CASTELLARI (Castellaro), Bernardino (Bernardino della Barba)
Nacque a Viarigi, nel Monferrato, probabilmente da nobile famiglia, nella seconda metà del XV secolo. Avviato alla carriera ecclesiastica sotto la protezione dei Paleologi, marchesi del Monferrato. entrò nell'intimità del cardinale Giulio de' Medici, di cui divenne servitore e confidente "in cose segretissime et importantissime", come amò vantarsi egli stesso in seguito. Con l'elezione di Giulio de' Medici al pontificato, il 19 nov. 1523. il C. cominciò a svolgere un ruolo non secondario nelle complesse vicende che portarono alla lega di Cognac e al Sacco di Roma. Pochi giorni dopo l'elezione di Clemente VII, infatti, l'8 dic. 1523, il C., divenuto camerlengo pontificio, fu inviato in Spagna con il compito di comunicare ufficialmente all'imperatore la notizia dell'assunzione di Clemente VII al pontificato e di esporgli contemporaneamente i motivi per cui il papa non voleva farsi coinvolgere nella guerra contro la Francia: era latore, insomma, di quelle proposte di mediazione di Clemente VII nella guerra tra Francia e Impero che furono considerate da Carlo V come un vero e proprio tradimento da parte di chi era stato una sua creatura.
Dopo essersi incontrato con il Lannoy a Milano, il C. giungeva il 24 marzo 1524 a Burgos, dove era ricevuto freddamente da Carlo V e da dove ripartiva quasi subito per l'Italia, non senza incontrarsi sulla strada del ritorno con Francesco I. La sua missione s'intrecciava, quindi, con quella più famosa, anche se non più fortunata, delle; Schömberg, e come quella si risolveva in un nulla di fatto, almeno per quanto riguardava i rapporti con l'Impero. "Dice questo di più - commentava il Castiglione al ritorno del C. - che il Re di Francia gli ha detto, ch'egli si sente molto obbligato a N. Signore, perché essendosi S. Santità, mentre era Cardinale stato grandissimo inimico, e tanto che Sua Maestà conosce aver ricevuto da S. Sant. tutti li danni che ha patito in Italia, ora che è fatto Papa si è portato modestissimamente, e senza mostrargli inimicizia alcuna, tanto più essendogli Sua Maestà stata contrarissima, e fatto ciò che poteva, acciocché non fossePapa. Hagli ancor imposto, che debba dire a Sua Santità, che non tieneun conto al mondo, né fa caso alcuno di questo esercito Cesareo, che mostra voler passare in Francia, e giura che per tutto il mese di Luglio avrà trentamila fanti e due mila lance, e delibera venir dritto in Italia..."(Lettere..., I, p. 126). Così il C., già prima della missione dell'Aleandro presso il re di Francia, era latore al pontefice di chiare, anche se vagamente minacciose, proposte di alleanza da parte di Francesco I.
Dopo il suo ritorno a Roma, nel luglio del 1524, il C. fu immediatamente inviato a Milano a sollecitare il duca in favore di Giovanni dalle Bande Nere; durante il viaggio continuò la sua azione iplomatica incontrandosi a lungo con l'inviato dell'imperatore in Italia, il de La Roche, in viaggio per Roma. Nell'autunno del 1524 troviamo il C. nunzio pontificio al campo imperiale in Lombardia, dove lo raggiunse come suo segretario il siciliano Gherardo Spatafora, di cui restano numerosi dispacci al Giberti. Il C. era appunto al campo imperiale, quando, il 13 genn. 1525, ottenne una prima ricompensa per la sua attività diplomatica con la nomina a vescovo di Casale, carica vacante per la rinunzia di Gian Giorgio Paleologo.
Dopo quattro anni, nel 1529, il C. avrebbe rinunziato il vescovato a favore di Ippolito de' Medici, con diritto di regresso, ritornandovi poi nel 1531. Sembra che le cure della diocesì non dovesseroassillarlo eccessivamente se, immediatamente dopo aveme preso possesso, scelto come vicario generale il canonico Rolando della Valle, poté tornare ad attendere a più profane cure, ricco dei 3.000 scudi annui, a cui ammontava la rendita del vescovato casalese.
La posizione del rappresentante pontificio al campo imperiale, in un momento in cui la politica di Clemente VII volgeva decisamente a favore della Francia, era delicata e non priva di rischi: "Qui semo visti non dico dalli Signori, ma da tutto il Campo, come il diavolo la croce", scriveva lo Spatafora (Virgili, Otto giorni..., p. 184). Il C. continuava intanto, aseconda degli ondeggiamenti politici del pontefice, a fare la spola tra gli Imperiali e i Francesi, recando sempre nuove proposte di tregua, tutte destinate a finire nel nulla. Nell'imminenza della battaglia di Pavia, insieme con gli altri ambasciatori e con il Morone, fu allontanato dal campo e mandato a Sant'Angelo. Avuta la notizia della vittoria imperiale, si precipitò però a Pavia, da dove inviava al Giberti un ampio resoconto della battaglia, utilizzato dal Guicciardini nel XV libro della Storia d'Italia.
Dopo Pavia, il C. fu nominato nunzio pontificio presso il duca di Milano: si trovò così direttamente coinvolto nelle complesse vicende politiche di quel difficile periodo, dall'arresto del Morone all'occupazione di Milano, all'assedio del castello di porta Giovia.
Le testimonianze sulla congiura del Morone, dalla confessione di questo, così particolareggiata nel descrivere le responsabilità dello Sforza e del pontefice, all'autobiografia di Domenico Sauli, non fanno menzione del C., per cui sembra doversi escludere una sua attiva partecipazione alla congiura. Ma il nunzio pontificio a Milano, in un periodo cruciale per i disegni di Clemente VII, quale quello tra il 1525 e il 1526, non poteva essere all'oscuro di quanto si stava tramando intorno a lui. Sembra piuttosto plausibile supporre che Clemente VII abbia voluto tener fuori il C. dalla congiura, sia per la sua posizione ufficiale, sia per utilizzarlo eventualmente nella guida delle sollevazioni popolari che avrebbero dovuto accompagnarla. Nonostante l'esito catastrofico della congiura, infatti, questo ruolo fu svolto dal C. durante i moti milanesi dell'aprile 1526, moti probabilmente spontanei, provocati dall'estrema tensione popolare per il peso del mantenimento dell'esercito imperiale, ma che avrebbero potuto facilmente divenire l'occasione per cacciare gli Imperiali da Milano e da tutto il ducato, come sperava lo stesso Guicciardini, fiducioso nell'"ardore maraviglioso" del popolo milanese. Dopo il fallimento di questi moti, gli Imperiali accusarono, infatti, il C. di esseme stato l'istigatore, giungendo ad istituire un'inchiesta giudiziaria e ad accusarlo davanti al pontefice. Mentre Clemente VII protestava la sua ignoranza sulla questione, il C. lasciava bruscamente Milano, richiamato dal pontefice secondo la versione ufficiale, con una vera e propria fuga, "insalutato hospite", secondo gli Imperiali. Secondo altre versioni, il suo ruolo nelle sollevazioni dell'aprile sarebbe stato molto più modesto, ed egli si sarebbe in realtà adoperato, insieme con i patrizi milanesi e in particolare con Francesco Visconti, per placare la tensione popolare e per intercedere presso gli Imperiali in favore del popolo milanese. Anche una simile versione sottolinea comunque l'ambiguità della sua condotta, che agli occhi degli Imperiali doveva sembrare una vera e propria connivenza con i rivoltosi, se poco dopo gli poteva essere addirittura offerta la guida di un'insurrezione popolare: "certissimo è - scriveva Giacomo del Cappo, ambasciatore di Mantova a Milano - che il popolo minuto vorrebbe darli dentro et hanno fatto intendere al noncio apostolico che lo vogliono per loro capo. Esso ne ha riso, et gli ha risposto non essere sua professione né pensamento, ma certo è che da canto del popolo men de uno solfarino accenderebbe il foco, et le cose de l'Imperatore in Italia si risolverebbono per via di poco momento (Sanuto, XLI, col. 296).
Giunto a Roma nel maggio 1526, il C. riferiva al pontefice delle disperate condizioni del castello assediato dagli Imperiali, e ripartiva subito dopo per raggiungere l'esercito della lega, come commissario pontificio al campo di Giovanni dalle Bande Nere. Tra il luglio e il settembre si recò a Mantova presso Federico Gonzaga, per persuaderlo a negare il passaggio nelle sue terre alle truppe imperiali e a mantenersi favorevole alla lega, senza con questo modificare di molto l'ambigua politica del marchese. Nel dicembre dello stesso anno, dopo la morte di Giovanni dalle Bande Nere, passò con l'esercito a Piacenza, e a questo periodo e alle difficili vicende della guerra si riferisce un suo nutrito carteggio con il Guicciardini, allora luogotenente generale del pontefice presso gli eserciti della lega, carteggio che abbraccia il periodo tra il novembre 1526 e il gennaio dell'anno successivo.
Nel 1528 il C. è commissario pontificio a Parma e a Piacenza: in quelle circostanze. d'accordo con il Gambara, allora vicelegato a Bologna, egli organizzò un complotto insieme con Girolamo Pio da Carpi, comandante il presidio del duca Alfonso d'Este a Reggio, per conquistare Ferrara al pontefice, uccidendo lo stesso duca. Il complotto fu sventato, probabilmente in seguito alle rivelazioni di Roberto Boschetti, e costò la testa a Girolamo Pio. Nel novembre del 1529, dopo essere stato governatore di Piacenza, lo troviamo in Lombardia a raccogliere truppe per l'impresa di Firenze, ormai pienamente riconciliato con gli Imperiali. Nel 1530, dopo essere stato commissario pontificio all'assedio di Firenze, al comando di seimila lanzichenecchi, il C. fu ulteriormente ricompensato della sua fedeltà alla casa dei Medici con la carica di vicelegato a Bologna, dove subentrò al Gambara, inviato nunzio in Germania.
A partire dal 1530 si nota una cesura nella vita del C., che all'alta diplomazia degli anni precedenti sostituisce un'attività rivolta soprattutto al governo delle città dello Stato della Chiesa, attività essenzialmente repressiva, in cui, del resto, si distinse per abilità e durezza, segno certamente del mutato panorama della politica pontificia dopo il congresso di Bologna, cui il predominio spagnolo lasciava ormai spazio solo più per compiere il processo di accentramento politico-amministrativo dello Stato della Chiesa.
A Bologna, dove ritornò come governatore nel 1543, il C. lasciò fama di governo crudele e sanguinario, specie verso la nobiltà locale, in accordo con le direttive politiche pontificie di eliminazione delle autonomie cittadine e delle prerogative nobiliari: infatti, durante l'anno del suo governatorato, molte delle famiglie nobili bolognesi, tra cui i Pepoli, furono costrette all'esilio.
L'anno seguente, al ritorno del Gambara, il C. tornò a Roma, per essere poi inviato nelle Marche come vicelegato, dove restò dal 531 al 1534 e dove si distinse per la severità e la ferocia del suo governo (Delli impiccamenti di Mons. della Barba senza altri processi è il titolo di un documento coevo che si riferisce appunto a questa sua attività). A lui, coadiuvato dalle truppe di Luigi Gonzaga, Clemente VII affidava l'impresa di assicurare allo Stato pontificio la Repubblica di Ancona, impresa in cui il C. si legò strettamente al destino e alle ambizioni di un altro assai malfamato avventuriero del Cinquecento, il cardinale di Ravenna, Benedetto Accolti. In realtà, tra le ambizioni dell'Accolti e il disegno di Clemente VII vi erano notevoli divergenze: Clemente VII mirava ad assegnare ad Ippolito de' Medici il governo della città, l'Accolti a farsene un dominio personale, tanto più che la diocesi di Ancona era tradizionalmente feudo della sua famiglia.
Dopo alterne vicende, nel 1532, l'Accolti ottenne dietro pagamento di 20.000 ducati annui le carica di legato pontificio nelle Marche e dette incarico al C. di iniziare l'occupazione della città insieme alle truppe del Gonzaga. Presa Ancona di sorpresa e senza spargimento di sangue, ed entratovi il 20 sett. 1532, sfuggendo a stento all'ira dei cittadini, il C. governò la città con l'usata durezza, ponendo fine all'autonomia cittadina. Le fonti anconetane, pur a lui così ostili, devono tuttavia riconoscere che si dovette al suo intervento personale la salvezza della città dal saccheggio da parte delle truppe del Gonzaga.
Proprio ad Ancona si svolse l'episodio che rischiò di travolgere la carriera del C. insieme con quella dell'Accolti: l'invio al patibolo, durante la dura repressione antinobiliare seguita alla presa della città, di cinque patrizi anconetani, in seguito ad una precostituita accusa di cospirazione. L'accusatore, che il C. aveva personalmente istruito, denunziò in seguito i suoi mandanti al Pontefice, che si affrettò a togliere all'Accolti la legazione delle Marche per darla al nipote Ippolito, ciò che probabilmente era il vero obiettivo dei seguito dato a Roma ad un episodio in realtà molto comune nella prassi politica di quegli anni. Nel luglio del 1534, quando ormai la disgrazia dell'Accolti era imminente, il C. era intanto ritornato a Roma, dove aveva ottenuto la ricompensa per l'azione svolta ad Ancona, con l'alta carica di governatore di Roma, conferitagli da Clemente VII negli ultimi mesi della sua vita e confermatagli, anche se per breve tempo, dal Collegio cardinalizio subito dopo la morte del pontefice. La fine del pontificato mediceo impresse però all'affare una svolta imprevista e, nell'aprile del 1535, Paolo III imprigionava l'Accolti, chiamando contemporaneamente il C. a Roma a discolparsi. Questi, che si era rifugiato a Casale, si guardò bene dall'ubbidire, e inviò da Casale una dichiarazione medica comprovante la sua impossibilità di muoversi dalla diocesi a causa della riapertura di una vecchia ferita. "El Barba ha havuto ventura a trovarsi discosto - scriveva il 22 apr. 1535 il Guicciardini a Bartolomeo Lanfredini - ché non harebbe potuto se non patire grossamente. Se la imputatione d'havere fatto morire quelli cinque a torto fussi vera, sarebbe stata bructissima cosa; ma molti credono che la non si verificherà, benché non è credibile che 'l Papa si fussi mosso senza fondamento molto certo. Che questa cosa pesi a' Cardinali lo credo; ma sarà piaciuta a chi è cardinalabile, che è proprio la via a fare loro riuscire el disegno" (Carteggi, XVI, p. 184).
Il 21 nov. 1535 la diocesi di Casale veniva dichiarata vacante; nel 1536 il C. era condannato in contumacia alla privazione di ogni feudo e beneficio di cui fosse investito. Mentre l'Accolti, condannato a morte, veniva graziato in seguito all'intervento di Carlo V, il C. veniva reintegrato nel suo grado nel settembre del 1538, anche se gli fu imposta una confessione scritta sui fatti d'Ancona e una multa di 2.000 scudi d'oro, del resto subito condonatagli. Infatti anche il nuovo pontefice si trovava nella necessità di servirsi della sua particolare esperienza politica e militare.
L'occasione non si fece attendere: papa Paolo III, in gravi difficoltà finanziarie, aveva posto una tassa generale sul sale, estesa anche a Perugia, che in base ad antichi trattati avrebbe dovuto esserne esentata. Tra il malcontento generale, Perugia si ribellò per prima, con la cosiddetta guerra del sale. Paolo III colpiva nel 1540 la città d'interdetto e vi mandava un esercito guidato da Pier Luigi Farnese e dal Castellari. Dopo la sottomissione della città e la partenza del Famese, il C., il 17 giugno 1540, fu nominato governatore di Perugia, carica estesa in seguito a tutta l'Umbria, e vi restava con un,forte presidio a compiervi una dura repressione, coadiuvato da una nuova magistratura di sua creazione, i Conservatori dell'ecclesiastica obbedienza.
Ricomincia così l'ascesa del C., che ottiene subito la ricompensa della sua opera con la nomina, il 17 ag. 1540, a vescovo di Pozzuoli, in aggiunta alla sua diocesi di Casale. Alla diocesi di Pozzuoli però. "preso da scrupoli per il cumulo dei benefici ecclesiastici" (Ughelli-Coleti), rinunziò il 1º marzo 1542. Dopo il puovo governatorato di Bologna, nel 1543, ebbe l'incarico di consegnare la città di Piacenza in nome della Chiesa al nuovo duca Pier Luigi Farnese, nel 1545. Dopo questa data non restano notizie sicure del C., tranne una lettera da Roma dell'aprile 1546. Morì il 27 giugno 1546 a Viterbo.
Ebbe rapporti con le personalità più in vista dql tempo: con il Guicciardini, con il Giovio e particolarmente con l'Aretino. Questi fu legato al C. da rapporti piuttosto stretti, che risalivano al periodo trascorso insieme al campo di Giovanni dalle Bande Nere e, durante la repressione di Perugia, città a cui l'Aretino era legato da ricordi giovanili, non mancò d'intervenire più volte ed efficacemente presso il C. a favore di alcuni cittadini sospetti.
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