GUALTEROTTI, Bartolomeo
Nacque a Firenze il 19 dic. 1491 da Francesco e da Maddalena Bartolini Salimbeni.
Nel 1393 la famiglia si era distaccata dalla consorteria dei Bardi per sottrarsi, con il cambiamento di cognome e il conseguimento dello status popolare, alla legislazione antimagnatizia, varata nel secolo XIII, che ne impediva l'accesso alle cariche pubbliche. Con questo espediente il capostipite Lorenzo di Totto fu eletto per la prima volta alle cariche pubbliche nel 1412 come vicario del Podere; il primo membro della famiglia a essere eletto al priorato fu invece Bartolomeo di Lorenzo nel 1437; a questi fecero seguito molti altri uffici, ma per gran parte del secolo XV i Gualterotti non ebbero un ruolo importante nella vita politica fiorentina.
Le cose cambiarono radicalmente con il padre del G., Francesco, famoso giureconsulto e insegnante di diritto presso lo Studio fiorentino, che divenne, sotto il regime repubblicano instaurato nel 1494 all'indomani della cacciata da Firenze di Piero de' Medici, un uomo politico molto influente. Fervente seguace di Girolamo Savonarola, il padre del G. fece partecipare i figli, fino dai primi anni di vita, alla Compagnia dei fanciulli, l'istituzione voluta da Savonarola allo scopo di plasmare le coscienze fino dalla più tenera età. L'esperienza religiosa e politica savonaroliana segnò profondamente la famiglia Gualterotti: un fratello minore del G., di nome Girolamo, pur nato dopo la morte del frate, si dette alla vita monastica nel convento savonaroliano di S. Marco e un cugino, Giovanni di Filippozzo, seguì la stessa strada.
Del persistente legame del G. con questa tradizione fanno fede i suoi rapporti con Vincenzo Mainardi, frate domenicano di San Gimignano, uno dei confratelli rimasti fedeli al culto della memoria del Savonarola, nonché il fatto che a una ristampa delle Prediche sopra i Salmi di Savonarola, del 1515, sia premessa una lettera dedicatoria al Gualterotti. Questa eredità spirituale, che si traduceva sul piano politico in un diffuso sentimento antiautoritario e in particolare nella mal celata avversione al regime dei Medici, passò alla generazione successiva dei Gualterotti: il figlio maggiore del G., Francesco, partecipò alla guerra di Siena insieme con i fuorusciti antimedicei capeggiati da Piero Strozzi.
Il G. studiò diritto a Perugia, Bologna e infine a Firenze, dove si laureò inutroque iure il 23 luglio 1516; dall'autunno seguente al 1518 ebbe un incarico di lettore presso la sede pisana dello Studio fiorentino. Nell'agosto del 1516 aveva conseguito l'immatricolazione presso l'arte fiorentina dei giudici e notai, necessario preludio all'inizio della professione privata di giureconsulto. Non si hanno notizie di una sua partecipazione alla vita politica prima del 1527.
Nel maggio di quell'anno, in seguito al sacco di Roma e alla conseguente detenzione del pontefice, la momentanea eclissi del potere mediceo, difeso dal papa Clemente VII, portò al rivolgimento istituzionale e all'espulsione del cardinale Silvio Passerini e dei due giovani discendenti spuri dei Medici, Ippolito e Alessandro. Fu ripristinato l'ordinamento repubblicano del 1494, che aveva il suo fulcro nel Consiglio maggiore e il vertice nell'ufficio di gonfaloniere di Giustizia, reso annuale e affidato a un esponente del ceto ottimatizio che godeva vasta popolarità, Niccolò Capponi.
Il sostegno principale del nuovo regime era il partito savonaroliano, formato in minima parte dai superstiti del movimento fratesco di trent'anni prima e in maggior misura da coloro ai quali l'ideologia repubblicana era pervenuta, come nel caso del G., per eredità familiare. A questo partito aderiva in quel momento non solo la maggioranza dei Fiorentini, ma quasi la totalità di coloro che emergevano per ricchezza, capacità politiche e professionali e per tradizioni familiari.
Nell'ambito del nuovo governo il G. cominciò a essere chiamato soprattutto per espletare incarichi di fiducia piuttosto che istituzionali. Il primo gli fu affidato a breve distanza dalla cacciata dei medicei, che avevano trovato momentaneo rifugio a Lucca. Il G. fu inviato in quella città insieme con Rosso Buondelmonti con lo scopo dichiarato di ottenere dal cardinale Passerini l'immediata consegna delle fortezze di Pisa e di Livorno, il cui controllo era giudicato essenziale per la sopravvivenza dello Stato fiorentino; altro scopo era esercitare pressione sul governo lucchese affinché non offrisse più asilo ai Medici e ai loro ministri, il che i Lucchesi rifiutarono sdegnosamente di fare.
In dicembre Clemente VII, subito dopo la sua liberazione, non si sentiva ancora in condizione di intraprendere rivendicazioni o rappresaglie nei confronti di Firenze per ottenere la riammissione dei suoi congiunti; si fece quindi promotore di una iniziativa diplomatica presso il governo repubblicano e inviò un emissario, Antonio Bonsi, per trattare una onorevole riconciliazione che prevedesse la riammissione dei Medici, sia pure come privati cittadini. Questa iniziativa, che pure non dispiacque al gonfaloniere di Giustizia, suscitò l'indignazione degli altri membri del governo; il G. fu pertanto inviato in tutta fretta a Camerata, alle porte di Firenze, dove il delegato pontificio era ospite della residenza di campagna del cardinale Niccolò Gaddi, per intimargli di tornare indietro senza nemmeno tentare di raggiungere la città. Il 28 genn. 1528 il G. fu inviato come ambasciatore residente a Venezia.
In quel momento Venezia e Firenze erano alleate e unite al re di Francia e ad altri Stati italiani nella Lega di Cognac, in funzione antimperiale. Le cose cambiarono drasticamente l'anno successivo, quando con il trattato di Barcellona (29 giugno 1529) il papa e l'imperatore strinsero alleanza fra loro e il re di Francia, con la pace di Cambrai (5 ag. 1529), abbandonò i suoi antichi alleati al loro destino; allora apparve chiaro che la sorte del regime repubblicano di Firenze era segnata e non era conveniente per i suoi alleati compromettersi apertamente con aiuti militari o finanziari.
Il ruolo del G. divenne pertanto arduo e frustrante: egli trasmetteva reiterati appelli e richieste d'aiuto al governo veneziano, che rimaneva pur sempre uno dei pochi Stati italiani a mantenersi in conflitto con la potenza congiunta del papa e dell'imperatore, avendo aperte con entrambi delle vertenze territoriali. Gli appelli del G. riscuotevano risposte favorevoli da parte di Venezia, ma concretamente non si ebbero aiuti né finanziari né militari, tranne un irrisorio contributo a favore della Romagna; anche la richiesta fiorentina di dirottare verso Arezzo le truppe al soldo dei Veneziani di stanza a Urbino, in modo da creare una diversione che ritardasse l'accerchiamento della città da parte dell'esercito imperiale, cadde nel vuoto: mentre a parole il governo veneziano incitava la Repubblica alla resistenza, nei fatti non aveva alcun interesse a compromettersi con un regime destinato, con ogni evidenza, a soccombere.
In quella situazione, con la sua città ormai stretta nella morsa dell'assedio, il G. non poteva che limitarsi a coagulare intorno a sé i fuorusciti fiorentini che in seguito alle epurazioni medicee avevano trovato rifugio a Venezia e indurli a dare un deciso sostegno finanziario e morale alla patria, ma anche questo obiettivo non poté essere conseguito.
L'ultima lettera dei Dieci di balia inviata al G. porta la data del 20 luglio 1530 e precede di poco la capitolazione; i Dieci chiedevano al G. un ultimo sforzo: convincere il governo veneziano a farsi intermediario presso il papa in favore di Firenze, affinché la città potesse spuntare un trattamento non troppo duro; la capitolazione giunse tuttavia il 12 ag. 1530, a distanza troppo ravvicinata perché l'iniziativa potesse avere successo.
Alla notizia della capitolazione, a differenza di altri che, temendo la vendetta del nuovo regime preferirono non tornare in patria e presero volontariamente la via dell'esilio, il G. tornò a Firenze e riprese, apparentemente senza ostacoli, la sua professione di giureconsulto.
Questa sua attività è comprovata da vari atti notarili. Pertanto, le notizie successive al suo ritorno da Venezia contenute nella Raccolta genealogica Sebregondi - secondo cui il G. riparò a Roma, si unì agli ambienti del fuoruscitismo antimediceo e prese parte nel luglio 1537 alla battaglia di Montemurlo - sono da considerarsi prive di fondamento; prova ne sia il fatto che dopo l'instaurazione del nuovo regime mediceo a Firenze egli fu richiamato a insegnare diritto civile allo Studio, dove la sua docenza è attestata almeno per gli anni accademici 1537-38 e 1538-39. Vera è invece la notizia secondo cui il G. fu nominato da Paolo III governatore di Città di Castello, a partire dal gennaio 1540 e che probabilmente egli dovette tale designazione all'intercessione di qualche fuoruscito fiorentino riparato a Roma. I buoni rapporti del G. con Cosimo I de' Medici sono tuttavia attestati da una lettera inviata a quest'ultimo da Roma il 25 sett. 1540.
Trovandosi presso la Curia pontificia a motivo del suo incarico, il G. aveva saputo che don Pedro de Toledo, viceré di Napoli, cercava giuristi forestieri da reclutare per incarichi giudiziari nel Regno. Interessato all'incarico, il G. chiese una lettera di raccomandazione in suo favore al duca di Firenze, genero del viceré. Sembra tuttavia che questa iniziativa non abbia avuto seguito e che il G. sia morto a Città di Castello poco prima del 19 ag. 1541. A tale data infatti la madre fece compilare un inventario di mobili e masserizie di proprietà del G. esistenti nella casa di comune abitazione; di quest'inventario fa parte anche un breve elenco di oggetti e suppellettili che il G. aveva portato con sé a Città di Castello.
Il G. aveva sposato nel 1522 Maddalena di Alessandro Mannelli (morta il 1° ag. 1578) da cui ebbe almeno tre figli: Francesco, Alessandro e Gualterotto.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Carte Sebregondi, 396; Monte comune o delle graticole, I, Appendice, 1213, c. 59; 1214 c. 90; Decima granducale, 1824, c. 69; 1843, c. 56; 3557, cc. 232-323; Ruota civile, 258, c. 33; Notarile antecosimiano, 2562, cc. 61, 68, 143; 2564, cc. 52, 327, 373; 6685, c. 236; 13988, cc. 157, 219; 16417, cc. 40, 309, 359; 16418, cc. 3, 56, 161, 298; Mediceo del principato, 346, c. 331; Dieci di balia, Legazioni e commissarie, 48, c. 156v; V. Mainardi, Epistolario, a cura di A. Verde - E. Giaconi, Pistoia 1992, pp. 190, 241, 418, 577; B. Varchi, Storia fiorentina, a cura di L. Arbib, I-III, Firenze 1843-44, ad ind.; I. Nardi, Istorie della città di Firenze, a cura di A. Gelli, II, Firenze 1858, p. 141; C. Roth, L'ultima Repubblica di Firenze, Firenze 1929, pp. 171, 335, 372, 393, 396, 402, 480, 482; L. Martines, Lawyers and statecraft in Renaissance Florence, Princeton 1968, p. 490; L. Polizzotto, The elect nation. The Savonarolan movement in Florence. 1494-1545, Oxford 1994, ad indicem.