto probabilmente a causa del legame con il Borbone il M. si trovò ad assistere, nel maggio del 1527, al sacco di Roma, mentre era in città anche Lannoy, giunto per conferire con il pontefice Clemente VII. Morto il Borbone nelle prime fasi dell’assedio, il M. continuò a gravitare intorno all’area di comando dell’esercito imperiale, come mostra un documento del 18 giugno 1527, sempre riguardante G. Morone, in cui Filiberto di Châlons, principe d’Orange, nel frattempo passato alla guida delle truppe di Carlo V, decise la restituzione di una ingente somma di denaro a Morone, da questo precedentemente data in prestito al duca di Ferrara Alfonso I d’Este. Nel documento, la firma di «Bernar. Martiranus in mandatorum exercitus» (Pometti, p. 76) seguiva quelle dell’Orange, di Hugo de Moncada, di Fernando di Alarcón, di Mercurino da Gattinara.
Tornato a Napoli, al seguito di Filiberto d’Orange, richiamato da un tentativo di assedio da parte dei Francesi, il M. restò al fianco del generale, cui Carlo V affidò, nel 1528, anche il governo del Viceregno. La fedeltà del M. alla causa spagnola durante la guerra contro le truppe francesi guidate da Odet de Foix, visconte di Lautrec, fu celebrata dal poeta Camillo Querno nel De bello Neapolitano (Napoli 1529), in alcuni versi che rappresentano la prima menzione del M. in un testo letterario coevo e che fanno riferimento a una sua produzione poetica. Non molto tempo dopo l’epilogo del conflitto franco-spagnolo, consumatosi con l’inattesa morte di Lautrec il 16 ag. 1528, il M. ricevette in dono dall’imperatore, tra la fine di ottobre e i primi di novembre, le terre di Amendolea e di San Lorenzo, in Calabria, sottratte al loro legittimo feudatario, Giovan Battista di Abenavolo, accusato di ribellione (Arch. di Stato di Napoli, Collaterale, Privilegiorum, vol. 17, c. 32). Feudi che si aggiungevano a quelli di Aieta e di Tortora, già intestati al M. dal padre Giovan Battista. Sempre nel 1528 il M. ottenne dal viceré Filiberto di Châlons alcune case con giardino nel quartiere S. Ferdinando (Sedile di Portanova) presso la chiesa di S. Maria in Cosmedin «di proprietà dei fratelli Giovanni e Astorgio Bagardo de Agnese, rebelli regi; più una masseria con giardino Fuori Grotta, dei medesimi fratelli» (ibid., vol. 21, c. 150). Il 2 genn. 1529 il M. ricevette l’ufficio di doganiere delle saline di Altomonte, in provincia di Cosenza, «con provvisione di annue once dodici che prima si teneva da Giov. Ant. Del Tufo, e ciò in considerazione dei servigi resi dal Martirano nella invasione nemica» (ibid., vol. 19, c. 16). Il documento, che indicava esplicitamente nella fedeltà alla causa imperiale le ragioni di tanta munificenza, riportava per la prima volta la qualifica di «secretario regio» riferita al M., che evidentemente doveva avere assunto la carica durante gli ultimi due mesi del 1528. La medesima qualifica compare il 3 marzo 1529 in un altro documento, sempre firmato da Filiberto di Châlons, in cui si dava corso alla nomina del fratello del M., Coriolano, a nuovo doganiere del maggior fondaco di Gaeta «per morte di Tommaso Gattola e pei meriti di Bernardino Secretario Regio e fratello di detto Coriolano» (ibid., vol. 18, c. 83).
Il M. continuò a svolgere l’ufficio anche durante il viceregno di Pompeo Colonna, dal momento che il suo stipendio annuo di 300 ducati, in qualità di «secretario del regno», compare in un bilancio relativo al periodo 1° sett. 1530 - 31 ag. 1531, alla voce del Regio Consiglio Collaterale, organo cruciale dell’amministrazione del Regno, che trattava congiuntamente con il viceré tutti gli affari di governo ed era allora composto di norma da un segretario, tre consiglieri e quattro reggenti.
La presenza del M. in questo potente consesso, i cui membri appartenevano di preferenza alla nobiltà (mentre i reggenti costituivano il cosiddetto Collaterale di toga), stava senza dubbio a significare una provata fedeltà alla Spagna e una forte comunanza con il viceré, in particolare con Pedro de Toledo, in carica dal 1532, che il M. affiancò come segretario per sedici anni, garantendogli una sponda dall’interno nella crescente azione di controllo del Consiglio da parte del viceré. Un rapporto che dovette procedere sicuro nel tempo, mai velato da alcuna ombra, nemmeno nella stagione più difficile delle relazioni tra il Toledo e la città di Napoli, negli anni Quaranta, segnata dall’inasprimento della politica culturale e religiosa del viceré sino al fallito tentativo di introdurre nel Regno l’Inquisizione «a mo’ di Spagna».
Nei primi anni Trenta lo stesso viceré concesse al M. e ai suoi familiari una serie di privilegi riguardanti l’ampliamento e la gestione interna del loro patrimonio feudale. In una lettera del 1° apr. 1542 Pedro de Toledo si raccomandava personalmente al cardinale Pietro Bembo affinché intervenisse presso i benedettini della Congregazione di Montecassino per la cessione di un terreno al «Secretario Martirano [il quale] oltra lo essere quel suddito et fedel servitore che è de la Maestà Cesarea: è tanto mio amico et servitore che io non posso né debbo mancarli, anzi debbo esistimar le cose sue non altramente che le proprie» (Lettere da diversi… a mons. Bembo scritte).
Al di là della sintonia con il Toledo, il M. dovette conseguire un peso davvero rilevante nella vita politica del Regno, se Carlo V, durante il viaggio di ritorno dalla vittoriosa spedizione di Tunisi, nel novembre 1535, decise di sostare alcuni giorni nella dimora del M., la villa Leucopetra a Portici, in attesa che si completasse l’allestimento degli apparati per il suo ingresso trionfale nella città di Napoli. Un privilegio assoluto, quello concesso dall’imperatore al M., una sorta di riconoscimento ufficiale, al massimo livello del potere politico, del prestigio acquisito dall’alto funzionario della corte vicereale, come prontamente registrò un raro opuscolo a stampa del 1536, redatto da Agostino Landolfi e intitolato Le cose volgari (Napoli, M. Cancer). Nell’opera, infatti, il M. compare nell’allegra e selezionata brigata di «alquanti segnalati principi e signori, a sua Maiestà più cari» (c. B2r), mentre anima, con piglio da protagonista, un acceso incontro accademico-letterario sul concetto di fortuna svoltosi al cospetto di Carlo V nei giardini della villa aragonese di Poggio Reale, durante il soggiorno dell’imperatore.
Negli stessi anni in cui andava consolidando la propria posizione ai vertici del governo vicereale, il M. si faceva apprezzare come autore di versi in latino e in volgare, dedicati a esponenti del mondo letterario napoletano fra i quali Giano Anisio e Luigi Tansillo. In età giovanile, molto probabilmente nel secondo decennio del secolo, il M. aveva composto un’orazione funebre in onore di uno dei suoi primi protettori, il condottiero Iacopo Savelli (Lugubris oratio… in illustrissimi d. Iacobi Sabelli funere habita, s.l. né d., un esemplare a Parigi, Bibliothèque nationale), del cui figlio, Giovambattista, il M. era stato precettore, insieme con Lorenzo Palilio, nelle lettere latine e greche, secondo quanto riferisce Benedetto Varchi. All’attività poetica del M. fa riferimento l’umanista Giovanni Filocalo nel Carmen nuptiale (Napoli 1533) in una sorta di elenco degli esponenti coevi più illustri del mondo letterario meridionale, quelli della generazione successiva a Iacopo Sannazzaro, tra i quali comparivano Giano Anisio, Girolamo Borgia, Marco Antonio Epicuro, Lucio Vopisco, Camillo Querno, Benedetto Di Falco, Berardino Rota, Scipione Capece. Di Falco nel suo Rimario loda l’«opera dottissima e florida in prosa oratione scritta ne la quale lepidamente e con un stil dolce e grave [il M.] narra gl’amori d’Ismene et Ismenia». Si tratta del volgarizzamento di un romanzo del greco Eustazio Macrembolita, Gli amori di Ismene e Ismenia: l’opera è ricordata anche da Coriolano Martirano nelle Epistolae familiares (c. 19v) e da Tansillo nelle Stanze a Bernardino Martirano (Tansillo, 1893) e in un sonetto dedicato al M. (Tansillo, 1996, p. 180), ma non è stata sino a oggi rinvenuta.
Molto probabilmente risale agli anni 1536-39 la stesura del poemetto in 153 ottave (162 nel manoscritto rinvenuto da Toscano nella Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera) noto come Il pianto d’Aretusa, dato alle stampe postumo ne La seconda parte delle stanze di diversi autori (Venezia, G. Giolito, 1563, pp. 7-51, 133-150), curata dall’umanista lucano Antonio Terminio, che proseguiva il primo volume edito dieci anni prima da Ludovico Dolce (Stanze di diversi illustri poeti…, ibid. 1553).
Il testo narra un inedito intreccio del mito classico di Aretusa con quello di Narciso, su cui l’autore innesta il racconto della metamorfosi della ninfa Leucopetra, trasportato nel contesto storico delle guerre d’Italia, tra la battaglia di Pavia (1525) e la conquista imperiale di Tunisi (1535). Narciso, spinto da un giovanile impeto guerriero e dimentico dell’amore per Aretusa, decide di imbarcarsi per una «santa e gloriosa impresa» contro il «Pirata crudel». Dopo avere girovagato in preda alla disperazione, l’infelice Aretusa giunge «al bel loco pregiato, ove la bella e bianca Leucopetra fu per sua crudeltà conversa in pietra» (stanze 1-57), e oppressa dal dolore, «Perduta avendo ogni sua forma umana, ivi piangendo, divenne fontana» (stanze 58-68). La morte e la sepoltura di Aretusa da parte di Leucopetra diventano così l’occasione per celebrare la dimora del M. presso Portici, che da quella ninfa aveva preso il nome, e per dilungarsi in una dettagliata descrizione del ninfeo (stanze 69-86), «opra d’incanto sembra, più che di man», come avrebbe cantato Tansillo (1996, pp. 178 s., son. CCCXIX). Un’attrazione che aveva suscitato persino l’ammirazione di Carlo V di ritorno «d’Africa vinta», come il M. non esitava a ricordare al lettore. Nell’ultima parte del poemetto (stanze 87-162) l’autore ripercorre i successi spagnoli nel decennale conflitto contro la Francia, celebrando i condottieri imperiali e le loro gesta: Francesco Ferrante e Alfonso d’Avalos, Antonio de Leyva, Antonio Doria. Finita la guerra, il testo si conclude con il ritorno di Narciso, la scoperta della morte e della metamorfosi dell’amata Aretusa e, quindi, la sua trasformazione in fiore «da Amore per miserazione».
Risultato di un’accurata ricerca linguistica e di una riuscita fusione della tradizione classica delle metamorfosi con il poemetto eziologico di tipo alessandrino e con alcuni esperimenti letterari coevi (P. Bembo, O. Fascitelli, S. Capece, A. Telesio), il Pianto d’Aretusa esprime, nello stesso tempo, una forte caratterizzazione politica e testimonia l’appartenenza del M. agli ambienti imperiali della Napoli spagnola, come traspare anche da una lettera di Coriolano Martirano in cui è riportato il giudizio diffuso negli ambienti romani in merito al poemetto composto dal fratello: «Arethusam, nullus est Romae fere, qui non viderit in hostilem modum» (Epistolae familiares, c. 20v). Il poemetto, in effetti, era circolato manoscritto nella città del papa, per volontà dello stesso autore, con lo scopo di raccogliere pareri utili, in vista di una edizione, presso i letterati della corte romana. Fra questi erano l’umanista tedesco Johann Albrecht Widmanstetter (ibid., c. 19v), che, proprio grazie ai fratelli Martirano, dopo la morte di Sannazzaro sarebbe riuscito a entrare in possesso dei suoi preziosi manoscritti, poi Francesco Maria Molza e Claudio Tolomei (ibid., c. 18v), con il quale il M. aveva stretto i primi contatti probabilmente nel 1525, al tempo della fondazione dell’Accademia degli Intronati di Siena, che annoverò tra i suoi membri un nutrito gruppo di napoletani: il marchese del Vasto Alfonso d’Avalos, Giovanni Antonio Muscettola, il principe di Salerno Ferrante Sanseverino, il duca di Amalfi Alfonso Piccolomini, un Maron Galeoto (da identificare verosimilmente con Mario Galeota) e forse il M. (il «Signor di Martinano»).
Tra i lettori romani del M., con i quali egli ebbe modo di conferire in occasione dei vari soggiorni trascorsi nell’Urbe, a cominciare da quello del 1536 al seguito di Carlo V, fu pure Pietro Bembo (ibid., cc. 21, 24v). Al celebre umanista il M. sottopose anche un’altra opera, cui lavorò negli anni Quaranta, il Polifemo, una rielaborazione dell’antica favola del ciclope raccontata da Omero, intrecciata con le metamorfosi ovidiane della ninfa Galatea e del pastore Aci e innestata sulla vicenda dell’eruzione del Vesuvio del 1538 da cui prese origine il Monte Nuovo. Il 15 febbr. 1546 Bembo indirizzò una lunga lettera al M. in cui esponeva dubbi e avanzava consigli, per lo più di tipo grammaticale e lessicale, emersi dalla lettura dell’«operetta», redatta in lingua volgare e pubblicata da F. Fiorentino solo nel 1874.
Accanto all’attività politica e letteraria il M. si dedicò per tutti gli anni Trenta e Quaranta a svolgere un’intensa azione di aggregazione e promozione culturale, tentando di colmare il vuoto lasciato a Napoli dal progressivo esaurimento della straordinaria stagione avviata dall’opera di Giovanni Pontano, come lasciano supporre anche le menzioni e le attestazioni di stima e di gratitudine rivolte al M. e al fratello Coriolano nelle dediche di numerosissime opere a stampa di quegli anni. A questo si univa anche l’impegno profuso come editore di testi, tra cui il De ortu et occasu signorum libri II di Francesco Sirigatti, salvato dal naufragio del sacco di Roma del 1527 e pubblicato a Napoli nel 1531, che gli fece guadagnare l’epiteto di «pius Aeneas» da parte del sodale Giano Anisio.
Luogo di incontro e di discussione per l’ultima generazione dei pontaniani divenne, almeno a partire dal 1535, la villa Leucopetra, dimora del M. e del fratello Coriolano, cantata in latino e in volgare dai letterati meridionali del tempo, fra i quali Cosimo e Giano Anisio (che indirizzò al M. la VI delle sue Epistolae de religione), Nicola Gambino, Benedetto Di Falco, Giovambattista Pino, Berardino Rota, Luigi Tansillo.
Il M. mantenne la carica di segretario del Regno e del Consiglio Collaterale fino alla morte, avvenuta a Napoli il 16 nov. 1548. L’ultimo documento che reca la sua firma in qualità di segretario è del 15 luglio precedente. Fu sepolto nella chiesa di S. Domenico Maggiore e tutti i suoi beni, compresa la biblioteca, passarono al fratello Coriolano.
Opere. Napoli, Biblioteca nazionale, Brancacciani, III.A.16: Ex commentariis Bernardini Martirani Panitti Caroli quinti Caesaris a secretis in hoc Regno Neapolitano De familiis Consentinis (altre versioni Ibid., Mss., XIII.C.65; XIV.E.12; Ibid., Soc. napoletana di storia patria, Mss., XX.C.12: Commentariolum de aliquibus antiquioribus patriciis Consentinis familiis; Ibid., Biblioteca oratoriana dei girolamini, Mss., Petri Lasenae Vita et alia: Ex commentariis Bernardini Martirani (versione del Commentariolum datata 1505); Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, Mss., 630 (Codd. Ital., 303). Il pianto d’Aretusa, a cura di T.R. Toscano, Napoli 1993; Aretusa - Polifemo, introduzione di A. Crupi, Soveria Mannelli 2002.
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