VIVARINI, Bartolomeo
– Figlio di un vetraio di nome Michele già in attività nel 1398 (Paoletti - Ludwig, 1899, p. 259), e di una donna di cui non si hanno notizie, questo pittore – di cui è ignota la data di nascita e assai incerta quella di morte – mosse i primi passi nella bottega aperta a Venezia, con ogni probabilità, tra gli anni Trenta e Quaranta del Quattrocento dal fratello maggiore Antonio (doc. 1440 - ante 1484; v. la voce in questo Dizionario) e frequentata, almeno dalla metà del settimo decennio, dal nipote Alvise (post 1446-1504/1505 circa).
Lentamente affiorato dalle più sbalzate forme del primo – con il quale si trovò a condividere gli incarichi per quasi quindici anni –, Bartolomeo si distinse per una pittura di martellante animosità plastica e spiccata saturazione cromatica, attraverso cui poté non solo presentarsi come l’erede veneziano di Andrea Mantegna, ma anche risalire all’antica tradizione familiare dell’arte del vetro. Ne derivò, nei numerosi polittici sparsi fra laguna ed entroterra e nelle diverse tavole di devozione privata, un atteggiamento ostinatamente arcaico, impermeabile – salvo qualche eccezione – alle più avanzate soluzioni sintattico-luminose della civiltà umanistica d’ambito belliniano e, quindi, antonellesco.
La prima attestazione di Bartolomeo risale al 1450, quando il pittore firmò, in compagnia di Antonio, il grandioso polittico già nella chiesa di S. Girolamo alla Certosa di Bologna (ora alla Pinacoteca nazionale): pur nei limiti di un lavoro a quattro mani, l’esordio del maestro avvenne, dunque, nel segno di una commissione di alto prestigio come quella del pontefice Niccolò V, deciso a celebrare, secondo l’iscrizione della cornice, la memoria dell’amico cardinale Niccolò Albergati (Medica, 1998, pp. 41 s.). Morto Giovanni d’Alemagna, socio di Antonio, sui ponteggi della cappella Ovetari agli Eremitani, Bartolomeo poté finalmente uscire allo scoperto e andare ben oltre i fugaci interventi di ribattitura metallica (già segnalati da Pallucchini, 1962, p. 105) sull’abito del S. Antonio nel trittico antoniesco, forse del 1449, in S. Giobbe a Venezia: allora il suo linguaggio si fuse con quello del fratello, in un prezioso ordito di linee tese in punta di pennello e à plat di colore urlanti di materia. Così avvenne, seppur con toni meno sontuosi, nei due anni successivi: prima nel polittico – smembrato fra i musei di Vienna, Praga, Worcester e una raccolta privata italiana – dell’altare maggiore di S. Francesco a Padova, originariamente datato e firmato «MCCCCLI Antonius et Bartholomeus fratres de Murano pinxerunt hoc opus» (Brandolese, 1795, p. 249, ma cfr. Zeri, 1975, 1988a, p. 161); poi nell’insieme con l’Annunciazione lignea fra S. Agostino e Filippo Benizi – e la cuspide iperantoniesca oggi a Brera – già nel convento dell’Annunciata a Rovato (Brescia), ma ora in villa Cagnola a Gazzada (Varese), dove la firma pressoché identica alla precedente è accompagnata dall’anno 1452 (Uccelli, 2003, p. 86).
Per tutto il sesto decennio, Bartolomeo incalzò le figure di Antonio con arcigni intacchi lapidei che, almeno una volta, rigarono le superfici di una fitta trama di tagli e direttrici dalle intenzioni vagamente prospettiche – come nel Cristoforo del convento di S. Eufemia ad Arbe, compagno del Santo leggente parimenti in loco e del S. Pietro oggi al Musée du Petit Palais di Avignone (Laclotte - Mognetti, 1976) –, e, più spesso, si risolsero in raggelata cifra decorativa – come nelle Sante Apollonia e Lucia (oggi rispettivamente in una raccolta privata milanese e al Cincinnati Art Museum) pubblicate da Longhi, 1960, 1978, pp. 141 s., con datazione tuttavia troppo precoce.
Il 15 settembre 1458 Bartolomeo fu nominato unico esecutore testamentario dalla cognata Antonia (Ludwig, 1905, p. 14). È lo stesso momento in cui i due fratelli iniziarono a dividersi il lavoro, anche all’interno di una stessa opera, in maniera più chiara e distinta: poste simili premesse, insieme all’intagliatore Francesco Moranzone (Kukuljević Sakcinski, 1857) in quell’anno i due firmarono il polittico di S. Bernardino di nuovo nel convento di S. Eufemia ad Arbe, dove alle forme larghe ed essenziali del registro superiore – antoniesco, ma toccato dal giovane maestro a livello delle vesti del Battista e della Santa martire ai lati della cimasa – risponde la geometria angolata e pungente dell’ordine inferiore, tutto di Bartolomeo. Subito dopo, questi dovette fare in parte sua una delle tante commissioni giunte all’atelier vivariniano dal Sud Adriatico, occupandosi, con inedita tessitura linearistica e disegnativa, della Madonna in trono oggi alla Pinacoteca metropolitana di Bari, vano centrale di un grande polittico di pertinenza benedettina di cui sopravvivono la tavola di Bartolomeo e due dei sei pannelli di bottega (Castelfranco, 1927-1928). I tempi erano allora maturi per l’esordio del tutto indipendente del S. Giovanni da Capestrano oggi al Louvre, firmato e datato 1459. Qui, al pari della coeva Madonna del latte nello stesso museo parigino (Thiébaut, 2011), il mantegnismo imbalsamato di Bartolomeo si scioglie, per la prima volta con effetti di vitrea eleganza, sotto i colpi degli esperimenti luminosi del giovane Bellini. Chissà che, in questi primi anni Sessanta, non cada una pala agiografica di S. Pietro martire, sul modello di quella belliniana di S. Giovanni Evangelista nella cappella in cornu Epistolae di S. Maria della Carità a Venezia (Russo, in corso di stampa), adombrata dall’innegabile consanguineità stilistica fra una storia con l’Uccisione del santo già sul mercato antiquario (S. Marco Casa d’Aste, Venezia, 15 dicembre 2007) e la Crocifissione con s. Domenico del Kunstmuseum di Basilea – quest’ultima valutata, insieme alla ben più tarda Incoronazione della Vergine di New Orleans, parte del perduto altare di S. Domenico a Bologna (Cavalca, 2008, pp. 45-51), sulla cui realizzazione da parte di Bartolomeo, tuttavia, non esiste alcuna evidenza.
L’8 gennaio 1462 – nello stesso anno in cui, secondo le Memorie di Montolmo di Pierpaolo Bartolazzi, coadiuvò il fratello nel polittico oggi nella Pinacoteca di Corridonia (Astolfi, 1902, p. 193) –, Bartolomeo, dalla parrocchia di S. Maria Formosa, fu nominato unico erede nel testamento della moglie Caterina, allora incinta non sappiamo di quale dei tre figli della coppia (Giovanni Alvise, Elisabetta o Lucia; Testi, 1915, p. 418). Il 31 dicembre 1465 Bartolomeo e Antonio parteciparono invece dell’eredità di una tale Cristina vedova di Simone (Ludwig, 1905, p. 17). Fra questi due termini cronologici trova posto la Madonna con il Bambino dell’abbazia di Westminster, dove le antiche divagazioni squarcionesche si tramutarono nel tardivo ma cosciente adeguamento all’organicismo di Donatello. Da quel momento, Bartolomeo non solo collaborò per l’ultima volta con Antonio nel polittico datato 1464 per i minori osservanti di Osimo – di cui orchestrò l’Incoronazione della Vergine nel campo principale e i quattro pannelli di sinistra –, ma licenziò anche una serie di opere autonome intorno a due cruciali ancone, fortunatamente provviste della firma e degli anni d’esecuzione: il pentittico del 1464 per S. Andrea della Certosa, oggi all’Accademia di Venezia (Steer, 2002), e la pala del 1465 per il convento francescano di S. Pietro delle Fosse a Bari, ora a Capodimonte a Napoli (Leone de Castris, 1999). Con questi pezzi, il maestro prima riformò la norma antoniesca dell’altare a più comparti – eliminando il secondo registro del prototipo di Parenzo – e poi costruì la prima pala quadra della pittura veneziana, facendo fluttuare i santi a mezza figura nel campo unico della rappresentazione. Negli stessi anni, o in quelli immediatamente successivi, nacquero il paliotto con la Madonna dell’umiltà nella collezione Lehman al Metropolitan Museum of art di New York, la Vergine già Sotheby’s (New York, 31 gennaio-1° febbraio 2013) e la n. 26 del Civico Museo Correr di Venezia. A valle, e non a monte, di un simile percorso bisognerà considerare, contro la quasi totalità della letteratura (da Pallucchini, 1962, p. 40 a Zeri, 1975, 1988b, p. 172), la Madonna con il Bambino fra i ss. Paolo e Girolamo alla National Gallery di Londra, dove, sull’atavica sintassi mantegnesca delle tre figure dietro il parapetto, si innesta una linea nervosamente rilucente, che racchiude la tersa definizione dei volumi per scalarla metricamente lungo i piani, secondo un atteggiamento già presago della congiuntura zoppesco-belliniana dei primi anni Settanta.
Nel frattempo – il 10 gennaio 1467 (Paoletti - Ludwig, 1899, p. 266) – Bartolomeo ricevette, insieme ad Andrea da Murano, l’incarico di partecipare, con un telero in due campi raffigurante la «jstoria de Buram [sic]» (Abraham? Balaam?), alla perduta campagna decorativa della Scuola Grande di S. Marco, cui già avevano preso parte il vecchio Francesco Squarcione e Jacopo e Gentile Bellini (Paoletti, 1929).
Nel decennio successivo, alla completa assenza di documentazione archivistica corrisponde una grande abbondanza di dipinti, non perfettamente conservati, ma almeno firmati e datati. Nella Madonna del 1471 alla Galleria Colonna di Roma e in quella dell’anno successivo, già Davis, battuta all’asta da Sotheby’s (New York, 31 gennaio-1° febbraio 2013); nell’Annunciazione del 1472 nella chiesa matrice di Modugno; nella Vergine del 1473 al Museo Sanna di Sassari; nella smembrata ancona di S. Agostino in S. Zanipolo a Venezia, di nuovo del 1473; nei trittici rispettivamente del 1474 ai Frari e del 1475 a S. Maria Formosa (per il quale cfr., tuttavia, Sponza, 2001, p. 117); nei due altari, di diverso formato e carpenteria, in questo stesso anno realizzati, l’uno per la cattedrale di Conversano (e ora all’Accademia veneziana), l’altro per la Certosa di Padova (oggi in S. Antonio Abate a Lussingrande in Croazia; Sambin, 1964, pp. 25-30); nella Sacra conversazione del 1476 per la basilica di S. Nicola a Bari; nei due polittici del 1477 per la Scuola dei tagliapietra (ora alle Gallerie dell’Accademia) e per S. Bernardino a Morano Calabro; e nel trittico dell’anno successivo per S. Giovanni in Bragora, Bartolomeo sembrò imporsi una via di ostinato controllo della forma entro i limiti del suo linguaggio di sempre. Sulla strada di questo progressivo irrigidimento, egli incappò, tuttavia, in due ostacoli che, almeno in un’occasione, seppe aggirare, accettandone i principi di soverchiante modernità figurativa: da una parte, i dialoghi intercorsi, sotto il cielo di Piero della Francesca, fra Marco Zoppo e Giovanni Bellini (per cui cfr. Conti, 1987); dall’altra, la conseguente manifestazione, in senso moderno e protoantonellesco, del nipote Alvise. Così, intonò il suo ‘canto del cigno’, ancora più che nella Madonna ex Kress alla National Gallery di Washington (come al contrario suggerito da Longhi, 1946, 1978, p. 51) o nella coeva pala padovana oggi a Lussingrande (in cui Paoletti, 1929, p. 100, intravide l’intervento alvisiano), nel maestoso polittico di S. Zanipolo del 1473, significativamente – anche se a torto – ritenuto da Anton Maria Zanetti (1771, pp. 24 s.), il primo dipinto a olio della pittura veneziana. Ridotta a tre pannelli tutt’ora in loco – il S. Agostino del primo registro e i Ss. Domenico e Stefano del secondo –, l’ancona doveva comporsi, secondo la dettagliata descrizione di Marco Boschini (1674, Castello, p. 54), di due ordini da tre vani ciascuno con altrettante figure intere (dalle quali è necessario espungere l’attardato S. Marco del San Diego Museum of art preteso, all’interno dell’insieme, da Marciari, 2015, pp. 82-86) e di un coronamento con quattro tavole circolari.
Già dai primi anni Ottanta, il maldestro tentativo di camminare accanto all’antonellismo di Alvise e l’arcaico adagiarsi sulle forme della tradizione vivariniana acquistarono, in Bartolomeo, un carattere di sorda e ridondante espressione artigianesca. Confortato da quanto Andrea da Murano, sull’antico esempio donatellesco dei trittici di Bellini alla Carità, aveva realizzato solo due anni prima per S. Pietro Martire nella stessa Murano, nel 1480 (Moschini, 1815) Vivarini confezionò per S. Eufemia alla Giudecca l’ancona con i tre santi protettori della peste (Ridolfi, 1648, p. 21), di cui sopravvivono oggi la tavola di S. Rocco e la lunetta della Madonna con il Bambino: un’interpretazione della pittura d’altare ormai fuori tempo, a confronto con la coeva pala quadra di Alvise per S. Francesco a Treviso (ora all’Accademia veneziana), e finanche con la sua improvvisa ripresa bastianesca nella Natività da S. Elena (nelle stesse Gallerie). Né Bartolomeo ammise diversioni o colpi d’ala nelle successive opere firmate e datate, come la Madonna del 1481 ai Fine arts Museums di San Francisco, l’altare del 1482 nella cappella Bernardo ai Frari, e il trittico del 1483 per i minori osservanti di Andria.
Il 15 marzo 1484, dopo nove anni, fu incaricato di dipingere in massimo otto mesi la sua seconda pala per la Certosa di Padova, da collocare, a pendant della precedente (oggi a Lussingrande), sull’altare di S. Lorenzo: è il Trapasso della Vergine del Metropolitan Museum of art di New York (Sambin, 1964, pp. 41 s.), dove le difficoltà prospettiche, irrisolte negli impenetrabili zig-zag dello smalto tipico dell’autore, parlano, in modo più chiaro che altrove, dell’ingente ricorso agli aiuti di bottega. Il 24 aprile dello stesso anno, invece, Vivarini divise l’eredità di Cristina vedova di Simone con la propria figlia Elisabetta (Ludwig, 1905, p. 18), la quale il 1° ottobre 1487 avrebbe ricevuto da una tale Nicolosa, sua «consanguinea» e moglie di Andrea di Lazzaro dalla Volta, 15 ducati «pro suo maritare» (ibid., ma cfr. anche Testi, 1915, p. 439), e il 20 luglio 1490 avrebbe visto impegnare la propria dote dal marito Romano Rossetto, indebitatosi con la Scuola Grande di S. Marco (Ludwig, 1905, p. 18).
Nel 1485 il pittore sembrò sperimentare, con un maggior controllo della temperatura qualitativa, forme pur sempre inerti, ma più arrotondate e splendenti, quasi di porcellana: fu la volta del polittico, con al centro la Pietà intagliata, per S. Andrea ad Arbe (ora Boston, Museum of fine arts); del S. Giorgio Solly distrutto a Berlino nel 1945; e della Madonna in trono della parrocchiale di Almenno San Bartolomeo (Bergamo), forse da ricollegare (secondo la ricostruzione di Federico Zeri in un memorandum senza data conservato presso la Fondazione Zeri, Allegati Fototeca 16), al Cristo passo fra due angeli già in collezione Crespi a Milano e ora alla Bob Jones University (South Carolina), e al S. Bartolomeo ex Contini Bonacossi oggi al museo statunitense di Allentown. Per quanto frammentaria, l’opera di Almenno costituisce il primo esempio del mercato dei polittici di Bartolomeo nell’entroterra bergamasco (Valagussa, 2016), seguito dall’ancona a sei vani per la parrocchiale di Albino (oggi alla Pinacoteca Ambrosiana), firmata e datata, al pari della Madonna dell’Accademia Carrara, 1486; dall’altare della Trinità, nello stesso museo bergamasco, ma confezionato per la parrocchiale di Scanzo nel 1488; dal polittico di S. Giacomo una volta nella collezione Contini Bonacossi e oggi al Getty Museum di Los Angeles, spedito nel 1490 all’abbazia di Vallalta (Humfrey, 1994); e, infine, dal trittico di S. Martino per la parrocchiale di Torre Boldone datato 1491 (ancora a Bergamo, Accademia Carrara).
Sebbene a paragone con l’inedita sintesi plastica delle Sante Maria Maddalena e Barbara all’Accademia veneziana – firmate e datate 1490 e descritte da Marco Boschini (1674, San Marco, p. 78) nella cappella Sansovino di S. Geminiano – il trittico di Torre Boldone riveli la presenza di aiuti, esso è del massimo interesse, perché reca l’ultima attestazione in vita del nome di Vivarini. Dopo quest’opera, la connoisseurship fatica a scandire negli anni la sua biografia pittorica, a causa dell’eccessiva omologazione a un punto di stile codificato in tempi ormai troppo lontani. Nello specifico, resta difficile datare in modo convincente i cartoni per il registro superiore della vetrata del transetto destro in S. Zanipolo, che, nonostante l’attribuzione di Carlo Ridolfi (1648, p. 22), paiono forse più vicini, nella radice prospettica delle fisionomie, alla sensibilità di Andrea da Murano (ma cfr. Romano, 1981). Infine, nella sconfortante penuria di documentazione archivistica, non si riesce a verificare la notizia (Sinigaglia, 1905, p. 23) dei funerali del pittore che la Scuola di S. Marco avrebbe a proprie spese celebrato nel 1498 (anno della scomparsa di Bartolomeo anche per Paoletti, 1929, p. 103).
Fonti e Bibl.: C. Ridolfi, Le maraviglie dell’arte, overo le vite de gl’illustri pittori veneti, e dello Stato, Venezia 1648, pp. 21 s.; M. Boschini, Le ricche minere della pittura veneziana, Venezia 1674, San Marco, p. 78, Castello, p. 54; A.M. Zanetti, Della pittura veneziana e delle opere pubbliche de’ veneziani maestri, Venezia 1771, pp. 23-31; P. Brandolese, Pitture, sculture, architetture ed altre cose notabili di Padova, Padova 1795, p. 249; G. Moschini, Guida per la città di Venezia, II, parte I, Venezia, 1815, p. 352; J.A. Crowe - G.B. Cavalcaselle, A history of painting in North Italy, I, London 1871, pp. 39-51; I. Kukuljević Sakcinski, Arkiv za povjestnicu Jugoslavensku (Archivio per la storia jugoslava), IV, Zagreb 1857, p. 313; P. Paoletti - G. Ludwig, Neue archivalische Beiträge zar Geschichte der venezianischen Malerei, in Repertorium für Kunstwissenschaft, XXII (1899), pp. 255-278 (in partic. pp. 260-265); C. Astolfi, Di alcuni quadri pregevoli a Pausula e a Fermo del Crivelli, di Andrea da Bologna, del Vivarini, del 2° Lorenzo da Sanseverino, del Pagani, in L’Arte, V (1902), pp. 192-194; G. Ludwig, Archivalische Beiträge zur Geschichte der venezianischen Malerei, in Jahrbuch der Preußischen Kunstsammlungen, XXVI (1905), pp. 1-159 (in partic. pp. 15-18); G. Sinigaglia, De’ Vivarini: pittori di Murano, Bergamo 1905; L. Testi, La storia della pittura veneziana, II, Il divenire, Bergamo 1915, pp. 315-317, 380-393, 418, 437-512; G. Castelfranco, Il polittico di B. V. nella Chiesa di Aurio, in Dedalo, IX (1927-1928), pp. 354-357; P. Paoletti, La Scuola grande di San Marco, Venezia 1929, pp. 96-106; R. Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946), in Id., Opere complete, X, Firenze 1978, pp. 7 s., 51; Id., Un’eventualità relativa alla “Madonna” precedente (1960), ibid., pp. 141 s.; R. Pallucchini, I Vivarini (Antonio, Bartolomeo, Alvise), Venezia 1962, pp. 37-54; P. Sambin, Nuovi documenti per la storia della pittura in Padova dal XIV al XVI secolo. II, sulla fraglia dei pittori Ceco da Roma, B. V., Angelo Zoppo..., in Bollettino del Museo civico di Padova, LIII (1964), pp. 21-47 (in partic. pp. 25-30, 41 s.); F. Zeri, Antonio e B. V.: il polittico del 1451 già in San Francesco a Padova (1975), in Id., Giorno per giorno nella pittura. Scritti sull’arte dell’Italia settentrionale dal Trecento al primo Cinquecento, Torino 1988a, pp. 161-165; Id., Primizie di Alvise Vivarini (1975), ibid., 1988b, pp. 171-173; M. Laclotte - É. Mognetti, Avignon - Musée du Petit Palais. Peinture italienne, Paris 1976, p.n.n., n. 244; S. Romano, La vetrata dei Santi Giovanni e Paolo: esercizi di attribuzione, in Arte veneta, XXXV (1981), pp. 41-51; A. Conti, Giovanni Bellini fra Marco Zoppo e Antonello da Messina, in Antonello da Messina. Atti del Convegno... 1981, Messina 1987, pp. 275-303; P. Humfrey, B. V.’s Saint James polyptych and its provenance, in The J. Paul Getty Museum journal, XXII (1994), pp. 11-20; M. Medica, Il Trecento e il Quattrocento, in La Certosa di Bologna. Immortalità della memoria, a cura di G. Pesci, Bologna 1998, pp. 36-45 (in partic. pp. 41 s.); P. Leone de Castris, Museo nazionale di Capodimonte. Dipinti dal XIII al XVI secolo: le collezioni borboniche e post-unitarie, Napoli 1999, pp. 81 s.; S. Sponza, Una conferma per B. V. e due proposte: l’una per Alvise, l’altra per Tintoretto, in Per l’arte da Venezia all’Europa: studi in onore di Giuseppe Maria Pilo, a cura di M. Piantoni - L. De Rossi, I, Dall’antichità al Caravaggio, Venezia 2001, pp. 117-121; S. Steer, The patron of B. V.’s 1464 polyptych for S. Andrea della Certosa, Venice, in The Burlington Magazine, CXLIV (2002), pp. 687-690; A. Uccelli, in Vincenzo Foppa (catal. Brescia), a cura di G. Agosti - M. Natale - G. Romano, Milano 2003, p. 86; C. Cavalca, Appunti sulla presenza di opere dei Vivarini a Bologna, in Nuovi studi, XIII (2008), 14, pp. 39-59; D. Thiébaut, “La Vierge allaitant l’Enfant” de B. V., un chef-d’oeuvre précoce du peintre vénitien, in La revue des musées de France. Revue du Louvre, LXI (2011), 5, pp. 10-12; J. Marciari, Italian, Spanish and French paintings before 1850 in the San Diego Museum of Art, San Diego 2015, pp. 82-86; G. Valagussa, I Vivarini e Bergamo. Committenze e conseguenze, in I Vivarini: lo splendore della pittura tra Gotico e Rinascimento (catal., Conegliano), a cura di G. Romanelli, Venezia 2016, pp. 79-99; G. Russo, Antonio Vivarini, Giovanni Bellini e le ‘forme’ dell’Umanesimo, in Humanistica, in corso di stampa.