CENCI, Beatrice
Nacque a Roma il 6 febbr. 1577 da Francesco ed Ersilia Santacroce.
Francesco era uno degli uomini più ricchi di Roma, avendo ereditato dal padre Cristoforo un patrimonio valutato oltre 400.000 scudi che questi aveva accumulato ricorrendo a diversi mezzi illeciti, dall'usura alle malversazioni, soprattutto nel periodo in cui aveva ricoperto la carica di tesoriere generale della Camera apostolica, Per sanare gli illeciti paterni Francesco dovette sborsare in due riprese oltre 60.000 scudi. Anch'egli ebbe molta cura del patrimonio, dedicandosi soprattutto ad importanti acquisti fondiari. Ma proprio con lui la fortuna avita cominciò a sgretolarsi a causa delle multe ingenti che dovette pagare nelle numerose occasioni in cui il suo carattere violento e sregolato lo fece finire nelle mani della giustizia.
La C. trascorse l'infanzia in famiglia, dove dominava il carattere volgare e violento del padre, uomo tirannico, avaro e manesco, che finì per suscitare contro di sé l'odio dei figli, fino al parricidio. Nel giugno del 1584, poco dopo la morte della madre, il padre la mise come educanda nel monastero della S. Croce a Montecitorio, insieme alla sorella maggiore Antonina. Era un educandato modesto, dove le Cenci erano le uniche nobili. Vi rimasero otto anni, fino al settembre del 1592, e furono per la C. i soli anni tranquilli. Quando tornò a casa, infatti, trovò la famiglia in piena crisi.
I tre figli più grandi, Giacomo, Cristoforo e Rocco, erano in rotta col padre, soprattutto per motivi di interesse: egli negava loro il denaro necessario per mantenersi, ed essi facevano debiti e lo derubavano; gli intentarono anche causa per ottenere gli alimenti, e la vinsero. Il contrasto si acuì nel 1594, quando il padre ebbe la sua più brutta avventura giudiziaria, un processo con la grave e infamante imputazione di sodomia. Stette in carcere solo tre mesi, ma per ottenere l'estinzione del procedimento dovette pagare l'enorme somma di 100.000 scudi. I tre figli approfittarono dell'occasione per chiedere a Clemente VIII di separare definitivamente il padre dalla famiglia prima che la mandasse in rovina, e di dare quindi a tutti i figli una sistemazione adeguata. In effetti il papa assegnò loro le rendite di alcune terre paterne, e fu probabilmente per suo interessamento che alla fine di quello stesso anno Antonina si sposò. Dal canto suo il padre accusò i tre di volerlo uccidere: dall'inchiesta emersero soprattutto le responsabilità di Giacomo, ma questi riuscì a trovare testimoni a suo favore, e fu prosciolto. Il padre lo accusò ancora di aver subornato testimoni contro di lui durante il processo per sodomia, ma anche questa querela finì nel nulla.
Questi ripetuti smacchi, il vedersi sfuggire il controllo sulla famiglia, il costante timore di essere ucciso diedero un duro colpo al morale di Francesco Cenci, che cominciò a pensare di lasciare definitivamente Roma. Intanto, dopo la scarcerazione, allontanò da sé i due figli più piccoli. Bernardo e Paolo, gli unici maschi rimasti in casa, mettendoli "a dozzina" presso un prete. Un'altra sua preoccupazione era che anche la C., come Antonina, si sposasse, perché la dote avrebbe ulteriormente salassato il suo già dissestato patrimonio. Per impedire questo, nell'aprile del 1595 rinchiuse la C. e la seconda moglie, Lucrezia Petroni, nella rocca di Petrella Salto, un piccolo paese tra Rieti e Avezzano, a due giorni di viaggio da Roma, nel territorio del Regno di Napoli.
Dopo aver subito negli ultimi tre anni le vicende familiari, la C. si trovò così sacrificata all'egoismo del padre, isolata in un ambiente estraneo, in compagnia della matrigna, una donna debole e scialba, e di qualche servitore. La loro vita, già assai monotona e triste, divenne più dura l'anno seguente, quando il padre, temendo che potessero fuggire, tornò alla rocca e le segregò in un appartamento del quale fece sprangare porte e finestre, trasformandolo in una vera e propria prigione: il cibo veniva passato alle due donne attraverso uno sportellino. Dopo qualche tempo esse riuscirono a eludere la sorveglianza del guardiano, ma la loro sorte non migliorò che di poco. Esasperate, presero a spedire lettere ai parenti a Roma invocando aiuto: una lettera della C. a Giacomo, nella quale lo scongiurava di trovarle marito o almeno di metterla in un monastero, cadde nelle mani del padre, nel dicembre del 1597. Tornato subito alla rocca, egli picchiò selvaggiamente la figlia, e decise di stabilirvisi, per tenere meglio sotto controllo le due donne. Richiamò a sé anche Bernardo e Paolo, ma dopo qualche tempo essi riuscirono a fuggire a Roma.
La C. non aveva certo un carattere passivo, e non poteva sopportare senza reagire quella situazione. Era spaventata e disgustata dalla brutalità e dal disprezzo con cui il padre la trattava, obbligandola anche ad accudire alle sue pulizie personali, ossessionata dalla sua continua presenza nello spazio chiuso dalle mura della rocca. E soprattutto a quel punto si rendeva conto di essere in sua completa balìa, e di non poter più sperare in alcun aiuto dall'esterno. La decisione di ucciderlo fu così non solo l'espressione del suo odio, ma anche l'unica via per riacquistare la libertà. Fra le violenze paterne non sembra ci sia stato anche lo stupro, del quale molto si è parlato. Un tentativo non si può certo escludere, visto che la violenza sessuale di Francesco non si fermava davanti ai congiunti: pochi anni prima infatti aveva tentato di sodomizzare un figliastro. Ma è da notare che né Lucrezia né la C., nelle confessioni rese al processo, fecero mai accenno a un fatto del genere, che sarebbe stato un'importante attenuante. Il primo a parlarne fu il loro difensore, Prospero Farinacci, che sperò così di salvare la C. dal patibolo. Due serve che chiamò a testimoniare in proposito riferirono però circostanze poco convincenti, e lo stesso Farinacci, commentando in seguito questo processo nel suo Responsorum criminalium liber primus, riconobbe che le prove erano molto fragili.
La C. attuò il suo proposito con molta fermezza, superando continue difficoltà, aiutata solo dall'ex castellano, Olimpio Calvetti, che fu probabilmente anche suo amante. Il primo progetto fu di far uccidere il padre dai banditi della zona, ma le trattative con costoro non andarono in porto. Allora la C. pensò di avvelenarlo, e nell'agosto del 1598 mandò a Roma Olimpio, per mettere Giacomo al corrente dei suoi piani (Cristoforo e Rocco nel frattempo erano morti): Giacomo assentì e diede a Olimpio del veleno. Ma il padre, insospettito, obbligava la C. ad assaggiare ogni cibo e bevanda. Allora ella si risolse a farlo uccidere nel sonno. Al momento decisivo sia Lucrezia sia Olimpio e il suo complice, Marzio Catalano, esitarono, e fu solo la grande determinazione della C. a trascinarli. Francesco Cenci venne così ucciso a martellate dai due sicari all'alba del 9 settembre: per simulare una disgrazia, su proposta della C. venne sfondato il pavimento di un balcone di legno su cui dava la sua stanza, ed il corpo fatto cadere nella macchia sottostante.
Il 12 giunsero alla rocca Giacomo e Bernardo, e il giorno dopo tutti ripartirono per Roma, senza neppur far celebrare le esequie del padre. L'illusione dell'impunità durò molto poco. La popolazione del paese era convinta che si era trattato di un delitto, la voce giunse a Roma e agli inizi di novembre il Fisco aprì un'inchiesta: i Cenci sostennero tutti la versione dell'incidente, ma vennero messi agli arresti domiciliari in attesa di ulteriori accertamenti. Intanto sul luogo del delitto si svolgevano due inchieste, una ordinata da Marzio Colonna, proprietario della rocca, e l'altra dal viceré di Napoli: vennero facilmente rinvenute le prove del delitto, e a Napoli fu emesso un mandato di cattura contro i quattro Cenci (Paolo era morto di febbre agli inizi di dicembre), i due sicari e le loro mogli. Olimpio si trovava allora a Roma nella casa dei Cenci. Giacomo decise di sbarazzarsene, preoccupato anche dal suo comportamento imprudente, e agli inizi di gennaio lo convinse a partire con un suo fido che aveva l'incarico di ucciderlo. Marzio invece venne catturato il 12 gennaio in un paese vicino a Petrella Salto, dove si era rifugiato. Dalle sue confessioni, rese a Roma nel carcere di Tor di Nona, dove poco dopo morì, emersero tutti i particolari del delitto. I Cenci vennero arrestati, e sottoposti a numerosi interrogatori e confronti dal luogotenente criminale del Vicario, Ulisse Moscato: tutti rimasero saldi nella primitiva versione; soprattutto la C. tenne testa al magistrato, facendo coraggio anche all'esitante Lucrezia. Il Moscato allora estese la rete degli interrogatori, figché non ebbe indizi sufficienti per mettere i Cenci alla tortura. Agli inizi di agosto vennero successivamente sottoposti al tormento della corda Giacomo, Lucrezia e la C., e tutti cedettero immediatamente. Giacomo e Lucrezia addossarono la maggior responsabilità alla C., mentre questa, più lucidamente, disse che l'iniziativa era stata tutta di Olimpio, ormai morto.
Dopo queste confessioni i Cenci poterono scegliersi i difensori, che furono due fra i più celebri avvocati di Roma, Prospero Farinacci e Pianca Coronato de' Coronati. Nelle loro arringhe, presentate per iscritto al papa agli inizi di settembre, sostennero entrambi che la principale responsabile del delitto era la C., ma che non doveva essere condannata a morte perché il suo gesto era stato motivato dallo stupro paterno. Quanto agli altri, neppure loro meritavano la morte, perché avecano semplicemente acconsentito a quanto la C. aveva già deciso. A parte ogni valutazione di questa linea di difesa, considerata fiacca e priva di pathos da alcuni studiosi, il momento era particolarmente sfavorevole agli imputati, perché il ripetersi fra la nobiltà romana di omicidi familiari, l'ultimo dei quali era avvenuto proprio il 5 settembre, mentre il papa stava esaminando le difese, spingeva il papa ad una condanna esemplare. Giacomo, Lucrezia e Beatrice vennero condannati a morte, Bernardo, per la sua giovane età e il suo ruolo secondario, alla galera a vita, dopo aver assistito all'esecuzione dei suoi; i loro beni vennero confiscati.
Il processo fu seguito con molto interesse dall'opinione pubblica, che manifestò grande simpatia per gli imputati. Soprattutto la C. colpì per la sua bellezza e la sua giovinezza, e subito nacque intorno a lei la leggenda, che ne fece un'eroina: si disse anche che aveva sopportato la durissima tortura della veglia, cedendo solo alla fine.
All'esecuzione, avvenuta l'11 sett. 1599, assistette un'enorme folla commossa. La C. affrontò coraggiosamente la mannaia, dopo Lucrezia, e gli Avvisi la definirono "ardita", "salda", "virile".
Una grande folla rese omaggio al suo corpo, che restò esposto fino a sera accanto al palco, e la accompagnò poi a S. Pietro in Montorio, dove venne seppellita. Sulla sua lapide non venne posta alcuna iscrizione, come era d'uso per i giustiziati. I suoi. resti vennero dispersi nel 1798, durante l'occupazione francese, quando le tombe vennero violate per recuperare il piombo delle bare.
Il testamento della C., che conteneva soprattutto numerosi lasciti a chiese e monasteri, non ebbe naturalmente effetto a causa della confisca dei beni. Un lascito particolare a un "povero fanciullo pupillo", affidato a una sua amica, ha fatto pensare a qualche studioso che si trattasse di un figlio che la C. aveva avuto da Olimpio, ma l'ipotesi non sembra molto consistente.
Durante il processo l'interesse dell'opinione pubblica fu colpito non soltanto dalle figure dei parricidi, ma anche dalla sorte del loro ancora cospicuo patrimonio. Si accusò Clemente VIII di avere mire su di esso, e ciò che accadde in seguito confermò questa convinzione. Infatti subito dopo l'esecuzione la mogliedi Giacomo, in gravi difficoltà finanziarie, presentò ricorso alla Sacra Rota contro la confisca dei beni, perché legati da fidecommisso. Nella causa intervennero anche Bernardo e i due cugini Baldassare e Ludovico Cenci, che li reclamavano, ciascuno per proprio conto, in base al fatto che Giacomo era stato diseredato. Mentre la causa era ancora in corso, i beni vennero messi all'asta, e attraverso vari maneggi la parte più cospicua di essi, la tenuta di Torrenova, di quasi mille rubbia di superficie, alle porte della città, fu acquistata da Gian Francesco Aldobrandini, nipote del papa, per una cifra assai inferiore al suo valore. Lo scandalo fu clamoroso, e il papa, per sedarlo, fucostretto a concedere alla moglie di Giacomo la restituzione di quanto restava, dietro una composizione però di 80.000 scudi. Per il pagamento di questa ingente somma venne eretto, nel Aoi, il Monte Cenci. La famiglia continuava però a trovarsi in serie difficoltà, perché quasi tutte le rendite delle proprietà venivano assorbite dal pagamento degli interessi dei luoghi di Monte. Così nel 1615 i Cenci chiesero al papa di liberare alcuni beni dal vincolo fidecommissario per poterli vendere ed estinguere così il Monte. Finì in tal modo il grosso patrimonio.
Un presunto ritratto della C., attribuito a Guido Reni, è conservato a Roma nella Galleria nazionale d'arte antica: ma sono improbabili sia l'identificazione del personaggio sia quella del pittore. Nel sec. XIX la leggenda della C. conobbe una grande fortuna, e fu soggetto di opere pittoriche e scultoree assai mediocri (un elenco in Ricci, II, pp. 280 s.). Molto più importanti sono le numerose opere teatrali e di prosa, fra cui le tragedie The Cenci, diP. B. Shelley (1819), Beatryks Cenci di J.Słowacki (1839), Beatrice Cenci di G. B. Niccolini (1844), e il romanzo Beatrice Cenci di Francesco Domenico Guerrazzi (1853). In tutte queste opere, pur diverse tra loro per ispirazione, la C. appare come l'eroina che sola, in mezzo alla generale vigliaccheria di amici e parenti, osa tener testa al padre, vendica l'oltraggio subito e affronta con fermezza la sua sorte. Il tema è stato ripreso nel Novecento da Antonin Artaud nella tragedia Les Cenci, del 1935. Essa è permeata dalla concezione esistenzialista di un male che coinvolge vittime e carnefici, per cui la C. si sente contaminata e non riscattata dal parricidio. Ultima in ordine di tempo, per le rielaborazioni letterarie di questa vicenda, è la Beatrice Cenci di G. Drudi (Torino 1979).
Fonti e Bibl.: Tutte le fonti relative a questa vicenda sono rintracciate ed utilizzate. Gli studi storici più importanti sono: A. Bertolotti, Francesco Cenci e la sua famiglia, Firenze 1879; I. Rinieri, B. C. secondo i costituti del suo processo, Siena 1909; C. Ricci, B. C., Milano 1923; quest'ultimo contiene un repertorio critico delle fonti e una completa bibliografia. Fra gli scritti pubbl. dopo lo studio del Ricci sono da ricordare: G. Rosadi, I documenti su B. C. e il libro di C. Ricci, in Nuova Antologia, 1° marzo 1924, pp. 3-17; [I. Rinieri], Ancora di B. C., in La Civiltà cattolica, LXXV (1924), I, pp. 34-41; Id., B. C. Gli ultimi rantoli di una leggenda, ibid., LXXVI(1925), III, pp. 311-23; Id., L'ultima confess. di B. C., ibid., pp. 500-10; O. Montenovesi, B. C. davanti alla giustizia dei suoi tempi e alla storia, Roma 1928; L. Guglielmo. D'un presunto attentato all'onore di B. C. compiuto dal padre Francesco Cenci, Lecce 1933; E. Martinetti Di Valentano, Il Parricidio Cenci, Roma 1933; C. Fraschetti, I Cenci …, Roma 1933, ad Ind.; L. von Pastor, Storia dei papi, XI,Roma 1958, pp. 626-629.