JONSON, Ben
Poeta e drammaturgo inglese, nato a Londra o presso Londra (probabilmente non lontano da Westminster) nel 1572, e con ogni probabilità l'11 giugno; morto il 6 agosto 1637 a Londra. J. è la figura più popolare e pittoresca della letteratura elisabettiana; anche più rappresentativo come personaggio storico dello stesso Shakespeare. Ma la reputazione dell'uomo J. soverchiò l'apprezzamento del poeta, come avvenne di altre caratteristiche figure inglesi, più note negli episodî della loro vita che studiate nelle loro opere.
I suoi maggiori pare provenissero dalla Scozia. Suo padre morì un mese prima della nascita di Ben, e la vedova si risposò poco dopo con un maestro muratore. Nella scuola di Westminster, J. ricevette le solide basi della sua robusta cultura classica. Ma nel 1589 pare che il padrigno volesse avviarlo alla carriera del muratore; al che Ben si ribellò. Si arruolò poco dopo nell'esercito e combatté nei Paesi Bassi contro gli Spagnoli. Era già allora un uomo aitante, dal viso coperto di butteri e verruche, dall'aria selvatica e truculenta; ma non ancora ventruto e imponente come apparirà nell'età matura. Cominciò la sua carriera militare con successo. Pochissimo è noto della sua vita tra il 1592 e il 1597. Prese moglie e ne ebbe tre figli, tutti premorti a lui. J. dovette trascorrere quegli anni probabilmente occupato come attore in una compagnia drammatica e studiando con passione gli autori classici.
Tradusse l'Arte poetica di Orazio, e recò in Inghilterra quello spirito umanistico, che aveva avuto tanto larga diffusione sul continente, applicandolo soprattutto alla tecnica teatrale e alla critica letteraria. Nel luglio 1597 lo troviamo in una compagnia di attori ambulanti; uscitone, entrò a far parte della compagnia dell'impresario Henslowe, come commediografo. Poco dopo, per rivalità di mestiere, uccise in duello l'attore Gabriel Spencer e venne segnato con un marchio sul pollice, dopo breve prigionia. Intanto si fece cattolico, e in tale fede restò per circa tredici anni, subendo varie traversie e tenuto in sospetto al tempo della congiura delle polveri (1605). Tra questi trambusti della Londra elisabettiana, nella quale J. si muove a suo agio come uno dei maggiori e più rappresentativi protagonisti, cominciano ad apparire le sue prime opere teatrali. Completa dapprima una commedia non finita di Thomas Nashe, The Isle of Dogs, che gli frutta alcuni giorni di prigione per certi eccessi satirici. Poco dopo, nel settembre 1598, viene rappresentata la sua prima commedia di valore: Every Man in his Humour, alla cui rappresentazione Shakespeare prese parte come attore, al teatro Curtain. Seguono: The Case is Altered, con la caricatura del commediografo Anthony Munday nel personaggio di Balladino; Every Man out of his Humour, Cynthia's Revels, The Poetaster, dove il drammaturgo John Marston è satireggiato nel personaggio di Crispinus. Queste satire personali, in cui lo spirito attaccabrighe di J. trionfava, provocarono ritorsioni (il Satiromastix di Dekker, ecc.) e consigliarono il poeta a dedicarsi a più gravi materie. Nel 1603 rappresentò una tragedia di soggetto classico e di gusto accademico, Sejanus, che si risolse in un insuccesso. Il pubblico elisabettiano non amava tali colte ricostruzioni classiche, il cui formale valore letterario richiedeva preparazione diversa e che piacevano quindi solo ai dotti, e agl'intenditori. Collaborò poi con Marston e Chapman nella commedia Eastward Hoe, che fruttò agli autori la prigione e la minaccia del taglio del naso e delle orecchie, per gl'insulti in essa contenuti contro gli Scozzesi e indirettamente contro il re Giacomo I. Salvato da amici potenti, è accusato poco dopo di essere un propagandista cattolico. Ma J. sa guadagnarsi la simpatia dei potenti e dello stesso re. Con l'avvento di Giacomo I, l'attività di J. si rivolge soprattutto alla composizione di "masques", spettacoli allegorici rappresentati in occasione di feste di corte, di nozze o altro. In questo genere ibrido (qualcosa tra il ballo, il dramma pastorale e il melodramma) J. seppe raggiungere le più alte vette della dignità letteraria. Basti il dire che egli seppe fare sempre opera di poesia, anche in spettacoli nei quali la coreografia, i trucchi scenici, le danze avevano in genere la prevalenza. Il successo dei "masques" di J. (Hymenaei, Hue and Cry after Cupid, Masques of Beauty, Masques of Queens, Golden Age Restored, Vision oj Delight, Masque of Oberon, Lovers made Men, ecc.) fu grande. Ma oltre a questa produzione di arte decorativa, intercalata da leggiadre effusioni liriche, J. dedicò la piena maturità del suo genio, negli anni tra il 1605 e il 1610, alla composizione dei tre drammi coi quali la sua fama si consolidò: Volpone or the Fox (1605), Epicoene or the Silent Woman (1609) e The Alchemist (1610).
In quegli anni J. doveva essere un assiduo frequentatore dei famosi convegni letterarî che si tenevano ogni primo venerdì del mese alla taverna della Sirena (Mermaid Tavern) in Bread Street, e ai quali intervenivano Beaumont, Cotton, Brooke, Donne, Inigo Jones e certo anche Shakespeare. In tali raduni J. doveva pontificare, e la sua dittatura letteraria veniva generalmente riconosciuta. Egli era di quegli ingegni, molto simile in questo al suo grande omonimo del secolo seguente, per i quali le lettere e l'erudizione sono tutta la vita. Nel 1611 apparve la sua seconda tragedia, Catilina, che ebbe lo stesso scarso successo della prima. Nel 1613 J. lasciò Londra e si recò a fare un viaggio in Francia e cinque anni più tardi nell'estate del 1618 J. si recò a piedi in Scozia, dove si recò a far visita, nel suo feudo di Hathornden, al poeta William Drummond, patetico sonettista petrarchesco, che riassunse in uno scritto le sue conversazioni con J. Il giudizio che Drummond dà, a conclusione di queste sue note biografiche intorno a J., suona poco favorevole. J. ci è presentato come uomo pieno di sé, canzonatore degli altri, geloso, invidioso e spaccone, "disposto a guastarsi con un amico piuttosto che rinunziare a un frizzo".
Non pare che i suoi lavori avessero molto successo per le stampe, e gli procurarono certamente scarso profitto. Una sola edizione, incompleta, venne curata durante la sua vita nel 1616. La sua ultima produzione fortunata fu The Staple of News (1625). The New Inn, The Magnetic Lady, The Tale of a Tub, che seguirono, mostrano il declinante genio di J., erudito e moralizzante corrector morum in un ambiente che quasi non lo comprende più. In Tale of a Tub (1633) vibra un'ultima unghiata satirica contro Inigo Jones, l'architetto già suo amico e collaboratore in tanti spettacoli alla corte. Gli ultimi anni di vita sono afflitti da malattie e da difficoltà. Come poeta laureato ottiene una pensione dal governo; gode inoltre della protezione di parecchi nobili mecenati e dell'ammirazione del gruppo dei poeti cavalieri, che tenteranno di portare un po' dello spirito della "Merry England" nella grave e arcigna Inghilterra puritana di Milton e di Cromwell. Nel 1620 l'università di Oxford gli aveva conferito una laurea d'onore. Negli ultimi anni compone note erudite di grammatica e di stilistica intitolate Discoveries; raccoglie le sue traduzioni e i suoi epigrammi (parecchi suoi scritti sono andati perduti in un incendio), e lascia incompiuto un dramma pastorale The Sad Shepherd.
Sulla sua tomba nell'abbazia di Westminster fu scolpita la famosa iscrizione O Rare Ben Jonson. In realtà questo epitafio, cui pure J. deve in parte la sua notorietà, è inesatto in quanto J. fu, in sostanza, uomo comune e tradizionalista, e non si comprende in che senso egli sia definito "raro".
Creatore di un nuovo tipo di commedia, studioso appassionato dei classici, J. addestrò con la lettura di Persio e Giovenale la sua naturale vena satirica, mentre Orazio gli diede l'amor dell'ordine e della perspicuità e la solida base d'un ragionevole buon senso. La cura con cui attese alla stampa d'una parte delle sue opere, la minuziosità delle sue annotazioni stilistiche e grammaticali, rivelano l'umanista erudito, quale ad esempio Shakespeare non si curò mai di essere. In questo senso di scarso stile umanistico va forse inteso l'appunto che J. rivolge a Shakespeare nelle Conversations With Drummond, dove dice che il suo maggior collega "wanted arte". Ma questa "arte", che J. certo possedeva invece in sommo grado, era piuttosto tecnica e critica che non arte creativa; quella tecnica che gli consigliava di scrivere tutte le sue opere in prosa dapprima, per poi voltarle in versi con minuziosa e dotta meticolosità.
Le opere drammatiche di J. nominate nel corso della sua biografia sono raggruppabili in tre categorie: tragedie, commedie, allegorie (masques); più un dramma pastorale, il Sad Shepherd, incompleto ma interessante anche per la geniale commistione in esso dell'elemento pastorale proprio con quello locale e romanzesco del ciclo di Robin Hood. Le due tragedie romane ricordate innanzi anticipano il meticoloso e razionale gusto classico di Corneille o di Dryden. Ma il carattere dell'imperatore Tiberio nella tragedia Sejanus è mirabilmente delineato. Dei masques si è già fatto cenno; J. non solo elevò questa forma di spettacolo teatrale a un alto livello, ma anche contribuì al suo sviluppo, fra l'altro con l'aggiunta d'un anti-masque, che consisteva per lo più in una specie di antidoto burlesco all'eccessiva e un po' sdilinquita soavità del masque stesso. Ma il suo maggior titolo di gloria sono le commedie. La cronologia e il testo delle opere jonsoniane sono oramai fermamente fissati dopo l'edizione critica Herford-Simpson; ma per taluna commedia qualche dubbio può ancora sussistere. Ad ogni modo il primo gruppo delle commedie fu rappresentato dal 1598 al 1601; e in esso primeggiano le commedie degli umori: Every Man in his Humour (che in una prima versione aveva la scena e i personaggi italiani, mentre nella seconda l'ambiente è inglese) ed Every Man out of his Humour. Per "humour" J. intende primamente la disposizione fisica individuale, secondo quella minuta distinzione dei "liquidi, dei vapori", ecc., circolanti nell'organismo, su cui gli empirici e gli scienziati dei secoli scorsi avevano elaborato tutta una teorica. Più generalmente gli umori sono le indoli, le manie, i caratteri distintivi di ogni individuo. J. ci dà una commedia di tipi, spesso non altro che macchiette e caricature, dove l'intreccio è estremamente gracile e quasi insignificante, e dove spesso l'affollamento medesimo delle figure rappresentate toglie la possibilità d'una forte delineazione. Così i tipi di Bobadil, il capitano smargiasso, o di Macilente, l'invidioso, sembrano più "maschere" che reali creature umane. Sicché il preteso realismo di B.J. appare piuttosto un'esperienza di origine, almeno in parte, letteraria. Di ogni commedia sua si possono infatti trovare una o più fonti, in gran parte italiane (anche quando sembrano latine, come nel caso di The Case is Altered).
Nel secondo gruppo delle commedie eccelle Volpone or the Fox, a cui manca un tocco di bontà e di cuore per essere un capolavoro. Invece il tono monotonamente acre, cinico, maligno del dramma finisce col renderlo opprimente. Ma la meschina perversità della natura umana ha certo qui una delle sue più incisive rappresentazioni; e J. qui raggiunge la più intensa espressione del suo ingegno fecondo. Volpone trovò buona accoglienza specialmente nelle università di Cambridge e Oxford; ed è ancor oggi opera d'arte viva, pur nella sua secchezza di linea senza chiaroscuri. Epicoene è una farsa gustosissima e piena di brio; Alchemist una satira che si può ricollegare al Candelao di Giordano Bruno. In Bartholomew Fair abbiamo la sboccata e tracotante presa in giro del puritanismo incombente in una Londra ancora festosa e poco disposta a lasciarsi moralizzare. Il motivo di Belfagor è trattato da J. in The Devil is an ass, che è tuttavia commedia debole e mal costruita. Le commedie del tardo periodo (fra le quali ve n'è una, Tale of a Tub, che è forse un rifacimento d'una commedia giovanile) segnano un graduale declino. J. lavorò quarantacinque anni per dare al suo paese una commedia moderna di costumi, secondo un ideale classico, finemente elaborata, di alto valore letterario. Le sue commedie, come dice egli stesso, non erano facili improvvisazioni come quelle della commedia dell'arte, che tuttavia egli conosce e sfrutta; ma erano all premeditated things. Ma questa stessa premeditazione e soverchia rigidità formale incrina qualche volta la spontaneità del poeta. Dove però, come in Volpone, riesce a sentire la sostanza umana del dramma. egli ci dà esempî di sostenuta e intensa espressione poetica e modelli di grande commedia.
Ediz.: B. J., ed. da C. H. Herford e Percy Simpson, Oxford 1925 e segg.: cinque volumi usciti entro il 1932; l'edizione critica completa consterà di dieci volumi. Versioni moderne di Volpone sono state date recentemente da Alessandro De Stefani in italiano e da Stefan Zweig in tedesco, e vennero rappresentate con notevole successo.
Bibl.: A. W. Ward, History of English Dramatic Literature, Londra 1899; F. Schelling, English Drama, ivi 1914; E. K. Chambers, The Elisabethan Stage, ivi 1923; per l'influsso italiano, cfr. W. Smith, The Commedia dell'Arte, ivi 1912; P. Rebora, L'Italia nel dramma inglese, Milano 1925. Su varî aspetti dell'arte o della personalità di Ben Johnson si vedano i seguenti scritti: M. Kerr, Influence of B. J. on English Comedy, 1912; E. C. Dunn, B. J.'s Art, 1925; N. Zwager, Glimpses of B. J.'s London, 1926; B. Steel, O Rare B. J., Londra 1927; si confrontino anche le introduzioni critiche ai drammi di J. nelle collezioni Mermaid e Belles-Lettres e i saggi di Swinburne, di Gregory Smith (nella Men of Letters Series), di T. S. Eliot (in Sacred Wood), ecc.; oltre a quelli contenuti nelle grandi storie della letteratura inglese.