BUONDELMONTI, Benghi
Appartenente a una delle più nobili e antiche famiglie fiorentine, nacque, in data imprecisata, nella prima metà del sec. XIV da Tegghia e da Cogna di Ciampolo di Salvi da Monteluco a Lecchi dei Ricasoli (Siena). Nel 1364 sposò Mattea figlia di Iacopo Alberti conte di Certaldo. Il suo nome è ricordato per la prima volta nel 1342, quando sottoscrisse la pace mediata dal duca d'Atene Gualtieri di Brienne tra i Buondelmonti e i Giandonati.
Il B. fu uno dei capi della fazione ultraconservatrice di parte guelfa, e, come del resto molti altri nobili fiorentini, ricoprì, per arrotondare le rendite del suo patrimonio, incarichi militari e civili in città e fuori.
La sua fortuna economica non era cospicua, nonostante che sua madre vedova di Tegghia avesse liquidato il suo credito al Monte per un valore di 866 fiorini. Il suo patrimonio non si accrebbe neanche dopo il 1348-50, come accadde invece a un notevole numero di famiglie della nobiltà che ereditarono i beni dei parenti periti durante la peste: nel 1352 infatti ricevette, con il fratello Ruggero, un'imposizione fiscale di poco superiore a quella di un modesto artigiano. Nel 1345 era castellano a Barga, nel 1355 a Uzzano nel Pistoiese, nel 1358 ricopriva in città la carica di ufficiale della Grascia e capitano di Orsanmichele; l'anno successivo lo troviamo castellano a Montaltuzzo.
Durante la guerra del 1362-64 tra Firenze e Pisa, provocata dal fatto che i Fiorentini, d'accordo con i Senesi, avevano attivato il porto di Talamone nella Maremma come ritorsione alla soppressione delle franchige che i Pisani avevano precedentemente accordato alle merci dei mercanti fiorentini in transito per il loro porto, al B. fu affidata la difesa del castello di Altopascio. Sostenne valorosamente gli attacchi delle truppe pisane, fino a quando, a causa del tradimento di Giorgio Scali, non fu costretto ad abbandonare la piazza salvando a mala pena la vita. Questo episodio provocò in Firenze un'esplosione di collera da parte del popolo che dette alle fiamme i beni degli Scali, ma fu determinante per la candidatura del B. alla Signoria. Egli risultò l'unico grande, assieme ad Amaretto Mannelli, ad essere prescelto nello scrutinio del 1363. La Repubblica inoltre, riconoscendo il suo valore, lo nominò capitano di Barga, dove, nuovamente assalito dalle truppe pisane e accerchiato, riuscì con repentine sortite alla testa dei suoi uomini a rompere lo schieramento nemico e a sbaragliare i Pisani.
Per questo suo ennesimo atto di valore, gli fu confermata per diciotto mesi la podesteria di Barga e alla fine della guerra fu tratto dal numero dei grandi e fatto popolano e cavaliere a spron d'oro; gli venne inoltre affidato il vicariato di Pescia e di tutta la Val di Nievole. L'anno successivo pare che non accettasse la carica di castellano di Scarperia e quella di podestà di Santa Maria a Monte e di Mangona. Nel 1366 fu inviato dalla Repubblica a Milano per trattare l'alleanza con Bernabò Visconti. L'anno successivo fu di nuovo a Milano per assistere alle nozze di Marco, figlio di Bernabò, con Elisabetta di Baviera; vi tornò infine per la terza volta come ambasciatore nel 1368, anno in cui ebbe anche la carica di castellano di Colle di Val d'Elsa. Nel 1369 tornò nuovamente ad Altopascio come castellano, per cui non poté accettare le podesterie di Carmignano e di Laterina per le quali era stato designato.
All'indomani della guerra con Pisa si erano riacutizzate a Firenze le lotte intestine, soprattutto attorno alla parte guelfa. Nel 1367 la famiglia dei Ricci aveva ottenuto un notevole successo inserendo tra i capitani di parte due popolani delle arti minori, rafforzando ancor di più il governo del popolo; un altro episodio di questa lotta politica fu l'emanazione, nel gennaio 1371, di una legge che impediva a qualsiasi grande di accedere alla Signoria se si fosse fatto di popolo soltanto nel corso degli ultimi venti anni e se non avesse rinunziato alla consorteria e al nome. La legge era indirizzata chiaramente contro il B., che l'anno precedente era stato designato a far parte dei Priori, per timore che un magnate, sebbene fattosi di popolo, potesse infrangere il potere del popolo. Il B., pensando di aver dovuto subire una grave ingiustizia, si accordò con Piero degli Albizzi e cominciò a far applicare con ferocia la legge dell'ammonire, che dava la possibilità di denunciare segretamente per ghibellinismo un qualsiasi cittadino, e abilitava i capitani di parte a trasformare tale denuncia in accusa davanti ai giudici competenti. L'alleanza tra gli Albizzi e i Buondelmonti segnò così la sconfitta della famiglia dei Ricci e l'inizio di un periodo di egemonia della parte guelfa arroccata su posizioni sempre più reazionarie e antipopolane.
In questo stesso periodo, nel 1376, il B. fu nominato podestà di Prato, non essendo riuscito a raccogliere un numero sufficiente di voti per diventare governatore di Pistoia. Sempre nello stesso anno fu protagonista di un episodio della guerra detta degli Otto Santi, in cui la Repubblica fiorentina era impegnata contro il papa dopo un clamoroso capovolgimento delle alleanze che la parte guelfa dovette accettare suo malgrado. Il 29 marzo infatti il B. fu inviato nella Romagna toscana al comando di trecento uomini per riconquistare Portico nella valle del Montone, dove si erano asserragliati gli uomini rimasti fedeli a Francesco dei conti Guidi di Dovadola, che erano insorti al grido di "viva la Chiesa". La spedizione comandata dal B. non ottenne però il risultato sperato, pare proprio per il poco entusiasmo con cui la condusse. Una volta quindi tornato a Firenze, la missione fu affidata a Marchionne di Coppo Stefani.
In patria il B. ricoprì frequentemente la carica di capitano di parte perseverando nell'applicare con durezza la legge dell'ammonire. Nel 1378 fu al centro di diverse vertenze giudiziarie, che dimostrarono a quale punto era giunta l'arroganza dell'oligarchia e la potenza della parte. Due cittadini furono denunciati per aver criticato il B. e messer Lotto Castellani; mentre il B. stesso e Lapo da Castiglionchio furono denunciati come traditori del Comune, e accusati nel gennaio del 1378 di corruzione per avere proscritto Francesco Alderotti. Un altro processo si concluse con l'arresto di Alessio Baldovinetti: questi, avendo avuto liti personali con il B., sporse querela contro di lui alla Signoria, ma subito quattro partigiani guelfi testimoniarono di aver udito Alessio gridare "viva il Popolo" nei pressi del palazzo di parte e di aver minacciato di bruciare il palazzo stesso con dentro i capitani. E questa testimonianza gli costò il carcere.
La pace non era stata ancora conclusa tra Firenze e il papa che già si aveva sentore della rivolta che di lì a poco avrebbe scosso le istituzioni della città. Il tumulto dei Ciompi scoppiò nel giugno del 1378, quando fu approvata dai Consigli una legge per l'applicazione e il rinvigorimento degli Ordinamenti di giustizia contro i magnati, proposta da Salvestro de' Medici, eletto gonfaloniere nell'aprile, e fiero nemico della parte. Questo atto fu come un invito alla rivolta. Il popolo assalì, saccheggiò e devastò le case degli oligarchi guelfi. La furia popolare non risparmiò neanche il B., che poco tempo prima, il 7 marzo, aveva ricevuto un gonfalone con l'insegna di re Carlo I dai suoi compagni di parte per il rigore con cui si era distinto nell'ammonire. Non potendo essere arsa la sua casa, ne fu attaccata una in cui aveva abitato in precedenza, e furono bruciate le masserizie che vi si trovavano. In seguito il B. fu tolto dal numero dei popolani e ricondotto al rango di magnate, e nell'agosto dello stesso anno esiliato a Perugia senza la possibilità di portarvi parenti e di potervi incontrare altri grandi, e con l'obbligo di presentarsi regolarmente agli ufficiali di quella città, sotto pena di 1.000 fiorini alla prima mancanza, del doppio alla seconda, e dell'accusa di ribellione alla terza. Non dovette però rispettare le consegne, perché il 25 dicembre lo troviamo a capo, insieme con Luca di Totto da Panzano, di 1.500 sbandati che si erano riuniti a Santa Maria in Pineta (l'attuale Impruneta) in un tentativo di congiura contro il governo del popolo, tentativo che fallì, concludendosi con la cattura di cinque persone che erano state trovate a bighellonare in una taverna. Il B. fu condannato a pagare 1.050 fiorini d'oro per aver violato i confini.
Non conosciamo con esattezza la data della morte del B., ma pare che questa lo cogliesse ancora in esilio nel 1381.
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