BECCADELLI, Antonio, detto il Panormita
Nacque a Palermo, da famiglia originaria di Bologna, nel 1394. Il periodo isolano della sua giovinezza lo vide avviato dal padre alla mercatura, ma con scarso entusiasmo perché, ben presto attirato dai più suggestivi studi letterari. Non sembra attendibile una testimonianza di P. C. Decembrio, ripresa da Antonio da Rho, secondo la quale il B. negli ultimi anni del suo soggiorno palermitano avrebbe preso, moglie, però subito abbandonandola dopo averne dilapidata la dote. Tra il 1419 e il 1420 egli lasciò la nativa Sicilia e, raccomandato dall'Aurispa a Martino V, si recò a Firenze, donde poi probabilmente, e comunque per breve tempo, passò a Padova, forse per seguire le lezioni di Gasp. Barzizza. Trasferitosi a Siena per seguire gli studi di diritto alla scuola del famoso giurista catanese Nicola Tudisco, intraprese la composizione del primo libro dell'Ermafrodito, ultimato e pubblicato poi a Bologna nel 1425.
Frutto più di un felice e avventuroso scoppio di giovinezza che non di una profonda cultura o di una vera linfa poetica, i due libri di epigrammi dello Hermaphroditus suscitarono subito, sull'onda di una clamorosa e rapidissima diffusione, una vasta eco di consensi, ma anche perplessità o, addirittura, recise ed aspre condanne. Sulle piazze e nelle chiese violentemente biasimato dalle roventi parole di un s. Bernardino da Siena, di un Roberto da Sarteano, di un Roberto da Lecce, l'Hermaphroditus andò tuttavia incontro a consensi tali da accrescere sempre di più la rinomanza del Panormita. L'opera è una raccolta di epigrammi latini, cui largamente prestano schermi e suggestioni sia i Priapea sia Marziale (particolarmente per l'individuazione delle macchiette e dei tipi umani), Orazio (per certa vena sorridente), Plauto (per il movimento e il colore), ed infine il Catullo delle nugae; raccolta nei cui distici, tecnicamente ineccepibili ed elegantissimi, immersi a volte in una vena dolente, si andava disponendo una larga materia di cronaca e di costume: l'ambiente degli studi di Siena e di Bologna e figure e volti - tratti spesso da quotidiane, concrete esperienze - consegnati al sorriso faceto, alla voluttuosa compiacenza, all'avventuroso sguardo e anche alla malinconia dell'autore. Nella disposizione pittorica, che oltrepassa il racconto e diviene sonora, plastica o scenica, il Panormita ci dischiude un mondo a volte costruito con sapiente retorica, ma spesso rivissuto nella trovata, nell'episodio salace (notevole la variopinta gamma di piccanti figure di donne: Giannetta, Anna, Elisa ed altre) e, specialmente, nel colore che vibra ancora dopo che su quel mondo di facili amori e di bizzarre vicende è caduto il sipario. La positività degli ottanta epigrammi dell'Hermaphroditus risiede forse proprio nell'incontro di un'esperienza reale (i cui termini sono rintracciabili facilmente nella cronaca cittadina) e di un abile divertissement letterario, che tuttavia non sempre riesce a bruciare l'impressione di un'oscenità spesso troppo compiaciuta, rilanciata e scandita da un tono preziosamente popolare. E la peculiare caratteristica dei libellus è appunto questo sollevare al dettato latino umanistico un fondo concreto e boccaccesco di vicende filtrate attraverso echi e presenze di pagine letterarie trecentesche. La molteplicità delle situazioni amorose (onde l'ambiguo titolo della raccolta) complica intenzionalmente il timbro dell'opera, cancellandone la linea unitaria e scheggiando i vari motivi in una colorata atomizzazione. L'iniziale ostentazione dell'autore ("Si mea charta procax, mens sine labe mea est") suggerisce una lettura ambigua, perché spesso non è facile distinguere compiacimento fantastico e registrazione di un sicuro sentimento. Forse proprio per questa ragione molti episodi aprono un vero dialogo, più libero e più umanamente scontato, con la letteratura avvenire, di quanto lo stesso autore potesse immagmare. Ed anche la parola comunicativa e festevole del B. sa trovare qualche pausa narrativa (l'improvviso sopravvenire di un pensiero, un gentile momento, o una pennellata paesistica) nella quale la greve materialità di certa tematica approda a raffinati esiti letterari.
Frattanto, sempre durante il soggiorno bolognese, il B. stringeva amicizia con i più rinomati umanisti del tempo. Trascorreva così l'anno 1426; il seguente fu ricco di viaggi e di fervida attività. Dapprima, dietro raccomandazione di Guarino Veronese, nei primi mesi del 1427, egli cercò una sistemazione alla corte estense; fallito questo progetto, tornò a Firenze dove trascorse gli ultimi mesi dell'anno. Nel 1428 soggiornò a Roma, ove ebbe occasione di conoscere Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla. Incerte notizie avvolgono questo soggiorno romano, rese più oscure e meno attendibili dalle maldicenze di irriducibili avversari, come Antonio Raudense, P. C. Decembrio e lo stesso Valla. Nella primavera del 1429, dopo una breve sosta a Genova presso l'arcivescovo e umanista milanese Bartolomeo della Capra, raggiunse, per consiglio di lui, Pavia, con il dichiarato proponimento di continuare gli studi di legge, ma con la segreta speranza di entrare come poeta ufficiale alla corte dei Visconti.
Lo confortava in tal senso il pressante interessamento del Capra: finalmente, frutto di lunghe attese e di preghiere, giunsero il 10 dic. 1429 la nomina a poeta aulico, con il lauto stipendio di 400 fiorini d'oro l'anno, e, anni dopo, l'ambita incoronazione d'alloro a Parma (maggio 1432) da parte dell'imperatore Sigismondo. A Pavia il B. ebbe anche un incarico di insegnamento allo Studio per gli anni 1410 e 1431. Durante questo periodo, per sfuggire la peste che infuriava in città, fu costretto per breve tempo a rifugiarsi a Stradella, ove visse miseramente. Negli anni 1432 e 1433 fu ancora a Pavia come professore, ma con lo stipendio ridotto a 30 fiorini.
Al periodo pavese si deve far risalire la composizione di un'operetta prettamente letteraria, dal titolo Poematum et prosarum liber. Singolare antologia di prosa e di versi, primo se non unico esempio di "antologia" umanistica, essa rappresenta la ferma volontà dell'autore di offrire un saggio, un bilancio della sua attività letteraria, una prova evidente della sua cultura, da servire come presentazione al nuovo o meglio desiderato, mecenate, Alfonso d'Aragona. Ed infatti le lettere incluse nell'antologia, profondamente rimaneggiate per l'occasione, assurgono al piano del trattato, della divagazione sentimentale o erudita, dell'elzeviro su temi di universale interesse, come l'amore, il dolore, l'amicizia, la malinconia dolce della solitudine. Altrove si incontrano anche prose di grande impegno: elogi, polemiche, apologie, orazioni.
A Pavia il B. si dedicò intensamente anche allo studio di Plauto, che fece conoscere così largamente da poter scrivere che per suo particolare merito in Lombardia "extat aliquis qui Plautum non secus ac suos ut aiunt digitulos norit". L'interesse per lo scrittore latino, in particolare, gli dettò le Indagationes alle prime otto commedie del corpus plautino (con esclusione delle Bacchides ed inclusione dell'Epidicus). Lavorando su tutti i codici che amorosamente era riuscito a procurarsi, emendò i testi e affrontò impegnativi problemi filologici, ma, pur dedicandovisi attivamente ("Pernoctabo igitur cum Asinis plautinis", scriveva scherzosamente all'amico Antonio Cremona), non portòa compimento la sua fatica. Dalle accuse mossegli da interessati avversari, di non avereassolto l'impegno di pubblicare i risultati dei suoi studi plautini, si giustificava ricordando la vastità del lavoro e i molti impedimenti incontrati, come la lunga quanto vana attesa di venire in possesso di un importante codice orsiniano. Ma anche quando, all'incirca intorno al 1434, finalmente poté prendere visione del sospirato manoscritto, forse perché ormai in procinto di lasciare Pavia, o forse anche perché si era affievolito in lui l'interesse e il fervore per l'opera dello scrittore latino, non continuò più la sua fatica. Peraltro, tranne un'ampia documentazione indiretta dei suoi studi plautini, che ci viene offerta dall'epistolario, sembra che il frutto del lavoro, anche se incompiuto, sia ormai andato definitivamente perduto.
Il termine del soggiorno pavese (che si può fissare ai primi del 1434, quando ormai per vari motivi la posizione del B. presso i Visconti si era fortemente incrinata) segna la fine di un inquieto periodo di viaggi, di vagabondaggi, di fugaci avventure studentesche e l'avvento di una raccolta e serena esistenza alla corte aragonese. Entrava infatti in quell'anno, grazie all'intervento di Giacomo Pellegrini, al servizio di Alfonso V d'Aragona, che lo accolse con amabilità e munificenza a Palermo, conferendogli subito la carica di consigliere regio. Nominato successivamente "gaito" della Secrezia della città, seguì successivamente Alfonso a Messina, ove nei piacevoli e dotti conversari, che si tenevano la sera alla presenza del re con la partecipazione dei più illustri letterati di corte, c'è chi ha voluto scorgere il primo nucleo della futura Accademia Pontaniana. Si avviava così il B. a ottenere quel posto preminente presso la corte alfonsina che in seguito, nella lunga dimora napoletana, gli consentirà di svolgere una sua particolare e insostituibile funzione nella diffusione della cultura umanistica nel Mezzogiorno, e quindi di sostenere una parte importante nella penetrazione del rinnovato clima di studi in quelle regioni, che vivevano stancatamente in un marginale silenzio. Da Messina, al seguito di Alfonso, il B. passò prima ad Ischia e fu poi presente all'assedio di Gaeta (fu incaricato delle trattative di resa coi difensori di quella piazzaforte); successivamente fu inviato come ambasciatore presso le repubbliche di Firenze e di Siena, onde impedire una loro alleanza con quella di Genova. Segue un lungo periodo denso di attività e mansioni amministrative: nel 1436, per incarico di Ferdinando, figlio di Alfonso, scrisse un lungo messaggio al Visconti; l'anno successivo, già nominato luogotenente del protonotaro e presidente della Camera della Sommaria, continuò la sua attività d'ufficio a Gaeta dove, trasferitosi con la moglie Filippa, che aveva sposato durante la sua residenza in Lombardia, assolse anche le funzioni di commissario regio.
Dopo aver seguito Alfonso a Castel di Sangro e a Sulmona, il B. partecipò all'assedio di Caiazzo, trattandone la resa, e poi, mentre proseguiva la guerra contro gli Angioini, passò, sempre al seguito del re, in Puglia. Nel 1442 tornò a Gaeta come procuratore, ma ben presto dovette trasferirsi a Napoli, finalmente conquistata da Alfonso, con incarichi di esazione doganale. Dopo aver partecipato al trionfale ingresso del sovrano nella capitale (avvenuto il 26 febbr. 1443), il B. alla nuova corte napoletana del Magnanimo ottenne, quella posizione di risalto e quegli onori che invano aveva sperato di conseguire in Lombardia. In questo ambiente egli poté "dare ampia testimonianza delle sue capacità e delle sue risorse: l'amore per gli studi e per le attività umanistiche, la viva esperienza di letterato e di uomo di corte, la colta e brillante conversazione che ne fecero il centro della vivace vita culturale dell'umanesimo cortigiano nella Napoli alfonsina. Ma vi manifestò anche apertamente il suo carattere ombroso e difficile, insofferente, talvolta incline agli intrighi e alla polemica (clamorosa la sua rottura col Valla, compagno di tanti dotti conversari nella "ora del libro", che si teneva alla corte di Alfonso, e altrettanto note le burrascose polemiche col Porcelio, terminate con l'allontanamento di quest'ultimo dalla corte aragonese). Rapporti di affettuosa amicizia mantenne invece con altri dotti umanisti della stessa corte, come il Facio (che lo ricordò con simpatia nei Rerum gestarum Alphonsi I regis Neapolitani libri Xe nel De viris illustribus), l'Aurispa, il Gaza, il Calcidio, il Curlo, il Bracciolini e soprattutto il Pontano, il cui nome, assieme a quello del Panormita, è legato alla fondazione dell'Accademia. Questa, sorta inizialmente sotto il nome di Porticus Antonianus (ilB. ne aveva vagheggiata forse l'istituzione fin dai remoti tempi dell'"ora del libro", e successivamente aveva stabilito tali riunioni di dotti amici sotto i portici in via dei Tribunali, dando più volte prova del suo spirito arguto nelle accese discussioni di poesia e di oratoria che egli soleva tenere non solo con gli altri "accademici", ma con gli occasionali passanti), fu dal Pontano avviata alla sua maggiore significazione culturale.
Con un viaggio nella terra natale, a Palermo, ebbe inizio l'attività diplomatica e letteraria del nuovo soggiorno napoletano del Beccadelli. Poco dopo il ritorno, probabilmente nel 1455, essendogli morta la moglie Filippa, egli passò a nuove nozze con una giovane nobildonna napoletana, Laura Arcella. Insignito da Alfonso di sempre più alte onorificenze (nel 1450 il sovrano lo nominò "oriundum et naturalem civem Neapolitanum tota sua vita durante", cioè cittadino onorario della capitale), nel 1451 fu inviato con Ludovico Puig e Giovanni Pontano come ambasciatore presso i Fiorentini, per distaccarli dall'alleanza con Francesco Sforza; e poi a Venezia, ove pronunciò una famosa orazione latina. Di ritorno, passando per Padova, ottenne, per farne dono al suo re, una reliquia di Tito Livio. Subito dopo Alfonso gli affidava l'incarico di preparare e di presentare un'orazione in onore di Federico III, in occasione della sua venuta in Italia per essere incoronato imperatore e per sposare Eleonora di Portogallo. In quel periodo il Panormita assolse certamente molti altri incarichi, non tutti documentabili, per conto del suo sovrano e mecenate. Così nel 1453 andò ambasciatore a Genova per persuadere quella Repubblica ad aderire ad una alleanza generale italiana contro i Turchi. Per i suoi meriti e per il continuo prodigarsi in favore del re, fu nominato notaro della Camera della Sommaria "ad vitae decursum" con il privilegio di un alto stipendio.
Spinto da molti a comporre in onore di Alfonso un poema glorificatorio, alieno per temperamento dall'impostazione di opere di vasto respiro, dall'ampia e architettonica narrazione, seguendo, invece, l'intima sua vena "bozzettistica" e arguta, la sua fantasia vivace e impressionistica, la disposizione naturale per l'immagine fuggevole e lapidaria, nel 1455 compose il De dictis et factis Alphonsi regis, ove, rispondendo alla sua congeniale ispirazione, sciolto da schemi e limiti strutturali, riuscì a innalzare un vero monumento a esaltazione e trionfo del sovrano aragonese. In quest'opera, la vena epigrammatica dell'Hermaphroditus, e quella elegiaca delle liriche incluse, per es., nel Poemat. et pros. liber, riaffiorano costantemente nel tono generale, nella tecnica, nell'amore con cui sono colte e adagiate entro il tessuto narrativo certe scenette, nel taglio breve degli episodi, col felice risultato di esiti fulminei e ben angolati, tuttavia lontani dal pretenzioso e suggestivo richiamo alla lezione di Senofonte, con cui l'opera si apre. Assente qualsiasi ambizione storiografica, il De dictis si presenta esclusivamente come un vivace elogio del Magnanimo (scriveva infatti l'autore: "leges tu quidem perpauca e multis, quae rex ille sapientissimus aut dixerit aut fecerit. Consilium enim non fuit omnia colligendi, nec si fuisset, mihi nota aut explorata erant omnia, sed ea dumtaxat excerpsi et literis intexui quibus interfui atque his auribus ausi quaeque a gravissimis testibus audivi").
Pertanto, pur sotto il frizzante abito dell'aneddoto o della sentenza i quattro libri del De dictis (i cuicapitoli sono individualizzati dagli avverbi iuste, modeste, fortiter...), lungi dal respirare lo stesso spirito della storiografia umanistica, ricchi come sono di un linguaggio concreto e pittoresco, ci offrono un profilo del re Alfonso che, spogliato di ogni patina laudatoria, non è lontano dalla realtà storica. Comunque il De dictis, subito ampiamente diffuso e tradotto in varie lingue volgari, contribuì, forse più di qualunque altra opera, a creare e diffondere la fama di Alfonso grande mecenate e principe ideale. Frutto di analoga ispirazione si accompagna al De dictis l'Alphonsi Regis triumphus, operetta breve, in prosa, che descrive il celebre trionfo del re, al suo ingresso in Napoli, nel 1443.
La generosa gratitudine di Alfonso non si fece attendere: oltre al privilegio di fregiare il proprio stemma gentilizio con le armi aragonesi, il B. ottenne in dono, nel 1455, il castello palermitano della Zisa, già dimora degli emiri musulmani e dei sovrani normanni. Né la morte di Alfonso, avvenuta nel 1457 né la conseguente assunzione al trono di Ferdinando I intaccarono minimamente la posizione di preminenza che il B. aveva a corte; anzi il 1458 fu per il Panormita un anno di intensissima attività politica, che culminò con l'ambasceria a Milano presso Francesco Sforza. Nel 1459 partecipò al consiglio di Andria, ma la sua proposta di un deciso intervento contro il principe di Taranto ribelle non fu ascoltata dal re: si profilava così, sempre maggiore, il pericolo della congiura dei baroni, mentre il B., tornato alla sua funzione di segretario della Cancelleria napoletana, scriveva per conto del re - o a suo stesso nome - al doge di Venezia, a Pio II, a Francesco Sforza, a Carlo di Navarra, chiedendo aiuti per il pericolante Regno di Napoli. Durante gli anni 1461-1462 il B. non seguì Ferdinando nelle sue campagne, che assicurarono una definitiva tranquillità allo Stato; anzi, qualche incomprensione reciproca e la riduzione degli assegni, causata dal grave dissesto dell'economia del Regno, lo indussero a frequenti recriminazioni e forse al velato proposito di lasciare Napoli per Palermo o la Spagna. Successivamente alcune generose elargizioni di Ferrante (tra l'altro, il dono di una casa già del principe di Rossano) riportarono la serenità fra i due, anche se non migliorarono molto le non più felicissime condizioni economiche del poeta, scosse altresì dalla costituzione della dote alla figlia Caterina, andata sposa a Cola Tomacello. Gli ultimi anni di vita trascorsero serenamente tra le dotte discussioni all'Accademia e l'insorgenza di un'ombra d'ascetismo, minore tuttavia di quanto la redazione a noi nota delle lettere degli ultimi suoi anni non abbia fatto finora supporre. La morte lo colse quando attendeva a tracciare una biografia di Ferrante, il Liber rerum gestarum Ferdinandi Aragoniae, opera rimasta incompiuta e nella quale avrebbe dovuto narrare anche le vicende degli anni tristi di cui era stato spettatore forse smarrito per la crudeltà che li aveva insanguinati.
Il B. morì a Napoli il 15 gennaio del 1471.
Testimonianza dell'inquieta e singolare vita del Panormita, ma soprattutto documento fondamentale per la storia della cultura umanistica italiana della prima metà del Quattrocento, ed ancor più per la storia non ancora compiutamente delineata dell'Umanesimo meridionale, è il ricco Epistolario, articolato in cinque raccolte, alla cui definitiva sistemazione il B. stesso lavorò per parecchi anni, fino alla morte. La prima è costituita dalle Epistolae Gallicae (che nei manoscritti corre però sotto il titolo di Liber familiarum)ove, nelle intenzioni dichiarate al dedicatario Francesco Arcella, il B. si proponeva di parlare dei propri studi, della avventurosa giovinezza, delle relazioni letterarie, dei costumi del suo tempo: documentazione interessante di una celebrità ottenuta e riconosciuta e ancor più impreziosita dai nomi illustri dei corrispondenti. La possibilità di ricostruire in molti casi la prima stesura delle lettere, raccolte dai destinatari, ci permette di verificare anche nell'epistolario del B. quel passaggio dalla lettera-documento di vita e di letteratura alla lettera-esercizio di stile o testimonianza letteraria rivolta ai "posteri", già documentata in altri epistolari umanistici come quello del Petrarca e quello di Enea Silvio Piccolomini. A questa raccolta segue il Campanarum epistolarum liber: piccola silloge non comprensiva certamente di tutte le lettere che il B. scrisse dal momento del suo trasferimento a Napoli fino al 1457, epoca della compilazione. Il nucleo principale di questa scarna antologia dedicata a Niccolò Buzzuto è costituito dalle lettere inviate ad Alfonso ed all'Aurispa. Minore interesse per l'epistolario del nostro, in quanto lettere raccolte su "commissione" e per motivi di ufficio, rivelano la terza e quarta raccolta (Alphonsi regis epistolae et orationes per Antonium Panormitam e Ferdinandi regis epistolae et legationes per Antonium Panormitam), mentre l'ultimo volume (Quintum epistolarum volumen), la cui compilazione può probabilmente risalire al 1465 ci offre interessanti testimonianze sul regno di Ferdinando. Accanto a questo ricco epistolario, per il quale si sente la necessità di un'edizione critica integrale ed opportunamente commentata, epistolario talora dettato da una magniloquente oratoria, ampiamente sostenuto in toni enfatici, spaziato dalle descrizioni naturalistiche e dai bozzetti rapidi e saporiti, interessanti anche per le innovazioni linguistiche talora ardite, spesso facili, vanno ricordati anche il Liber rerum gestarum Ferdinandi Aragoniae e le numerose poesie composte lungo tutta la sua vita (ma specialmente nel primo periodo): nell'arco breve, dell'epigramma, nel lapidario giro dell'epitaffio o nel dolce canto dell'elegia (Laus Elisiae, Laus Ambrosiae)la voce del B. conserva sempre il suo peculiare timbro inciso nel vivace colore e nel ritmo elegante.
Opere: Hermaphroditus: A. Panormitae Hermaphroditus, ed. C. Forberg, Coburgo 1824; una ediz. più recente con traduzione metrica tedesca ed un commento di A. Kind, a cura di F. Wolff-Untereichen, Leipzig 1908. Il testo è stato tramandato da numerosi mss.: necessaria e utile sarebbe una edizione critica; di scarso valore filologico sarebbe quella proposta da A. Altamura, Per una edizione critica dell'Hermaphroditus, in La Rinascita, IV (1941), pp. 271-275.
I carmi accolti nel Poematum et prosarum liber sono stati editi da M. Natale, A. B. detto il Panormita, Caltanissetta 1902, ma correzioni, carmi inediti ed elenco di tutti i carmi noti del B. in A. Cinquini e R. Valentini, Poesie latine inedite di A. B. detto il Panormita, Aosta 1907 (ma cfr. F. Marletta, Distici latini attribuiti al Panormita in Rass. di lingue e letterature, XIX[1941], pp. 118-122); altri carmi editi in G. Resta, L'epistolario del Panormita, studi per una edizione critica, Messina 1954, pp. 67-68; un'antologia di Carmina varia e dell'Hermaphroditus inPoeti latini del Quattrocento, a cura di F. Arnaldi, L. Gualdo Rosa, L. Monti Sabia, Milano 1964, pp. 6-29.
La più antica edizione del De dictis et factis Alphonsi regis è quella a cura di Felino Sandeo, pubblicata a Pisa da Gregorius de Gentis nel 1485; la più recente è quella compresa nel Thesaurus criticus, a cura di J. Gruterus, II, Palermo 1739; alcuni capitoli inediti sono stati pubblicati da V. Laurenza, Il Panormita a Napoli.
Le epistole Gallicae e le Campanae furono edite la prima volta a Napoli nel 1474-1475 e ristampate con notevoli e volontari interventi sul testo in Antonii Bononiae Beccatelli cognomento Panhormitae Epistolarum libri V; eiusdem orationes II; carmina praeterea quaedam quae ex multis ab eo scriptis adhuc colligi potuere, Venetiis 1553. Questa edizione, con l'aggiunta di poche lettere inedite, fu ristampata a Napoli 1746 e come appendice, con le date di Lucca 1747 e Palermo 1747, nel vol. III del Thesaurus criticus del Grutero. Il Quintum Epistolarum volumen è stato pubblicato in Regis Ferdinandi et aliorum epistolae ac orationes utriusque militiae, Vico Equense 1585. Molte altre lettere non comprese nelle raccolte sono state edite successivamente, altre giacciono ancora inedite nei mss.: un'ampio esame della situazione testuale, e un completo elenco delle Epistolae in G. Resta, L'epistolario, cit.
Inedito è ancora l'incompiuto Liber rerum gestarum Ferdinandi Aragoniae, cosìcome giacciono ancora inedite in numerosi mss. molte sue orazioni.
Bibl.: F. Ramorino, Contributo alla storia biogr. e critica di A. B., Palermo 1883; A. Gaspary, Einige ungedruckte Briefe und Verse von Antonio Panormita, in Vierteljahrsschrift für Kultur und Litteratur der Renaissance, I (1886), pp. 474-482; F. Ramorino, Notizia di alcuneepistole e carmi ineditidi Antonio Panormita, in Arch. stor. ital., s. 5, III (1889), pp. 447-450; M. v. Wolff, Leben und Werke des A. B. gennant Panormita, Leipzig 1894; R. Sabbadini, L'oraz. del Panormita al re Alfonso, in Giorn. stor. d. letterat. ital., XXXI(1898), pp. 246-250; M. Natale, Due codici inediti di A. B., in Arch. stor. siciliano, XXV(1900), pp. 396-398; R. Starrabba, Notizie concernent Antonio Panormita, ibid., XXVII(1902), pp. 133-135; R. Sabbadini, Un biennio umanistico (1425-26) illustrato con nuovi documenti, in Giorn. stor. d. letterat. ital., suppl. 6 (1903), pp. 85-87, 106-119; F. Satullo, La giovinezza di A. B. detto Il Panormita, Palermo 1906; R. Valentini, Sul Panormita: notizie biogr. e filologiche, in Rendic. d. R. Accad. dei Lincei, XVI(1907), pp. 456-490; R. Sabbadini, Ottanta lettere inedite del Panormita, Catania 1910, pp. 3-167, insieme con M. Catalano, Nuovi documenti sul Panormita, pp. 169-200; R. Sabbadini, La più antica lettera del Panormita, in Il libro e la stampa, IV(1910), pp. 113-117; L. Frati, La fam. Beccadelli e il Panormita, in Atti e Mem. d. R. Deputaz. di storia patria per le prov. di Romagna, s. 4, III (1913), pp. 88-100; R. Sabbadini, Storia e critica dei testi latini, Catania 1914; E. Gothein, Il Rinascimento nell'Italia meridionale, Firenze 1915, pp. 207-222; R. Sabbadini, Come il Panormita diventò poeta aulico, in Arch. stor. lombardo, XLIII (1916), pp. 5-28; Id., La polemica fra Porcelio e il Panormita, in Rendic. del R. Ist. lombardo, L (1917), pp. 495-501; R. Garzia, Consensi e dissensi, Bologna 1924, pp. 6-82; A. Corbellini, Note di vita cittadina e univers. pavese del '400, in Bollett. d. Società pavese di storia patria, XXXI(1930), pp. 34-194; V. Laurenza. Il Panormita a Napoli, in Atti d. Accad. Pontaniana, XVII(1936), pp. 25-131; G. Mercati, Alcune note sulla vita e sugli scritti d'Antonio Panormita con tre lettere inedite, in Opere minori I, Città del Vaticano 1937, pp. 93-102; E. Li Gotti, Il B. e l'Hermaphroditus, in Arch. stor. per la Sicilia, VI(1940), pp. 253-264; F. Marletta, Note all'epist. del Panormita, in La Rinascita, V (1942), pp. 516-20. Precis. biogr. e note crit. in G. Resta, L'epistolario, cit.