Bernardino Corio
Il nome di Bernardino Corio è legato quasi esclusivamente alla sua opera Patria historia, storia di Milano in volgare dalle origini al 1499 stampata nel 1503, dopo la conquista del ducato a opera di Luigi XII di Francia. Oltre che per la documentazione, altrimenti perduta, offerta dall’autore (soprattutto per i secoli 14° e 15°), essa è rilevante in quanto opera di riferimento sulla storia milanese sin dai primi decenni del Cinquecento, ampiamente utilizzata dalla storiografia successiva, non soltanto locale (come dimostrano gli esempi di Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini).
Figlio di Marco e di Elisabetta Borri, Bernardino Corio nasce a Milano l’8 marzo 1459 e al suo battesimo partecipano eminenti personaggi, tra cui il futuro duca Galeazzo Maria. Il padre, di nobile e antica famiglia, al servizio dei duchi di Milano, svolge (soprattutto per Francesco Sforza) incarichi e ambascerie connessi a campagne militari, fino almeno al 1474 (muore nel 1483; Petrucci 1983a, pp. 85-86, Meschini 1995, pp. 19-58).
Dal 1474 le informazioni si riferiscono piuttosto a Bernardino, che inizia la sua carriera come cameriere di Galeazzo Maria (del cui assassinio nel 1476 è testimone) e poi del giovane Giangaleazzo. Nel 1483 sposa Agnese Fagnani, di antica famiglia legata alla corte, ma finanziariamente non florida (e turbata dai bandi subiti da Ambrogio, fratello di Agnese, per vari crimini). Dal matrimonio nascono cinque figli: Marco Antonio, Giovan Francesco, Faustina, Francesca, Elisabetta. Come cameriere ducale Bernardino, fino al 1491, viene utilizzato in modo flessibile a corte, entrando nell’orbita del reggente Ludovico il Moro (varie missioni hanno relazioni con gli Estensi: il Moro, infatti, aveva sposato Beatrice d’Este). Nonostante nell’Historia Corio stigmatizzi l’ambizione di Ludovico, che assunse il potere a danno del nipote e sostituì i castellani con gente di bassa condizione, la vicinanza con il Moro è tratto caratterizzante la vita e l’attività dello storico.
Dal 1492 egli assume l’ufficio, confermato nel 1494, di podestà a Erba nella pieve d’Incino, che Ludovico trasferisce in feudo dai Dal Verme prima a Chiara Sforza, vedova di Pietro Dal Verme (1488), e poi a Gaspare Sanseverino (1495): secondo l’Historia simili ‘usurpazioni’ ducali ai danni dei feudatari sarebbero una delle cause del crollo della dinastia nel 1499. Nel 1496 Bernardino è podestà di Omegna, nei domini feudali dei Borromeo: l’attività podestarile per le maggiori stirpi del ducato indica una relazione con tali ambienti, vicini (i Sanseverino) o meno (i Borromeo) a Ludovico (Santoro 1968, pp. 235-36; Meschini 1995, pp. 92-110).
Alla fine del 1496 è a Milano, dove si dedica alla continuazione dell’Historia su mandato del Moro che il 18 maggio 1499 lo nomina giudice delle strade. Ma già in settembre Ludovico è costretto a fuggire dopo l’occupazione del ducato da parte dei francesi: Bernardino (incaricato di censire gli uomini validi per la difesa cittadina) perde la carica, recuperata solo durante l’effimero ritorno del Moro nel 1500. L’anno è quello della morte della moglie e del ‘ritiro’ per concludere l’opera storica, senza compiere alcun tentativo di entrare al servizio dei nuovi dominatori, alternando la residenza milanese ai soggiorni nei possessi di Niguarda. Tutto ciò avviene in ristrettezze finanziarie (situazione aggravata anche dai costi della stampa della Patria historia) potendo ormai contare soltanto sulle entrate dei possessi agricoli, nonostante una frode perpetrata ai danni della camera ducale e di Ambrogio Fagnani che gli assicura i beni di proprietà del cognato destinati a confisca.
Soltanto di recente la data di morte è stata ricondotta ai mesi tra il 19 novembre 1504 e il 17 aprile 1505, probabilmente a Niguarda (un epigramma ingiurioso di Lancino Curti, in contatto con il Fagnani, sembra ricondurla a un’esondazione del fiume Seveso: cfr. Morisi Guerra 1978, p. 13; Meschini 1995, pp. 189-204).
Nel servizio prestato per un venticinquennio agli Sforza, Corio conobbe gli umanisti presenti a Milano, ma non fece parte dell’ambiente dotto della cancelleria, quanto piuttosto di quello della corte, a contatto con i duchi, con i loro collaboratori e con le principali dinastie lombarde. Le relazioni con il mondo intellettuale milanese e la sua stessa formazione culturale sono poco note. Solo intorno al 1490 è documentato (cod. 1093 della Biblioteca Trivulziana) uno scambio di sonetti con il celebre poeta di corte Gaspare Visconti (Meschini 1995, pp. 100-103). Nel 1502 l’Utile dialogo amoroso, modesto libriccino stampato da Corio presso Alessandro Minuziano, contiene una lettera di Curti (che più tardi scriverà epigrammi contro di lui) e versi di Antonio Fregoso, Stefano Dolcino e Cesare Sacco; la Patria historia del 1503 si apre con una lettera di Giuseppe Cusani e si chiude con due lettere di Jacopo Antiquario e versi encomiastici di Piattino Piatti, Fregoso, Dulcino, Paolo Lanterio, Bartolomeo Simonetta (figlio di Giovanni), Gianantonio Pegio, Girolamo Crivelli e Francesco Musicola, ma rapporti effettivi sono noti solo con il Piatti, l’Antiquario, il Fregoso e il Visconti.
Corio dichiara di aver iniziato l’Historia nel 1485, in un ritiro a Niguarda durante una pestilenza. L’avvio ‘privato’ del lavoro coesistette con gli impieghi accennati: tali circostanze e la mancanza di salvacondotti ducali paiono escludere esplorazioni in archivi pubblici e postulare piuttosto l’uso di cronache. A questa fase dovrebbero risalire le Vitae Caesarum (da Cesare a Enrico VI, intese come sviluppo del De viris illustribus di Francesco Petrarca e del De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio) e il De gestis veterum illustrium virorum, semplice abbozzo rimasto inedito (Morisi Guerra 1978, pp. 14-15), trattandosi di mere compilazioni non necessitanti l’uso di materiale documentario.
Nella conferma a podestà nel 1494 ancora non si accenna ai suoi meriti di storico, sottolineati invece nella nomina ducale del 1499. La decisione del Moro di sostenere la composizione dell’opera si colloca tra queste due date, dopo gli incarichi podestarili: nel 1497 egli consentiva a Bernardino l’accesso agli archivi comaschi e nel 1498 l’esplorazione della biblioteca del castello di Pavia e il libero spostamento nel ducato per visitare biblioteche e archivi. Nello stesso anno un’altra lettera ducale serviva a Corio per esaminare libri e documenti custoditi a Casale. Quanto già steso era fatto copiare nel 1499 a spese del duca (lettera dell’8 maggio ai maestri delle entrate straordinarie) per essere presentato a Ludovico: fatto con cui va connessa la nomina immediatamente successiva a giudice delle strade, evidente premio e finanziamento per il lavoro mancante. Il significato ‘ufficiale’ attribuito all’opera è indicato da una lettera di Bernardino a Ludovico del 30 luglio dello stesso anno, in cui essa è definita «opera de vostra excelentia» (Meschini 2001, pp. 112-14).
La scelta del Moro si colloca in un quadro di incentivo o commissione di lavori storici che celebrassero la dinastia viscontea e la sua continuazione sforzesca. Nel 1483 Ludovico aveva chiamato a Milano l’umanista alessandrino Giorgio Merula, sostenuto nella stesura delle Antiquitatum Vicecomitum, giunte alla sua morte (1494) soltanto al 1339 (la prima parte, fino al 1322, fu pubblicata nel 1500 dal Minuziano, lo stampatore poi di Corio, e il rimanente nel XXV volume dei Rerum italicarum scriptores). La prosecuzione fu affidata dal Moro, dal 1496 (ma forse già dal 1494) a Tristano Calco, membro della cancelleria dal 1470, autore di poemetti storico-encomiastici e del riordinamento della biblioteca del castello di Pavia (1491-96). Il Calco, anch’egli con un incarico ufficiale che gli aprì archivi e biblioteche, avendo deciso di rifare (sempre in latino) il lavoro del Merula, giunse con la sua Patria historia (pubblicata nel 17° sec.) solo fino al 1322.
È lo stesso periodo dell’appoggio all’opera del Corio. Ludovico, a conoscenza dell’inizio della sua storia, incentrata sulla città più che sui signori, scelse di favorire il compimento di entrambi i lavori, interessato, di fronte alle rivendicazioni sul ducato da parte degli Orléans, alla glorificazione su base storica, dal forte significato legittimante, delle vicende dinastiche, ritenendo che anche un’opera come quella di Bernardino giungesse allo stesso effetto (del resto dal 14° sec. la storia milanese si fonde con quella signorile). Calco e Corio si trovarono a collaborare nelle ricerche archivistiche: entrambi ottennero salvacondotti ed effettuarono insieme i viaggi esplorativi a Pavia e a Casale e, pur nella differenza d’impostazione, condivisero la base documentaria e le stesse carte lasciate da Merula (a differenza di Corio, cui sopravvisse, Calco avrebbe poi collaborato con l’amministrazione francese, completando l’opera in quegli anni).
Si deve pensare, quindi, che la maggior parte del lavoro di Corio sia stata compiuta tra il 1496 e il 1499, senza incarichi amministrativi e provvisto di salvacondotti ducali. Quanto trascritto e consegnato nel maggio 1499 forse non corrispondeva a quanto poi pubblicato. Nella lettera sulla trascrizione si dice che la storia giunge sino al presente e la versione definitiva non va oltre i fatti del 1499; ma, se non proprio una stesura dell’ultima parte, nel periodo 1499-1503 almeno una revisione dovette esservi, alla luce della caduta del ducato che si scorge in prospettiva nell’esame dei fatti più recenti. Inoltre, nella versione finale lo storico si rivolge in seconda persona non più a Ludovico (ne rimane un solo caso), cui in origine doveva essere dedicata l’opera, ma al fratello cardinale Ascanio, cui è dedicata nel 1503 (poco significativo pare invece il fatto che Curti, nella suddetta lettera del 1502, esorti Corio alla conclusione e alla pubblicazione: potrebbe trattarsi di un invito, non accolto, a proseguire oltre il 1499).
Il passaggio al dominio francese non impedì la pubblicazione nel 1503, sia forse per la posizione defilata dell’autore, sia per la dedica ad Ascanio che, liberato, si recava allora a Roma con il cardinale d’Amboise per il conclave. La stampa, con in calce le Vitae Caesarum (cui l’Historia rimanda), fu ultimata dal Minuziano il 15 luglio 1503 in 1200 esemplari in folio di particolare eleganza, corredati di tre notevoli xilografie con influssi sia leonardeschi, sia ferraresi e mantegneschi: un segno che Corio riteneva trattarsi dell’opera della sua vita alla quale affidare la propria fortuna (ad Ascanio fu recata a Roma dal primogenito di Bernardino).
Nell’immediato si trattò, tuttavia, di un fallimento finanziario. Per i costi della stampa lo storico si rivolse al banchiere Gianfrancesco Gallarate, cui affidò poi la vendita delle copie per rimborsare circa 600 fiorini al Minuziano, mentre solo quanto ricavato oltre tale cifra sarebbe stato diviso tra autore e finanziatore. Ma probabilmente quella somma non fu mai raggiunta e Corio rimase indebitato: lo mostra il fatto che le molte copie rimaste invendute furono rilevate dai fratelli Da Legnano che, intorno al 1520, aggiunsero un indice e poi anche un frontespizio con il titolo tradotto in volgare (Meschini 1995, pp. 136-47).
Negli introduttivi De laudibus historiae e Defensio historiae, Corio, secondo un topos umanistico, individua la funzione della storia nell’ammaestrare e nel dispensare gloria. Nel perseguire tale scopo egli dichiara di avere cercato la verità dei fatti in modo imparziale, non solo esaminando le cronache e le storie precedenti, ma anche, come gli storici classici, ricercando documenti ufficiali autentici e atti notarili che illuminassero fatti sconosciuti («quasi infinite et autentice scripture»; la medesima cosa afferma la lettera introduttiva di Giuseppe Cusani). Lo spirito umanistico, con l’imitazione degli storici antichi, si coglie, in effetti, nella presenza di orazioni dei protagonisti, vere o presunte: celebre l’episodio del giuramento di Pontida del 1167, con l’esortazione di Pinamonte da Vimercate ai delegati delle città lombarde, privo di sostegno storico, ma ricco di influenza sull’immaginario risorgimentale. Lo stesso spirito si ravvisa nella celebrazione di azioni nobili ed eroiche e nella trascrizione di iscrizioni, resoconti e documenti. Invero, per le epoche più antiche e ancora fino al 14° sec., Corio utilizza ampiamente anche le cronache medievali. Un esempio: riguardo alle vicende dell’instaurazione della signoria viscontea, sotto l’anno 1314 egli trascrive, pur con evidenti errori, l’importante documento con cui l’arcivescovo esule Cassone della Torre ricorda le sistematiche usurpazioni compiute dalla consorteria signorile ai danni della chiesa ambrosiana (una delle basi della storiografia novecentesca sulla ‘politica ecclesiastica’ dei primi Visconti). Tuttavia, in un’acritica commistione di fonti, egli desume dal cronista Bonincontro Morigia il discorso di rimprovero dell’arcivescovo Aicardo alle indisciplinate truppe pontificie che nel 1323 assediavano Milano e l’episodio della sottrazione del tesoro di Monza, mentre ricava da inattendibili cronisti del 15° sec. (come Donato Bossi) la mai avvenuta permuta dell’episcopato di Novara con l’arcivescovado milanese tra lo stesso Aicardo e Giovanni Visconti (in ciò seguito fino al 17° sec. dalla storiografia milanese). A tal proposito, per inciso, alla Chiesa è dedicato scarso spazio, come a un qualsiasi potentato, spesso ostile a Milano.
La struttura in sette parti (in cui le prime coprono ampi lassi temporali, per divenire poi sempre più dettagliate) rende evidente tale discontinuità. Due sole di esse giungono dall’antichità al 1316 (la prima fino al 1198), alternando narrazioni più approfondite a interi secoli delineati in pochi tratti, secondo la disponibilità delle cronache: quanto desunto da Paolo Diacono sostiene l’interesse per l’epoca longobarda, in cui, a proposito della conquista franca, Corio inizia a far emergere l’astio nei confronti della nazione francese, intrinsecamente nemica di quella italiana, frutto forse di un rimaneggiamento alla luce dei fatti del 1499-1500. Lo stesso vale per la condanna delle fazioni (che poi, all’epoca di Corio avrebbero favorito l’inizio del dominio straniero). Soprattutto in tali sezioni egli indugia, come nelle cronache da cui attinge (per es., Galvano Fiamma), a riportare genealogie mitiche e leggende, rispettando e anzi approvando le antiche tradizioni patrie (Meschini 2001, pp. 137-47, per le parti III-VII, pp. 147-72). Se Tristano Calco non aveva mostrato interesse per la leggenda della nascita di Milano nel luogo segnato da una scrofa, rappresentata in pietra presso il broletto nuovo, Corio la riporta spiegandone l’accoglienza da parte dei suoi concittadini (Morisi Guerra 1978, pp. 22-23). Questa adesione alle ancora vive tradizioni ambrosiane, anche quando infondate, come la presenza di aneddoti e vicende delle famiglie aristocratiche (compresa la propria), segnano la fortuna dell’opera come storia di Milano per eccellenza. D’altra parte, nonostante l’obiettività di fondo, egli è partecipe della storia della sua città: parla infatti dei Milanesi come dei «nostri» ed è consapevole di essere il primo ad avere redatto una storia complessiva di Milano dalle origini al presente.
Il senso patrio è anche fedeltà ai principi: proseguendo nella terza e quarta parte (1317-94 e 1395-1424), Corio rivolge questo sentimento anche ai Visconti. Di essi segue le turbolente vicende nei particolari, presentando di ognuno un ritratto ‘svetoniano’, ma anche insistendo sugli interventi mecenateschi e urbanistici e allargando la visione alle città e ai domini vicini, Scaligeri, Estensi, Carraresi. Egli non tace però la crudeltà di Bernabò riportata dai cronisti, così come riguardo a Giangaleazzo, primo duca, alterna alla descrizione della fama e delle imprese un giudizio negativo, mentre del periodo di Giovanni Maria ricorda soprattutto le divisioni e lotte intestine, in parte rimediate da Filippo Maria. Inizia anche a trattare di Muzio Attendolo Sforza, padre di Francesco, attingendo ad Antonio Minuti e al De vita rebusque gestis Francisci Sfortiae di Lodrisio Crivelli. In tale prospettiva, che viene a identificare la storia cittadina con quella dei signori, la quinta parte, fino alla fine del dominio visconteo e alla repubblica ambrosiana (1425-50), è una completa ripresa del De rebus gestis Francisci Sfortiae di Giovanni Simonetta, anche grazie al fatto che le vicende del condottiero si intrecciano con quelle milanesi (Annoni 1874, passim): ‘plagio’ che continua nella sesta parte (1451-91) fino al 1466 (ma a sua volta Simonetta attingeva a Crivelli il quale attingeva a Minuti).
In questi anni sono introdotte notizie del padre e memorie proprie, mentre lo scenario geografico si allarga. Notevole è l’attenzione per le fazioni guelfa e ghibellina, cui di volta in volta si appoggiano Galeazzo Maria e Ludovico. La fedeltà a quest’ultimo non esime lo storico dal riportare i suoi errori, causa del crollo finale, quale il mutamento di favore dai ghibellini, che ne avevano favorito l’ascesa, ai guelfi, che contribuiranno alla conquista francese. Questa è l’ottica dell’ultima parte (1492-99), che vede la rovina sforzesca e va letta a partire dall’esito: a esso portano le rivalità fra la moglie del duca legittimo escluso dal governo, Isabella d’Aragona, e quella del Moro, Beatrice d’Este, ma soprattutto i citati errori di Ludovico, cui però Corio non toglie la propria adesione nemmeno in queste riflessioni risalenti agli anni della sua disgrazia. In esse indaga le cause della rovina, proprio nel momento di massimo fulgore della corte sforzesca (splendidamente descritta), quando il ducato costituiva l’elemento di equilibrio politico nella penisola. Ed è proprio il Moro a innescarla, prima chiamando Carlo VIII contro gli Aragonesi sollecitati da Isabella, poi rompendo con Venezia, che entrerà nella Lega antimilanese con il papa e il nuovo re Luigi d’Orléans. Proprio qui l’adesione formale alla storiografia classica si accentua, in quella che comunque rimane per Bernardino «una strana disfatta» (non a caso avanza il concetto di fortuna: Morisi Guerra 1978, pp. 29-32) che, anche con l’interruzione al 1499 (mancano le ultime imprese del Moro nel 1500), si coglie pienamente nei suoi tristi esiti, cui non è prospettata alcuna soluzione, ma solo accorata volontà di comprensione.
Nonostante l’iniziale lentezza nella vendita dei costosi volumi, l’Historia ebbe a Milano un successo tale da conoscere quattro nuove edizioni (quella ora di riferimento, basata sull’editio princeps, senza le Vitae Caesarum e gli indici dei Da Legnano, risale al 1978 ed è curata da Anna Morisi), ma soprattutto da essere adottata come storia cittadina ‘ufficiale’. Nel 1550 il senato (tribunale baluardo dell’aristocrazia locale) decretò il rogo di un libello del vescovo Gerolamo Vida che, in una disputa tra cremonesi e pavesi in cui l’Historia era autorevole ‘arbitro’, aveva duramente attaccato Corio. L’opera avrebbe costituito una sorta di ‘documento pubblico’ utilizzato per dirimere liti in materia di nobiltà e di contese feudali e sui giuspatronati. Nel 1545 Paolo Giovio loda Corio nei suoi Elogia virorum illustrium, seguito da tutta la storiografia milanese dei secoli 16°-18° (Paolo Morigia, Filippo Picinelli, Giovanni Sitoni, Giovan Paolo Mazzuchelli, Filippo Argelati, Gerolamo Tiraboschi), fino a Giorgio Giulini (per i soli secoli 14°-15°), che l’avrebbe soppiantato come storico di riferimento di Milano. Ludovico Antonio Muratori avrebbe voluto l’Historia nel XXV volume dei Rerum italicarum scriptores, dissuaso poi dalla mole dell’opera e dalla lingua giudicata ‘cattiva’ (come sosteneva l’Argelati).
La lingua infatti è sempre stata giudicata il maggior limite dell’Historia, in quanto commistione di volgare milanese, toscanismi e prosa latineggiante, e già alla metà del 16° sec. appariva rozza e superata sia rispetto al limpido latino degli umanisti, sia alla prosa volgare bembiana. Le edizioni successive implicarono tutte revisioni sul piano linguistico: nel 1601 il vicario di provvisione invitava a una ristampa integrale ma in una nuova veste linguistica (Porro Lambertenghi 1877, pp. 852-55). Solo di recente (con Anna Morisi, Bruno Migliorini, Giovanni M. Piazza, Paolo Bongrani, Stefano Meschini) il ‘problema’ della lingua di Corio è stato superato grazie a un corretto inquadramento storico: essa risulta così un interessante esperimento di lingua colta mediante un affinamento toscaneggiante del volgare letterario lombardo, assimilabile a quella usata nella cancelleria sforzesca e nelle traduzioni per i duchi del Decembrio o del Landino.
Dalla seconda metà del 19° sec. anche la valutazione generale dell’opera di Corio conobbe un ribaltamento in senso negativo. Piercarlo Annoni rilevò il plagio dell’opera di Simonetta, mentre in clima positivistico Giacinto Romano e Pietro Ghinzoni insistettero su errori e imprecisioni che ne minavano la presunta credibilità, punti sui quali, nello stesso clima, si fermarono agli inizi del secolo successivo gli eruditi Gerolamo Biscaro, Ezio Riboldi, Giulio Bertoni. Più influente fu il duro giudizio di Eduard Fueter che nel 1911 sottolineò lo scarso spirito critico nell’accostare, senza distinzione né scelta, fatti importanti, minuzie insignificanti, leggende e aneddoti (Fueter 1943, pp. 54-56): ne risentirono fino a tempi recenti Vittorio Rossi, Eric Cochrane e Franca Petrucci nella voce per il Dizionario biografico degli Italiani. Una più spassionata valutazione, basata su un esame degli aspetti ‘interni’, giungeva però nel 1932 con Carlo Curto ed era più ampiamente ripresa negli anni Ottanta da Gigliola Soldi Rondinini che evidenziava le caratteristiche obiettive quali l’amore per le tradizioni patrie, la fedeltà per i duchi, la minuzia, l’obiettività, la viva partecipazione nei fatti concernenti la caduta della signoria. L’evento di gran lunga più significativo sul piano critico ed euristico è stato, tuttavia, la pubblicazione di un volume biografico (1995) e di un saggio sull’Historia (2001) da parte di Stefano Meschini, che allo stato attuale costituiscono gli studi di riferimento su Corio. Nel primo un’attenta ricerca archivistica permette di superare la scarsità di dati precedentemente ricavati dai riferimenti autobiografici nell’Historia e da pochi documenti; nel secondo si affronta un esame complessivo dell’opera storica bernardiniana.
De gestis veterum illustrium virorum, ms. in Milano, Biblioteca Ambrosiana, S.Q.+I,11 (abbozzo incompleto).
Utile dialogo amoroso, Mediolani 1502.
Bernardini Corii viri clarissimi Mediolanensis patria historia, Mediolani idibus iulii 1503 (varie copie con il titolo: Dello excellentissimo oratore messer Bernardino Corio milanese historia; ristampe: Venezia 1554; Venezia 1565; Padova 1646; Milano 1855-1857; Torino 1978, I-II, a cura di A. Morisi Guerra).
Vitae Caesarum, pubblicate con l’Historia nelle edizioni 1503, 1554, 1565, 1646.
P.C. Annoni, Un plagio dello storico Bernardino Corio, «Rivista italiana di scienze lettere ed arti», 1874, II, pp. 57-89.
G. Porro Lambertenghi, Della necessità di correggere il Corio. Lettera aperta del vicario e dei dodici di Provvisione, «Archivio storico lombardo», 1877, IV, pp. 852-55.
F. Güterbock, Die Urkunden des Corio. Ein Beitrag zur Geschichte des Lombardenbundes, «Neues Archiv», 1898, XXIII, pp. 213-27.
C. Curto, Bernardino Corio e la sua Patria Historia, «Archivio storico lombardo», 1932, LIX, pp. 110-57.
E. Fueter, Storia della storiografia moderna, 1° vol., Napoli 1943, pp. 54-56, 86, 132, 253, 276.
Gli uffici del dominio sforzesco, a cura di C. Santoro, Milano 1948, pp. XVIII, 31, 189.
G.L. Barni, La vita culturale, in Storia di Milano, 8° vol., Milano 1957, ad indicem.
C. Santoro, Gli offici del comune di Milano e del dominio visconteo-sforzesco (1216-1515), Milano 1968, pp. 235-36.
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Contemporaneamente a Corio, per il Moro scrivono opere storiche Giorgio Merula e Tristano Calco, che si attengono a una storiografia celebrativa (entrambi si arrestano agli inizi del dominio visconteo).
Pier Candido Decembrio (Pavia 1399-Milano 1477), umanista formatosi nello stimolante ambiente pavese, al servizio visconteo (fu secretarius di Filippo Maria, impiegato in continue missioni) e poi sforzesco, oltre a tradurre opere storiche classiche, compose un De laudibus Mediolanensium urbis panegyricus in contrapposizione alla Laudatio Florentinae urbis di Leonardo Bruni, un De origine fidei, ma soprattutto biografie che si prestavano ai modi della storiografia antica e umanistica. Tra esse l’Oratio in funere Nicolai Picinini (1444), la Vita Herculis Estensis, la Vita Francisci Sfortiae (1461-1462), stringata e da cui non trasse i favori sperati, e, ben più rilevante, la Vita Philippi Mariae Vicecomitis, composta nel 1447, durante la repubblica ambrosiana, ispirandosi alle vite di Augusto e di Tiberio di Svetonio. L’opera dapprima segue le vicende politiche e militari del protagonista, in cui l’abilità individuale si confronta con una ‘fortuna’ da cogliere al volo, poi ne illustra la vita privata e le caratteristiche fisiche e psicologiche: aspetti di cui Decembrio si dice testimone. L’opera, subito diffusa, fu stampata nel 1625, poi nel XX volume dei Rerum italicarum scriptores (19252).
Nella storiografia umanistica milanese si segnala Lodrisio Crivelli (1412 ca.-ante 1488), giurista al servizio degli arcivescovi Bartolomeo Capra e Francesco Pizolpasso, con i quali fu al Concilio di Basilea incontrandovi Enea Silvio Piccolomini, entrando poi in contatto con Decembrio, Francesco Filelfo e Poggio Bracciolini. Per Francesco Sforza redasse una relazione dell’ingresso a Milano nel 1450 e orazioni in sua lode, ma non ne ebbe incarichi fino al 1456. Con il cardinalato di Piccolomini riannodò i rapporti con quest’ultimo e fece parte della legazione milanese per l’incoronazione papale, pronunciando la relativa orazione (fu poi al congresso di Mantova del 1459). Nonostante i componimenti poetici (tra cui una celebrazione di Pienza e un De regno Ecclesiae), anche Crivelli deve la fama a una biografia, il De vita rebusque gestis Francisci Sfortiae, ultimata entro il 1469 (ora nel XIX vol. dei Rerum italicarum scriptores), che però si limita alla vita del padre di Francesco, Muzio Attendolo, basandosi sulla Vita di Muzio Attendolo Sforza di Antonio Minuti (ca. 1458), di cui è quasi un’elegante versione latina. Incompleto è pure il De expeditione Pii papae II adversus Turcos, dedicato al papa che, come la vita dello Sforza, parte assai da lontano (ma la prima sezione, fino all’elezione di Pio II, è mera compilazione) e giunge fino al congresso di Mantova. Sono gli anni dello scontro con Filelfo, che in duri scritti contrapposti toccò anche la memoria di Pio II.
In epoca sforzesca coltivò il genere biografico-encomiastico anche Giovanni Simonetta (morto nel 1491 ca.) fratello del potente Cicco, con il quale dal 1444 fu al servizio di Francesco Sforza. Finite le fortune del fratello con l’avvento del Moro, alla di lui morte (1480) fu esiliato a Vercelli ove compose i Rerum gestarum Francisci Sfortiae libri XXXI (vol. XX dei Rerum italicarum scriptores; vi è contenuta un’orazione del 1450 di Crivelli per lo Sforza), in cui, lontano da interessi dotti, affianca a una cruda e dettagliata descrizione delle vicende del protagonista dal 1421 al 1466 il quadro più vasto della situazione italiana. È curioso rilevare, in queste catene di dipendenze tra opere storiche, che nel 1488 un figlio di Crivelli accusò Simonetta di non avergli restituito il lavoro del padre sugli Sforza, mentre altri sostennero essere la biografia di Giovanni copia di quella di Lodrisio e (a torto) avere Simonetta distrutto i libri di Crivelli successivi al secondo.