ALVIANO, Bartolomeo d'
Nato a Rocca d'Alviano (Umbria) nel 1455, della famiglia dei Liviani, imparentato con le altre maggiori stirpi principesche, nelle quali la professione militare era un'arte ereditaria, l'A. è uno dei maggiori capitani del pieno Rinascimento. La sua fortuna politica e militare è strettamente congiunta agli atteggiamenti degli Orsini, che, partecipi e artefici dei turbinosi eventi dell'età, avevano in lui un fedele collaboratore. Soltanto agl'inizî della carriera, cioè nel 1478, egli, al soldo del papa e del re di Napoli nella guerra contro Lorenzo de' Medici, combatté gli Orsini, che militavano sotto le insegne fiorentine. Poi, direttamente o indirettamente, obbedì alle fortune e alle disavventure della parte orsina, che lo sospinse sui teatri più diversi di lotta, ove quella irrequieta famiglia si gettava, avida di guadagno e di potenza. Già nelle terre del Patrimonio l'A. aveva battagliato: specialmente nel 1496, per difendere Bracciano, l'Anguillara e Trevignano contro papa Alessandro VI e i Colonnesi, e favorire così il risorgere della casa Orsini, momentaneamente in declino. Poi, nel 1497, tentò inutilmente un colpo di mano su Firenze per riporvi Piero de' Medici. Nel 1503 combatteva nel Napoletano al servizio del re di Spagna contro i Francesi; e fu in gran parte merito suo la vittoria riportata dall'esercito spagnolo presso il Garigliano: vittoria che poneva fine alla guerra nel Mezzogiorno. "Bartolommeo fu quello che ci tolse il Regno", ebbe a dire il cardinale d'Amboise, ministro di Luigi XII (Desjardins, Négociations diplomatiques de la France avec la Toscane, II, Parigi 1861, p. 119). Fallitogli, nel 1505, un nuovo tentativo contro Firenze, passava definitivamente al soldo di Venezia, insieme con Niccolò Orsini, conte di Pitigliano (1507). Venezia era allora il solo grande stato della penisola, che, per potenza politica e per opulenza di mezzi, potesse offrire, a chi ne aveva capacità, mezzo di raggiungere alte mete, sì che i migliori condottieri ricercavano il suo soldo. L'A. entrava al suo servizio nel momento in cui la potenza della repubblica toccava l'apice, ma anche nel momento più pericoloso, quando i nemici cominciavano a serrare da presso la sua temuta preponderanza. Abile soldato, ma non sagace politico (l'arte militare, ch'egli conosceva, era quella di un tecnico esperto e audace, sprezzante dei pericoli), egli non accoppiava alle doti di combattente adeguato accorgimento politico, sì da diventare, come il grande suo predecessore, il Colleoni, artefice di situazioni politico-militari decisive. Ebbe tuttavia un periodo di molta fortuna nel 1508, nel quale anno egli, penetrato in pieno inverno tra le balze del Cadore, sconfiggeva i Tedeschi di Massimiliano imperatore (23 febbraio), occupando poi, in seguito alla vittoria, Pordenone, Gorizia, avanzando nell'Istria. Eppure, se la sua figura primeggia sul campo di battaglia, egli non riesce ad essere il geniale dominatore del momento politico-militare. La sua opera militare non si riannoda a un piano organico: è fatta di azioni brillanti ed eroiche, ma senza continuità, svolte con la fedeltà e la sagacia dell'esecutore piuttosto che dell'ideatore e del creatore. D'altra parte il governo veneto, dopo l'esperienza del Colleoni, non amava troppo i soldati che pretendessero interloquire in materia estranea alla loro competenza. Il patriziato veneto era troppo geloso delle sue prerogative per tollerare estranee inframmettenze che turbassero i lineamenti di quel pensiero politico ch'era dibattuto nelle aule ducali, con anima e mente puramente veneziane. Il riserbo dell'A. in questa materia lo rese più grato agli uomini politici, quali tanto più potevano essere in grado di valutarne e di apprezzarne il valore e la perizia sul campo di battaglia.
Questa unilateralità, che diminuiva l'efficienza dello sforzo militare, subordinando l'azione bellica a considerazioni politiche, alle quali i responsabili della condotta della guerra erano tenuti estranei, costò a Venezia la disfatta disastrosa di Agnadello o Vailate (14 maggio 1509). L'A., che era stato posto a capo dell'esercito veneziano insieme con Niccolò Orsini, conte di Pitigliano, e che con la sua impetuosità aveva provocata la battaglia, cadde prigioniero dei Francesi e rimase in cattività fino al 1513. Quando, nel 1513, egli riprese il suo posto di comando, come capitano generale della Serenissima, la posizione politica e militare della Repubblica veneziana, fatta nuovamente gravitare nell'orbita di quella francese, era altrimenti orientata, e l'azione del comandante delle truppe al servizio di Venezia era vincolata, anche militarmente, dal gioco delle alleanze internazionali, sulle quali il consiglio del soldato non esercitava alcuna influenza. Così l'A. fu, tutto sommato, ridotto ad un'attività, che non poteva essere decisiva: nuovamente sconfitto dagli Spagnoli, all'Olmo presso Vicenza (7 ottobre 1513), riportava in seguito alcune vittorie nel Veronese e nel Friuli, contro gl'imperiali; in ultimo, nel 1515, in soccorso di Francesco I re di Francia, le sue schiere, spostate con fulminea rapidità dai campi veronesi ai piani lombardi, determinavano il tracollo definitivo degli Svizzeri nella battaglia di Marignano (14 settembre 1515). Fu l'ultimo suo fatto d'armi: ché la morte lo sorprese poco dopo, a Bergamo, il 7 ottobre 1515.
Bibl.: E. Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, III, Torino 1845, passim; L. Leônij, La vita di Bart. d'Alviano, Todi 1858; A. Medin, La storia della Repubblica di Venezia nella poesia, Milano 1904, passim; A. Ferrai e A. Medin, Rime storiche del sec. XVI, in Nuovo Arch. Veneto, I (1891), p. 121 segg.; L. Frati, Poesie storiche in lode di B. d'A., in Nuovo Arch. Veneto, XX (1900), p. 205 segg.; Ciscato, in Boll. Museo Civico di Padova, III, nn. 11-12, IV, nn. 1-2; A. Semerau, Die Condottieri, Jena 1909.