AVORIO
Gli a. rappresentano una varietà relativamente particolare di oggetti artistici medievali. Essi appartengono infatti alla micro-scultura, dato che si tratta per lo più di rilievi o statuette, ma presentano anche i caratteri delle arti suntuarie, sia per la materia prima che li costituisce sia per l'appassionato interesse che suscitavano negli uomini del Medioevo. Per comprendere quest'ultimo aspetto bisogna innanzitutto modificare l'idea che oggi si ha dell'a. e della sua utilizzazione, che porta a considerarlo una materia certamente costosa ma relativamente facile da reperire. La situazione era invece completamente diversa tra la fine dell'età tardoantica e il sec. 13° e fu solo nel periodo gotico che le botteghe poterono approvvigionarsi più facilmente. Fu così che per dieci secoli gli a. vennero ricercati quanto i più bei manoscritti, i più raffinati cammei o gli smalti più preziosi.L'a. sembra essere stato riservato di preferenza alla produzione di oggetti legati al potere sia temporale sia, e soprattutto, spirituale: vennero scolpiti in a. i troni imperiali e le cattedre episcopali, i bastoni di comando (bastoni consolari, scettri, pastorali e tau), i dittici consolari e imperiali. Ma la maggior parte degli a. pervenuti è di carattere religioso, piatti di legature di manoscritti liturgici, tavolette liturgiche, statuette devozionali, dittici e tabernacoli. D'altronde è possibile che l'esecuzione di grandi quantità di statuette raffiguranti la Vergine con il Bambino nei secc. 13° e 14° sia da riconnettere alle virtù emblematiche che si attribuivano all'a., simbolo di potenza e di purezza: poiché la Bibbia precisa che il trono di Salomone era eburneo doveva esserlo analogamente anche quello della madre di Dio, 'trono della saggezza divina'. A parte i pezzi del gioco degli scacchi o del tric-trac, si sono conservati pochi manufatti profani in a. anteriori al 13° secolo.Si indica generalmente con il nome di a. il materiale ricavato dall'elefante. In caso di scarsa disponibilità o di costi troppo elevati, venivano impiegati tuttavia anche altri materiali: le corna dei cervidi furono usate per la fabbricazione di piccoli contenitori, ma soprattutto tagliate a rondelle e impiegate come pedine nel gioco del tric-trac; le ossa dei grandi mammiferi (buoi, cavalli, maiali) sostituirono l'a. in tutte le epoche, non soltanto per realizzare oggetti di uso corrente (aghi, dadi, pettini, ecc.), ma anche per opere assai più ambiziose, come per es. i grandi dossali scolpiti dalla bottega degli Embriachi intorno al 1400 (dossale della Certosa di Pavia; dossale di Poissy, Parigi, Louvre). In ultimo, l'osso di cetaceo, di grana meno fine, ma lavorabile in modo tale da ricavarne larghissimi pannelli, sostituì a volte l'a. nel corso dell'Alto Medioevo o dell'epoca romanica, non solo nei paesi nordici o nelle vicine regioni della Manica, ma anche in Spagna. Il 'corno di liocorno' medievale altro non era che il dente di narvalo, al quale si attribuivano proprietà curative e profilattiche. Gli antichi inventari segnalano alcuni oggetti intagliati in questo materiale, che poteva talora essere decorato con bande ornamentali, come dimostra un esemplare del sec. 12° (Londra, Vict. and Alb. Mus.). Tuttavia la naturale forma tortile di questa sorta di lunga canna di solito appariva di per sé sufficientemente elaborata e numerosi tesori religiosi custodivano 'corni di liocorno' non lavorati ma di lunghezza impressionante. Il principale materiale impiegato in tutte le zone in cui l'a. di elefante era irreperibile, ovvero in Scandinavia, in Inghilterra, nella Francia nordoccidentale e inoltre, alla fine del sec. 11° e nel 12°, anche nelle regioni della Mosa e della valle del Reno, fu il dente di tricheco, al quale gli artisti ricorsero a partire dalla fine dell'età carolingia e che, sino al tardo sec. 12°, permise la creazione di alcuni tra gli oggetti più belli che si conoscano. Il dente di tricheco ha la forma di un cono allungato, relativamente stretto: la sua grana, meno compatta di quella dell'a. di elefante, conferisce al rilievo minore nitidezza e un aspetto talora 'saponoso'; il suo colore leggermente ambrato può diventare molto scuro, come è riscontrabile nel caso di una statuetta della Vergine proveniente da Dorchester in Inghilterra, risalente al sec. 12° (Londra, Vict. and Alb. Mus.). Lo spessore relativamente sottile dell'a. (la dentina) lascia nella maggior parte dei casi trasparire, nel piano di fondo della superficie scolpita, il conglomerato semitraslucido e di colore più scuro dell'osteodentina, che riempie la cavità centrale, cioè la polpa dentaria. Poiché le dimensioni dei denti di tricheco non consentono di ricavarne che strette lamelle, era necessario connettere un notevole numero di queste lamelle per realizzare opere importanti: la grande croce del secondo quarto del sec. 12°, alta m. 0,577 e larga m. 0,362, attribuita a una bottega inglese e conservata a New York (Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters), è composta di numerosi pezzi connessi testa a testa; gli intagliatori di Colonia, nel secondo terzo del sec. 12°, realizzarono grandi pannelli scolpiti d'a. di tricheco, di cui sussistono numerosi esemplari, giustapponendo varie lamelle tenute insieme da una cornice.L'a. di elefante si ricava dagli enormi incisivi della mascella superiore dell'animale, le zanne, che hanno forma di coni più o meno ricurvi e sono composte, dall'esterno verso l'interno, da un primo strato sottile di materiale cementizio, poi dallo smalto, quindi da uno strato più spesso di dentina (l'a. propriamente detto), che circonda la cavità della polpa dentaria. Negli olifanti, eseguiti in gran numero dalle botteghe dell'Italia meridionale alla fine del sec. 11° e nel 12°, tale cavità veniva accuratamente svuotata, lasciando agli oggetti in tal modo la forma originaria della zanna. La dentina, percorsa dal fine reticolo dei 'canalicoli', è strutturata secondo uno schema di coni infilati l'uno dentro l'altro. A seconda del modo con cui viene tagliato il blocco d'a., sulla superficie dell'oggetto appaiono le linee di separazione di questi coni o anche craquelures concentriche, simili a rosette di archi intrecciati, affatto caratteristiche dell'a. di elefante. Le diverse alterazioni (craquelures, fessure, scaglie) si sviluppano soprattutto seguendo le linee dei sopraddetti coni, ma fessure compaiono anche tutt'attorno lungo le parti scolpite, assecondando per es. il profilo degli elementi in forte rilievo. Imprevedibili nel momento in cui si inizia l'intaglio, le carie sono difetti dell'a. che compaiono durante la lavorazione e che l'intagliatore riesce a dissimulare più o meno abilmente.Appena prelevato da un animale vivo o morto da poco tempo, l'a. di elefante viene detto 'verde'; è necessario allora farlo essiccare prima di procedere alla lavorazione, poiché invecchiando tende a contrarsi leggermente. Una volta seccata, la zanna viene tagliata in pezzi. Le statuette medievali venivano scolpite di preferenza nelle parti ricavate dalla zona piena della zanna, alla punta e alla base della cavità della polpa dentaria. Non è raro il caso di statuette d'a. relativamente alte che conservano la curvatura della zanna, come per es. una Vergine con il Bambino, opera parigina del secondo quarto del sec. 14° (Villeneuve-lès-Avignon, Notre-Dame, tesoro). Le placche e le figure di appliques venivano viceversa ricavate piuttosto dall'a. situato intorno alla camera pulpare; da questa sono evidentemente tratti i blocchi in cui furono intagliate alcune statuette gotiche, assai sviluppate in larghezza ma molto sottili se osservate di profilo (statuetta della Vergine seduta con il Bambino, prodotta a Parigi nel secondo quarto del sec. 14°; Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco).Si è poco informati sugli utensili impiegati nel Medioevo dagli intagliatori di a., che non dovevano essere molto diversi da quelli ancora in uso nei secc. 17° e 18° e che ricordano d'altronde gli strumenti utilizzati per scolpire il legno: seghe, lime, sgorbie e punteruoli; non sembra fosse sconosciuto il tornio, il cui uso divenne peraltro comune soltanto in seguito. Il trapano era lo strumento prediletto nei secc. 10°-11° dalle botteghe bizantine, ma anche da alcune botteghe occidentali, come per es. quella che lavorò al Salterio di Carlo il Calvo, databile prima dell'869 (Parigi, BN, lat. 1152). In quest'ultimo caso l'impiego del trapano, che permette di traforare in profondità la superficie dell'a., non veniva limitato alle parti decorative, ma serviva anche a sottolineare i tratti dei volti (occhi, narici, bocche) o certi dettagli dell'abbigliamento.Gli a. medievali sembrano oggi per la maggior parte semplici lavori di scultura, ma è noto che frequentemente le loro superfici erano decorate da pitture o da applicazioni in metallo. In qualche raro caso l'a. veniva colorato: le pedine del tric-trac erano tinte o dipinte di rosso e di verde; si tingevano con la porpora alcuni a. bizantini (per es. un cofanetto di manifattura costantinopolitana del sec. 10°; Troyes, Trésor de la Cathédrale) e, per imitazione, anche alcune opere occidentali (così un'anta di trittico di bottega salernitana della fine del sec. 11°; Parigi, Louvre). Più comune era tuttavia la tendenza a conservare il colore naturale dell'a., valorizzandolo mediante incrostazioni di paste colorate oppure d'oro o d'argento, tocchi di policromia che non coprivano l'intera superficie del manufatto, ma ne sottolineavano determinate parti (bordure, galloni e risvolti delle vesti, architetture, incarnati). Le parti traforate a giorno si stagliavano su fondi metallici o di colore contrastante (gruppo degli a. di Magdeburgo, scolpiti per Ottone I prima del 968). I piatti di legatura, i dittici di soggetto religioso e le statuette erano arricchiti da supporti in oro o argento, talvolta ornati con gemme o smaltati, ma sussistono ben pochi esemplari che abbiano conservato la loro montatura originaria (legatura del citato Salterio di Carlo il Calvo; legatura di Tuotilo, San Gallo, Stiftsbibl.).Con l'invecchiamento l'a. acquista una patina che gli conferisce ulteriore fascino e la cui tonalità dipende sia dalla sua natura d'origine sia dalle condizioni in cui è stato conservato. La comparsa di una sfumatura di colorazione ambrata sembra favorita dal trattamento della superficie con sostanze grasse (olio), mentre l'interramento determina una colorazione bruna. In ogni caso il colore degli a. non può fornire alcuna indicazione circa la datazione o la provenienza di un'opera, né tantomeno costituire un criterio di autenticità, data la facilità con cui è possibile ottenere artificialmente perfette patine 'antiche'. Si è inoltre potuto constatare che valve di uno stesso dittico, unite per secoli e poi separate e conservate in condizioni differenti, assumono rapidamente colorazioni diverse (per es. le due valve del dittico dei Simmachi e dei Nicomachi, eseguito a Roma intorno al 400, conservate a Londra, Vict. and Alb. Mus., e a Parigi, Mus. de Cluny).Uno dei problemi costantemente riproposti dallo studio degli a. medievali è quello dei falsi: la moda degli a. gotici, diffusa tra i collezionisti del sec. 19°, ha favorito la creazione di numerosi pastiches, a volte facili da individuare, talvolta invece così ben fatti da trarre in inganno. I falsari non si sono limitati a contraffare gli a. gotici, ma hanno imitato anche quelli romanici, carolingi e tardoantichi. Gli esami di laboratorio a carattere non distruttivo, mentre apportano numerosissime informazioni (natura della materia prima, procedimenti di intaglio, sistemi di montaggio, interventi di restauro, tracce di ossidazione o di policromia, struttura interna delle statuette), non consentono di giudicare l'autenticità di un'opera, dato che per l'a. non esiste alcun metodo paragonabile a quello della dendrocronologia, utilizzata nello studio del legno; così pure è impossibile distinguere l'a. di un elefante asiatico da quello di un elefante africano.Lo studio degli a. medievali non è una disciplina recente, ha attirato anzi l'attenzione degli eruditi a partire dalla fine del 16°-inizi del 17° secolo. I manoscritti di Claude Fabri de Peiresc (1580-1637) testimoniano di fatto l'interesse per opere che l'erudito di Aix-en-Provence aveva potuto vedere nella sua regione, fra cui l'a. Barberini (Parigi, Louvre), che gli appartenne, o nelle grandi collezioni parigine (Saint-Denis, Trésor). Bernard de Montfaucon (1655-1741) lo seguì su questa via; ma il vero fondatore delle ricerche sugli a. medievali resta il fiorentino Antonio Francesco Gori (1691-1757), il cui Thesaurus postumo, ampliato da Giovanni Battista Passeri (1759), cataloga, descrive e riproduce i principali a. allora conosciuti. Alla fine del sec. 19° e nei primi anni del 20° i lavori di Molinier (1896), Graeven (1898-1900), Maskell (1905), Dalton (1909), rappresentarono un contributo decisivo, ma cinque opere restano ancora oggi insostituibili: quelle di Delbrueck sui dittici consolari (1929), di Volbach sugli a. tardoantichi (19763), di Goldschmidt sugli a. carolingi e romanici (1914-1926), di Goldschmidt e di Weitzmann sugli a. bizantini (1930-1934) e infine di Koechlin sugli a. gotici francesi (1924).Il principio del sec. 5° segna a tutti gli effetti gli inizi della scultura medievale in avorio. Già l'Antichità classica ne aveva fatto largo uso, impiegandolo così per oggetti profani, come il mobilio (incrostazioni, parti di mobili, elementi decorativi), come anche per le statue crisoelefantine degli dei; ma mentre gli a. antichi conservati sono rari, quelli successivi agli editti di Teodosio sussitono in numero sufficiente, tale da costituire una serie abbastanza coerente, all'interno della quale si evidenzia una linea evolutiva.È possibile che nel periodo tardoantico l'a., che proveniva all'epoca dall'Asia e dall'Africa, fosse divenuto più raro, il che ne spiegherebbe l'impiego limitato a opere di primissimo piano e la cura con cui venne conservato. In ogni caso agli inizi del sec. 6° era diventato talmente raro che una zanna di elefante figura nell'a. Barberini (Parigi, Louvre) fra i tributi che i popoli sottomessi depongono ai piedi dell'imperator vincitore.Era uso scolpire in a. i dittici ufficiali, costituiti da due lunghe valve rettangolari che formavano una sorta di tavoletta per scrivere: unite da due cerniere metalliche, esse erano scolpite sulla faccia esterna e leggermente incavate su quella interna; nell'incavo veniva fatto colare uno strato di cera su cui erano stilate parole di ringraziamento o di invito. I dittici venivano infatti inviati dagli alti dignitari - nel momento in cui assumevano la carica - all'imperatore o a personaggi importanti che avevano appoggiato la loro candidatura. Si sono conservati frammenti di dittici imperiali, consolari, del vicarius urbis, di patrizi e di alte personalità religiose. Tuttavia, dal principio del sec. 5° alla metà del 6° (nel 541 venne abolito il consolato), dall'a. di Probo, console a Roma nel 406 (Aosta, Mus. del Tesoro della Cattedrale), a quello di Giustino, console a Costantinopoli nel 540 (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Skulpturengal.), sono i dittici consolari a offrire una serie di opere datate e di origine certa attorno alle quali è possibile raggruppare gli altri a. per fissarne la cronologia e classificarli. Sussistono tuttavia due condizionamenti dei quali si deve tenere conto: la casualità delle distruzioni ha fatto sì che per il sec. 5° si siano conservati solo dittici di consoli romani e per il 6° solo dittici di consoli costantinopolitani, con l'eccezione di un unico esemplare, quello di Oreste (Roma, 530; Londra, Vict. and Alb. Mus.), che ripete il dittico di Clementino (Costantinopoli, 513; Liverpool, Merseyside County Mus.). Dato quest'ultimo caso e considerato il fatto che la tabella ansata di certi dittici è rimasta anepigrafe o presenta iscrizioni decisamente posteriori, ci si può domandare se certi dittici non venissero preparati in anticipo, per ricevere l'iscrizione con il nome del donatore soltanto in un secondo tempo: in tal caso la cronologia degli a. tardoantichi, fondata sui dittici consolari, si rivelerebbe relativamente precaria.Esistono diversi tipi di decorazione per i dittici consolari. Il più completo rappresenta il console, fiancheggiato dalle personificazioni di Roma e di Costantinopoli; vestito degli abiti ufficiali e munito di scettro consolare e mappa (il panno di cui si serviva per dare il segnale di inizio dei giochi), egli presiede in forma solenne allo spettacolo (combattimenti tra animali o corse).I dittici di Areobindo (Parigi, Louvre; Parigi, Mus. de Cluny; Leningrado, Ermitage; Besançon, Mus. des Beaux-Arts et d'Archéologie; Zurigo, Schweizerisches Landesmus.; Lucca, Tesoro del Duomo), console a Costantinopoli nel 506, e di Filosseno (Parigi, BN, Cab. Méd.; Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.), che ricoprì la stessa carica a Costantinopoli nel 525, testimoniano di differenti tipi di dittici, forse in funzione dei diversi destinatari. L'unica valva di dittico imperiale conservata quasi per intero, il citato a. Barberini, risulta composta, a differenza di quelle consolari, da cinque scomparti, uno maggiore al centro e quattro minori rettangolari attorno. È questo lo schema compositivo imitato di preferenza negli a. cristiani, sia tardoantichi (dittico con applicazioni di oreficeria cloisonnée; Milano, Tesoro del Duomo) sia carolingi (legatura dell'Evangeliario di Lorsch; Londra, Vict. and Alb. Mus., e Roma, BAV, Mus. Sacro).Benché presenti un'iconografia troppo complessa e uno stile troppo elaborato per costituire un punto di partenza, la lipsanoteca di Brescia (Civ. Mus. Cristiano), può considerarsi il primo capolavoro dell'arte dell'a. in epoca tardoantica. Intorno al 400 le botteghe romane produssero opere di squisita finezza, caratterizzate da una netta ripresa dei modelli dei secc. 1° e 2°, realizzando contemporaneamente opere di carattere ufficiale (dittico di Probiano; Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz), cristiane (Pie donne al sepolcro, Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica; frammenti di un dittico in cinque parti, Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Skulpturengal.; Parigi, Louvre; Nevers, Mus. Mun.; Ascensione, Monaco, Bayer. Nationalmus.) e anche pagane (dittico dei Simmachi e dei Nicomachi, Londra, Vict. and Alb. Mus. e Parigi, Mus. de Cluny). La loro attività proseguì nel corso del sec. 5° senza subire interruzioni a causa di eventi storici quale il sacco di Roma da parte di Alarico nel 410 (valva del dittico di Felice del 428, Parigi, BN, Cab. Méd.; valva con Apoteosi di un imperatore, Londra, British Mus.). Parallelamente si affermarono però anche altri centri, sia in Italia, a Milano (dittico di Stilicone; Monza, Mus. del Duomo) e Ravenna (dittico in cinque scomparti, Milano, Tesoro del Duomo; dittico di un patrizio, Novara, Bibl. Capitolare), sia in Gallia ('Libro d'avorio', Rouen, Bibl. Mun.; dittico dei Ss. Paolo e Pietro, New York, Metropolitan Mus. of Art), con botteghe diverse della cui produzione non sempre è facile precisare le caratteristiche; analogamente restano molto discusse le attribuzioni ai laboratori costantinopolitani (Bellerofonte; Londra, British Mus.) o egiziani (dittico di Selene; Sens, Trésor de la Cathédrale).Le botteghe di Alessandria, della Siria e di Costantinopoli dominarono la produzione del sec. 6° e, nonostante si sia tentato di dare risalto all'attività dei laboratori operanti in Gallia nella seconda metà del sec. 6°, la maggior parte delle pissidi e delle placche eburnee di questo periodo viene ritenuta di origine orientale. La qualità delle opere costantinopolitane risalenti a questa epoca è innegabile: valgono ad attestarlo i numerosi dittici consolari e soprattutto i frammenti di dittici imperiali (Arianna, Vienna, Kunsthistorisches Mus.; Firenze, Mus. Naz. del Bargello; a. Barberini), nonché le opere che possono essere ricondotte al vescovado di Massimiano a Ravenna verso la metà del secolo, cioè il dittico sacro di Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Skulpturengal.) e la cattedra d'a. (Ravenna, Mus. Arcivescovile). All'esecuzione di quest'ultima collaborarono diverse botteghe, la cui compresenza illustra bene la complessità dei rapporti artistici intercorrenti in questo periodo tra Ravenna, Costantinopoli e Alessandria.Un gruppo di quattordici rilievi in a. conservati per la maggior parte al Castello Sforzesco di Milano - cinque dei quali rappresentano scene della vita di s. Marco - ha sollevato molte discussioni: identificati infatti in un primo momento come frammenti di un'altra cattedra eburnea - la leggendaria cattedra di s. Marco, realizzata ad Alessandria verso il 600 e offerta da Eraclio al patriarca di Grado -, essi sono iconograficamente così vicini agli a. scolpiti a Salerno negli ultimi decenni del sec. 11° da doverne essere considerati la fonte di ispirazione. Oggi questi rilievi vengono riconnessi all'arte del Mediterraneo orientale (Siria, Palestina) del 7°-8° secolo.Nei secc. 7° e 8° si ebbe indubbiamente una diminuzione dell'a. di elefante: le opere principali di questo periodo, come il reliquiario di Werden (Essen, Schatzkammer der Propsteikirche St. Ludgerus), il cofanetto Franks (Londra, British Mus., e Firenze, Mus. Naz. del Bargello) o il cofanetto di Brunswick (Herzog Anton Ulrich-Mus.), nelle quali si esprimono i temi dell'arte merovingia e anglosassone, sono infatti realizzate in osso. Ciononostante non ci fu frattura nei confronti dei punti d'arrivo raggiunti dall'arte dell'a. in età tardoantica: se le opere orientali della seconda metà del sec. 6° (pissidi, pannelli di cattedre) attestano la decadenza dello stile costantinopolitano, la loro amplissima diffusione attraverso tutta l'Europa preparò le basi della rinascenza carolingia. Nei tesori delle chiese vennero inoltre conservati con cura i migliori a. dei secc. 5° e 6°, sia di soggetto cristiano sia anche dedicati a temi profani pagani; alcuni dittici furono trasformati in tavolette liturgiche, altri in coperte di codici, altri ancora furono integrati in reliquiari, come il dittico dei Simmachi e dei Nicomachi; alcuni, per es. il dittico di Davide e di s. Gregorio (Monza, Mus. del Duomo), vennero modificati e arricchiti. Dato che l'a. di elefante diventava sempre più raro, alcune valve di dittico vennero raschiate o semplicemente rovesciate, utilizzandone il retro: nel sec. 9° una valva del dittico di Areobindo fu impiegata come supporto per la rappresentazione di Adamo ed Eva nei diversi momenti della creazione (Parigi, Louvre). Associati alla vita religiosa e dunque alla vita quotidiana medievale, questi a. costituirono in età carolingia le opere di riferimento e i modelli ai quali gli artisti guardarono e dai quali trassero ispirazione. Le affinità tra gli a. carolingi e quelli tardoantichi arrivarono a essere talora tanto strette che opere del sec. 9° (legatura con la Tentazione di Cristo, Francoforte sul Meno, Stadt- und Universitätsbibl., Barth. typ. 2, in deposito alla Liebieghaus; dittico della Passione, Milano, Tesoro del Duomo) sono state considerate antiche; del resto anche la trascrizione del modello è letterale: nelle bordure della placca di Oxford (Bodl. Lib., Douce 176), scolpita nell'ambiente artistico della corte di Carlo Magno intorno all'800, almeno sei scene della vita di Cristo vennero copiate dai frammenti del citato dittico in cinque scomparti del principio del sec. 5°, smembrato tra Berlino, Parigi, Nevers.Analogamente, gli artisti carolingi seppero recuperare e sviluppare l'antica tecnica delle incrostazioni su a.: le sottili lamine di metallo inciso decoranti il centro dei pannelli sul frontale della cattedra di S. Pietro (Roma, basilica di S. Pietro) o inserite, in funzione puramente ornamentale, attorno ad alcune placche dell'ultimo terzo del sec. 9° (Davide in trono, Firenze, Mus. Naz. del Bargello; Vita di s. Remigio, Amiens, Mus. de Picardie) ebbero come fonte di ispirazione bronzi del sec. 4°, così come imitano modelli antichi anche le cornici a incrostazioni colorate di alcune placche di cofanetti carolingi o degli stessi succitati pannelli del frontale della cattedra di S. Pietro; quanto al curioso procedimento di incrostazione impiegato sulla placca della Crocifissione proveniente dal tesoro della cattedrale di Verdun (860 ca.; Londra, Vict. and Alb. Mus.), in cui frammenti d'oro sono inseriti in profondi fori ricavati nelle parti scolpite, se ne trova il prototipo sulla pisside della Caccia al leone (secc. 5°-6°; Sens, Trésor de la Cathédrale).La classificazione degli a. carolingi proposta da Goldschmidt (1914-1926), sempre valida nella sua impostazione, si basava su confronti stilistici con le miniature dei manoscritti contemporanei, prodotti dai laboratori attivi presso le corti o i grandi centri ecclesiastici. Se questo metodo necessita oggi di essere applicato in modo più elastico o anche, a volte, rimesso in discussione, esso resta tuttavia accettabile nella misura in cui il tipo degli oggetti intagliati in a. non è più quello dei secc. 5° e 6°: la maggior parte dei pezzi conservati è costituita da placche per legature di manoscritti di lusso e presenta necessariamente affinità con la loro decorazione dipinta. L'iconografia del dittico di Genoels-Elderen (Northumbria, ultimo quarto del sec. 8°; Bruxelles, Mus. Royaux d'Art et d'Histoire), ove prevalgono temi figurativi, mostra una chiara ripresa di idee antiche; il rilievo piatto, quasi inciso, non permette di presagire la maggiore delle opere d'arte carolingia della fine del secolo, le placche provenienti dalla legatura del Salterio di Dagulfo (Parigi, Louvre). Scolpite tra il 783 e il 795 per ornare il salterio che Carlo Magno aveva destinato a papa Adriano I, esse segnano l'inizio della produzione della 'scuola palatina di Carlo Magno', all'interno della quale si individuano due correnti, tra loro talvolta interferenti: una è ispirata soprattutto ai modelli dell'inizio del sec. 5°, con figure molto piccole e statiche, dai bei panneggi classicheggianti (Salterio di Dagulfo; dittico della Passione, Milano, Tesoro del Duomo; dittico di Aquisgrana, Domschatzkammer; Crocifissione, Narbona, tesoro della cattedrale); l'altra, caratterizzata dagli influssi dell'arte della prima metà del sec. 6°, mostra figure più allungate, rivestite di panneggi vivacemente mossi, percorse da movimenti sinuosi (legatura dell'Evangeliario di Lorsch, Londra, Vict. and Alb. Mus., e Roma, BAV, Mus. Sacro; S. Michele, Lipsia, Mus. des Kunsthandwerks; Ascensione, Darmstadt, Hessisches Landesmus.; Simboli degli evangelisti, Ravenna, Mus. Naz., e Londra, Vict. and Alb. Mus.; S. Giovanni, New York, Metropolitan Mus. of Art). Entrambe queste correnti sono tuttavia caratterizzate dagli stessi volti rotondi e pieni, di aspetto giovanile, dai grandi occhi un po' sporgenti.Il classicismo si fa ancora più esplicito nelle opere del periodo successivo, eseguite nell'ambiente artistico della corte di Ludovico il Pio (Crocifissione, Liverpool, Merseyside County Mus.; Crocifissione, Honolulu, Acad. of Arts) o del fratellastro Drogone, vescovo di Metz (Tentazione di Cristo di Francoforte sul Meno; piatti di legature, Parigi, BN, lat. 9388 e 9393). Presente nella 'prima scuola di Metz', durante il vescovado di Drogone, l'ornato vegetale composto da grandi, vigorose foglie di acanto abitate da piccoli personaggi e da animali, appare in un gruppo di a. di datazione discussa, forse originari della regione della Loira intorno alla metà del secolo o verso l'870, in rapporto con la corte di Carlo il Calvo. Sul flabello di Tournus (Firenze, Mus. Naz. del Bargello) questi girali antichizzanti sono vicini a scene che illustrano le Egloghe di Virgilio, mentre sulla placca detta 'del Paradiso terrestre' (Parigi, Louvre) i rilievi ornano un testo di Isidoro di Siviglia sui vari ordini della creazione. Le opere più notevoli di questo periodo sono forse quelle in cui si ritrova l'eco dello stile agile, quasi danzante, e aereo delle miniature di Reims, in particolare del Salterio di Utrecht (prima dell'840; Utrecht, Bibl. der Rijksuniv., 32). A questo gruppo, detto 'gruppo di Liutardo' dal nome di uno degli scribi di Carlo il Calvo, appartengono numerosi a. realizzati per questo sovrano prima o intorno all'870, come le placche di legatura del suo libro di preghiere (Zurigo, Schweizerisches Landesmus.) e del suo salterio (Parigi, BN, lat. 1152) o la grande Crocifissione di Monaco (Bayer. Staatsbibl., Clm 4452). In quest'ultima la morte di Cristo sulla croce si associa in un'unica immagine alla sua risurrezione e alla redenzione, in una iconografia complessa che le crocifissioni della 'seconda scuola di Metz' ripresero con maggiore semplicità (per es. Parigi, Louvre; Londra, Vict. and Alb. Mus.; New York, Metropolitan Mus. of Art).Altre botteghe lavorarono per Carlo il Calvo in uno stile meno colto di quello del 'gruppo di Liutardo' (Davide in trono, Firenze, Mus. Naz. del Bargello); il laboratorio a cui si deve la legatura dell'Evangeliario di Noailles (Parigi, BN, lat. 323) mostra un appiattimento del rilievo e uno sviluppo delle figure in larghezza che persistettero in alcune opere più tarde, della fine del 9° e del 10° secolo.È possibile che gli intagliatori di a. della 'seconda scuola di Metz' (jüngere metzer Schule) abbiano anch'essi lavorato per questo sovrano, per es. durante il breve periodo in cui egli occupò la Lotaringia (869); furono peraltro attivi in ogni caso anche per Lotario II re di Lotaringia - a giudicare dalle affinità stilistiche che avvicinano le loro opere al grande cristallo di rocca intagliato con Storie di Susanna (Londra, British Mus.), inciso appunto per Lotario II nell'864-865 - e, dopo l'870, per Ludovico il Germanico. La loro produzione, costituendo il gruppo quantitativamente più importante degli a. carolingi, è caratterizzata da personaggi dalle forme compatte e dalla mascella pesante; malgrado un'iconografia assai stereotipata, essa dà prova di un gusto maturo per le scene narrative (Miracoli di Cristo, Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz; legatura dell'Evangeliario di Gandersheim, Londra, Vict. and Alb. Mus. e Coburgo, Kunstsammlungen der Veste; serie di legature di Parigi, BN; cofanetto dell'Infanzia di Cristo, Parigi, Louvre; cofanetto con scene della vita di Cristo, Brunswick, Herzog Anton Ulrich-Mus.). Il nucleo essenziale di questa produzione può essere datato al terzo quarto del sec. 9°; i rapporti invece tra questi laboratori della Lotaringia e le altre botteghe di intagliatori di a. della stessa epoca, in particolare quelle della Francia occidentalis (come il gruppo del già citato flabello di Tournus), sono stati posti radicalmente in discussione, a partire dal 1968, a seguito dell'osservazione diretta della cattedra di S. Pietro fino ad allora racchiusa nel reliquiario in bronzo del Bernini. La cattedra in legno, ad arcature, conserva ancora parzialmente il rivestimento in lastre d'a. traforate a giorno a motivi cruciformi oppure ornate di racemi abitati da guerrieri, animali fantastici, personificazioni delle costellazioni o degli elementi; al centro dello schienale figura il busto di un sovrano, affiancato da due angeli recanti corone. Vari artisti lavorarono alla decorazione della cattedra, che appare molto vicina agli a. lotaringi, tanto da poter ipotizzare la medesima provenienza. L'identificazione del sovrano rappresentato con Carlo il Calvo, generalmente proposta, è, peraltro, lontana dall'avere risolto tutte le questioni. D'altra parte il frontale della cattedra è decorato da pannelli eburnei aggiunti in un secondo tempo: raffiguranti le fatiche di Ercole e animali fantastici e ornati di incrostazioni in lamina d'oro e paste vitree colorate, essi rivelano legami con opere della Francia occidentalis, in particolar modo con la bottega che realizzò la legatura dell'Evangeliario di Noailles.L'attività di botteghe di intagliatori d'a. è più difficile da definire per gli ultimi decenni del sec. 9° e gli inizi del successivo, nel periodo che vide la disgregazione dell'impero carolingio sotto i colpi degli invasori normanni, ungari e saraceni. Uno degli insiemi più coerenti si riconnette più o meno direttamente alle opere di Tuotilo che, attivo tra l'895 e il 912 nel monastero di San Gallo, seppe avvalersi contemporaneamente degli insegnamenti sia degli artisti della 'seconda scuola di Metz' sia di quelli del 'gruppo di Liutardo', dando ampio spazio ai motivi ornamentali o ai racemi abitati, presenti anche in opere dell'Italia settentrionale (placche di Norimberga, Germanisches Nationalmus., o della legatura di Berengario, Monza, Mus. del Duomo).Come gli intagliatori carolingi avevano ricercato le loro fonti di ispirazione nell'arte tardoantica, così nei secc. 10° e 11° ci furono artisti che copiarono a loro volta modelli carolingi, sia da a. sia da miniature di codici. Lo stile dei rilievi della 'scuola di Carlo Magno' e della 'seconda scuola di Metz' segnò soprattutto la produzione dei laboratori renani e mosani, benché la 'bottega delle figure piccole' - attiva intorno al Mille (Crocifissione, datata anche al 1100 ca., Tongres, Schatkamer van de Onze-Lieve-Vrouwbasiliek; a. di Adalberone, Metz, Mus. Mun.) - mostri una reale conoscenza delle opere della bottega palatina di Carlo il Calvo. Se un a. prodotto alla stessa data nella regione di Colonia (Cleveland, Mus. of Art) è una trascrizione fedele del rilievo con le Nozze di Cana del 'gruppo di Liutardo' (Londra, British Mus.), lo stile nervoso e rapido delle miniature carolinge di Reims trovò nuova vitalità soprattutto in Inghilterra, in ragione della presenza del Salterio di Utrecht a Canterbury a partire dalla fine del 10° secolo. A queste diverse influenze carolinge si venne ad aggiungere quella, stilistica e iconografica, dell'arte bizantina. Tale influsso, evidente nell'a. dell'Incoronazione di Ottone II e Teofano (982-983 ca.; Parigi, Mus. de Cluny), che deriva dalle opere della bottega attiva per l'imperatore Niceforo II Foca (963-969), è ancora sensibile un secolo più tardi in a. della regione di Würzburg (Noli me tangere e Martirio di s. Chiliano; Würzburg, Universitätsbibl.) e traspare costantemente in rilievi scolpiti dell'Italia centrale e meridionale nel corso dell'ultimo terzo dell'11° secolo. Più circoscritta, l'imitazione degli a. musulmani di Córdova domina le opere realizzate a San Millán de la Cogolla alla fine del sec. 10° (Madrid, Mus. Arqueológico Nac.; Parigi, Louvre)Dal tardo sec. 10° alla fine del 12° tale molteplicità di influssi subì un notevole incremento per il moltiplicarsi dei centri artistici, la cui dispersione sul territorio era favorita dallo sviluppo del sistema feudale e dell'organizzazione monastica. Pertanto, durante tutto questo periodo l'arte dell'a. appare sovente il risultato dell'attività di una miriade di centri ben differenziati e indipendenti, dominati da personalità affermate ma talvolta contraddittorie. Si diversificarono inoltre anche i materiali utilizzati e gli oggetti prodotti. Se la maggior parte delle opere, qualunque fosse la loro provenienza, era decorata con incrostazioni in oro o piccole perle, la materia prima in sé poteva essere di origine diversa: già raro nel sec. 9°, come attesta il gran numero di valve di dittici consolari reimpiegate, alla fine del secolo l'a. di elefante venne sostituito nella Francia occidentalis dal dente di tricheco (placchette con gli Apostoli, Compiègne, Mus. Vivenel, e Parigi, Louvre). Mentre le regioni in cui si poteva ancora trovare l'a. di elefante continuarono a produrre alcuni piatti di legatura, quelle in cui si adoperò quasi esclusivamente l'a. di tricheco (Inghilterra, Francia settentrionale, Scandinavia) videro la comparsa di altri tipi di oggetti, le cui dimensioni ridotte meglio corrispondevano a quelle del materiale utilizzato: placche per cofanetti, croci, scatole, sigilli, pastorali, tau e figurette d'appliquesFu senza dubbio nel 968 che Ottone I (912-973) fece eseguire per la cattedrale di Magdeburgo un'opera in a. - forse un antependium o anche un ambone o una porta - di cui non si conservano che sedici placchette, oggi disperse in varie collezioni. Questi piccoli rilievi, caratterizzati da una vigorosa geometrizzazione, illustrano per la maggior parte episodi della vita di Cristo, a eccezione della Traditio legis e della scena di dedicazione, in cui l'imperatore offre a Cristo il modello di una chiesa (New York, Metropolitan Mus. of Art). La potente originalità di questi rilievi ricorre su un'altra placca raffigurante un imperatore, Ottone I o piuttosto Ottone II (955-983), sua moglie e il figlio ai piedi di Cristo, alla presenza della Vergine e di s. Maurizio (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Applicata). Quest'opera costituisce il legame tra il gruppo di Magdeburgo e gli a. scolpiti a Milano sotto il regno di Ottone II, nei quali la schematizzazione risulta ammorbidita e nobilitata dal contatto con opere bizantine (situla di Gotofredo, prima del 980, Milano, Tesoro del Duomo; S. Giovanni, Parigi, Louvre). La monumentalità ieratica dei personaggi del dittico con scene liturgiche (diviso tra Francoforte sul Meno, Liebieghaus, e Cambridge, Fitzwilliam Mus.) o del S. Gregorio di Vienna sembra derivare dallo stile degli a. di Magdeburgo, mentre il gruppo di quelli 'dalle figure piccole' (a. di Adalberone, Metz, Mus. Mun., e altri a. apparentati) o le opere eseguite a Colonia intorno al Mille (Cristo tra i ss. Vittore e Gereone; Colonia, Schnütgen-Mus.) o ancora la statuetta della Vergine con il Bambino, forse della metà del sec. 11° (Magonza, Mittelrheinisches Landesmus.), danno prova di una eleganza armoniosa, forse ispirata dal Maestro del Registrum Gregorii, corrente alla quale si ricollega l'a. di Notger (Liegi, Mus. d'Archéologie et d'Arts Décoratifs, Mus. Curtius). All'opposto di questa tendenza il Maestro di Echternach si afferma come personalità di primissimo piano, creatore di strane figure deformate e allungate, estremamente sgraziate, ma intagliate con una maestria e una delicatezza poco comuni (Crocifissione, Norimberga, Germanisches Nationalmus.; S. Paolo, Parigi, Mus. de Cluny; Mosè e l'Incredulità di Tommaso, Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz). Benché la Crocifissione di Norimberga sia inserita nella legatura del Codex Aureus di Echternach, anteriore al 991, l'opera del maestro sembra potersi datare al secondo quarto dell'11° secolo.Il Maestro di Echternach non sembra avere avuto successori e la produzione delle botteghe renane e mosane della seconda metà del sec. 11° e del 12° si sviluppò in direzione di uno stile molto più classico, di cui la Crocifissione con donatori (Francoforte sul Meno, Liebieghaus) costituisce una delle più perfette espressioni. La dolcezza dei rilievi poté essere accentuata dall'impiego dell'a. di tricheco, utilizzato su legature sia per figure d'appliques (Croce di Sibilla, prima del 1163; Parigi, Louvre) sia per placchette commesse a formare una valva a cinque scomparti (legatura di S. Egidio, ultimi decenni del sec. 12°; Brunswick, Herzog Anton Ulrich-Mus.). A Colonia un'attivissima bottega produsse grandi pannelli raffiguranti scene della vita di Cristo dai volumi levigati e pieni, sottolineati da un minuzioso lavoro di incisione (Londra, Vict. and Alb. Mus.; New York, Metropolitan Mus. of Art; Colonia, Schnütgen-Mus.).In Inghilterra il prevalere e la persistenza dello 'stile di Winchester' assicurarono maggiore unitarietà alla scultura in a. tanto che, per certe opere, le datazioni proposte hanno oscillato nell'arco di oltre un secolo (pisside di S. Lorenzo; Londra, Vict. and Alb. Mus.). Caratterizzati da figure agitate e in ritmica danzante, dai panneggi a sbuffi, animati da un grafismo nervoso che ricorre anche nella miniatura contemporanea, questi rilievi in a. costituiscono all'inizio del sec. 11° un gruppo ben caratterizzato (tau di Alcester, Londra, British Mus.; rilievi in forma di mandorla con la Vergine e Cristo in trono, Londra, Vict. and Alb. Mus.; Vergine e S. Giovanni, Saint-Omer, Mus. Sandelin). La conquista normanna dell'Inghilterra nel 1066 non fece che rafforzare i legami artistici con il continente, stretti già da molto tempo. Alla fine del sec. 11° e nel 12°, accanto all'ornato a grandi racemi abitati (croce reliquiario e tau di Le Mans, Londra, Vict. and Alb. Mus.; bracciolo di sedile, Firenze, Mus. Naz. del Bargello), si affermò uno stile meno vivace, nel quale tuttavia l'intento ornamentale rimase preponderante (statuetta della Vergine con il Bambino; Londra, Vict. and Alb. Mus.). La grande croce conservata a New York (Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters) è forse il più celebre degli a. inglesi del sec. 12°: essa presenta un programma iconografico ambizioso, intriso di antisemitismo e spiegato da numerose iscrizioni; i personaggi allungati e dinoccolati, dagli occhi globulari, sono paragonabili a quelli delle miniature prodotte a Canterbury e soprattutto a Bury Saint Edmunds intorno al 1135 e giustificano l'attribuzione della croce a quest'ultimo centro.Non è sempre facile distinguere la produzione inglese da quella di botteghe del continente prossime alla costa atlantica che, esposte ai medesimi contatti, poterono creare opere tra loro affini. La distinzione tra gli a. scandinavi e quelli insulari resta pertanto molto discussa e non sempre a ragione si è deciso, nella maggior parte dei casi, per l'attribuzione all'Inghilterra: la croce con il nome di Gunhild-Helen (Copenaghen, Nationalmus.), datata attualmente alla metà del sec. 12°, deve certo essere considerata un'opera danese, inserendosi perfettamente nel contesto romanico continentale di questo periodo. A botteghe norvegesi della fine del sec. 12° e del 13° sono attribuibili a. decorati con racemi abitati, come il reliquiario di Londra (British Mus.) e l'olifante della SainteChapelle (Firenze, Mus. Naz. del Bargello); analoghe considerazioni possono essere fatte per i celebri pezzi degli scacchi scoperti nell'isola Lewis (Ebridi), che si sono potuti confrontare con opere inglesi attribuite a St Albans, ma che richiamano soprattutto le sculture della cattedrale di Trondheim (Norvegia).Un problema identico sollevano le attribuzioni alla regione mosana o alla Francia nordoccidentale: per es. Liegi, Saint-Amand, Arras e soprattutto Saint-Omer, centri i cui legami con l'Inghilterra furono sempre molto stretti. Segnati dall'influsso dello 'stile di Winchester', ma in una forma irrigidita e geometrizzata, i pannelli di cofanetto di Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz), Anversa (Mus. Mayer van den Bergh) e Firenze (Mus. Naz. del Bargello), analogamente al Cristo in trono, parte centrale di una croce pettorale (New York, Metropolitan Mus. of Art), possono essere annoverati tra le opere prodotte a Saint-Omer nella seconda metà e alla fine del 12° secolo. Tuttavia il capolavoro dell'abbazia di Saint-Bertin, a Saint-Omer, è costituito intorno al 1100 dalle quattro figure d'appliques raffiguranti i Vegliardi dell'Apocalisse (Saint-Omer, Mus. Sandelin; Lille, Mus. des Beaux-Arts; Londra, British Mus.; New York, Metropolitan Mus. of Art).Le attribuzioni sono ancora più discutibili quando si tratta di operare una distinzione tra manufatti assegnabili ai territori continentali del regno anglonormanno o viceversa al dominio dei Plantageneti, vale a dire in centri normanni, angioini o aquitani, per principi e dignitari che risiedevano più spesso in Francia che in Inghilterra. Pertanto, così come la nozione di Channel school sembra imporsi per il sec. 11°, quella di 'arte angioina' o di 'stile plantageneto' dovrebbe sostituire la dizione di 'arte inglese' riferita a opere della metà o della seconda metà del sec. 12°, le cui forme evocano direttamente la contemporanea arte della Normandia, della valle della Loira o del Poitou (busto di Cristo, Londra, Mus. of London; pastorale di S. Nicola e tau di Liegi, Londra, Vict. and Alb. Mus.; pastorale di Ulger, Angers, tesoro della cattedrale; tau di Coulombs, Chartres, Mus. des Beaux-Arts).Il fatto che la grande placca eburnea londinese dell'Adorazione dei Magi (Vict. and Alb. Mus.) possa essere considerata di volta in volta inglese o spagnola mostra fino a che punto il gioco degli influssi e degli scambi poté essere complesso. L'arte dell'a. nella Spagna nordoccidentale produsse tuttavia alcuni gruppi di opere ben caratterizzate e di indubbia qualità: prima del 1063 la bottega attiva al servizio di Fernando I (m. nel 1065), re di León, Castiglia e Navarra, e della sua consorte, la regina Sancia, realizzò - fra altre - la grande croce d'a. di San Isidoro di León, uno dei capolavori dell'arte europea del sec. 11° (Madrid, Mus. Arqueológico Nac.). La produzione della vicina bottega di San Millán de la Cogolla denota qualità artistica di pari valore. Le opere spagnole della prima metà del sec. 12° continuarono a sviluppare questo filone, come attestano il notevole Cristo dagli occhi in smalto a incrostazione dell'abbazia di Carrizo (León, Mus. Arqueológico Prov.) e i piatti di legatura raffiguranti i Pellegrini di Emmaus e le Pie donne al sepolcro (New York, Metropolitan Mus. of Art; Leningrado, Ermitage; Oviedo, coll. privata), dai personaggi intagliati ad altorilievo con una raffinatezza e una ricerca ornamentale poco comuni.L'Italia, dove l'a. di elefante non sembra essere mai mancato, dal sec. 10° al 12° non fu un'area di produzione intensa e le opere realizzate in questo periodo rappresentano per lo più casi isolati. Tuttavia si devono alle botteghe dell'Italia meridionale della seconda metà del sec. 11° numerosi gruppi di a., nei quali si concretizza una sintesi originale tra i modelli bizantini e l'arte romanica occidentale. Il cofanetto di Farfa (Mus. dell'abbazia), offerto prima del 1072 da Mauro d'Amalfi e dalla sua famiglia, è lavorato a rilievo schiacciato in uno stile già annunciato dal dittico di Rambona, forse del 900 ca. (Roma, BAV, Mus. Sacro). Le placchette e i frammenti decorativi conservati in maggioranza a Salerno (Mus. Diocesano) costituiscono l'insieme di a. anteriori al sec. 14° più importante che si sia conservato. Considerate di volta in volta resti di una cattedra, di un ambone, di un reliquiario o di porte e senza dubbio eseguite prima del 1084 per la consacrazione della cattedrale di Salerno, queste placche si suddividono in tre grandi gruppi (due dedicati a scene dell'Antico Testamento e uno a episodi del Nuovo) eseguiti da varie mani. Gli artisti che li realizzarono, salernitani o amalfitani, conoscevano senza dubbio modelli paleocristiani e bizantini (tra questi alcuni degli a. della cattedra di Grado), ma anche le tecniche e i motivi ornamentali degli a. musulmani. Questi a. evidenziano un reale sforzo di suggerire i volumi e sono trattati con una vivacità e un talento narrativo venato di umorismo che conferisce loro un fascino incontestabile. Tutta una serie di placche, dittici e trittici, nonché un gruppo di olifanti e di grandi pezzi per gli scacchi, come quelli provenienti dal tesoro di Saint-Denis (Parigi, BN, Cab. Méd.), furono scolpiti in questo stesso ambiente artistico. Numerosi pastorali eburnei dei secc. 12° e 13°, decorati con motivi dipinti e dorati e prossimi a certi a. musulmani, sono considerati opere delle botteghe dell'Italia meridionale o siciliane dei secc. 12° e 13°, insieme a cofanetti con decorazione dorata o eseguita a penna, senza che questa attribuzione sia veramente fondata.Rispetto alla produzione di età romanica, dalle caratteristiche contrastanti e frammentata tra numerosissimi centri, l'arte dell'a. in età gotica colpisce al contrario per una sua apparente omogeneità: malgrado la varietà degli oggetti prodotti (statuette, figurette d'appliques, trittici, dittici, tabernacoli, cofanetti, valve di specchi, pastorali, tavolette per la scrittura), la materia prima - a parte rarissime eccezioni - fu l'a. di elefante, proveniente soprattutto dall'Africa e oramai importato in quantità maggiore che in precedenza dai porti dell'Atlantico. Tuttavia, benché fosse divenuto più facilmente reperibile, l'a. continuò a essere un materiale prezioso. D'altra parte l'iconografia religiosa o profana era all'epoca talmente ben definita, che poté sovente conferire alle opere carattere ripetitivo. L'evoluzione stilistica è talmente sottile che, a seconda degli studiosi, non sono rare oscillazioni di quasi cinquant'anni nelle datazioni. Infine, il predominio dello stile gotico francese nell'arte dell'a. fu così netto che è spesso invalsa - assolutamente a torto - la tendenza a considerare intagliati a Parigi tutti gli a. del 13° e 14° secolo.Malgrado le notizie delle fonti testuali e le numerose citazioni negli inventari di corte e nei rendiconti trecenteschi che descrivono le opere acquisite o ne menzionano l'acquisto (Koechlin, 1924), lo statuto degli intagliatori di a. gotici è ancora poco conosciuto. Le botteghe si erano oramai insediate nelle città, dove potevano ricevere le commissioni o presentare a una ricca clientela, più spesso laica che ecclesiastica, manufatti già realizzati. Il termine di intagliatore d'a. non comparve tuttavia che alla fine del regno di Luigi IX (1215-1270), quando il Livre des métiers di Etienne Boileau (1200 ca. - 1269) riconobbe a tutta una serie di corporazioni, in particolare agli ymagiers, ai pittori e agli scultori, il diritto di lavorare l'avorio. I manufatti eburnei venivano quasi sempre rifiniti con pitture e le opere più importanti erano arricchite con supporti in metalli preziosi. È dunque logico che gli a. gotici presentino a un tempo affinità con la scultura monumentale, la miniatura e l'oreficeria, come è confermato d'altronde dai nomi degli intagliatori più celebri del tempo: Jean le Scelleur, yvoirier ma anche orafo e pittore, al servizio di Mahaut d'Artois (1302-1329); Jean le Braelier, orafo di Giovanni II di Francia (1319-1364) e dei suoi figli; Jean de Marville, scultore del duca di Borgogna, o ancora Jean Aubert, scultore, che restaurò gli a. del tesoro della Sainte-Chapelle a Parigi.Koechlin (1924) ha avuto il merito di descrivere più di milleduecento pezzi eburnei nel suo censimento tuttavia incompleto, ma i suoi tentativi di classificazione sulla base di criteri oggettivi (iconografia, dettagli ornamentali, tipi di oggetti) vengono oggi scartati a vantaggio di proposte di raggruppamento su base stilistica, peraltro ancora agli inizi. La cronologia degli a. gotici resterà dunque ancora a lungo suscettibile di variazioni.La fine del sec. 12° e i primi decenni del 13° corrispondono a una fase di lenta trasformazione degli a., ovvero alla comparsa di statuette di maggiori dimensioni, il cui centro di produzione tuttavia non era Parigi. Il grande Cristo della chiesa di Herlufsholm in Danimarca (Copenaghen, Nationalmus.), per il quale è stato possibile evidenziare influssi di Chartres, è molto probabilmente un'opera danese, eseguita intorno al 1220-1230. Lo stile fluido delle pieghe en cuvette della Vergine in legno policromo della chiesa di Saint-Jean l'Evangeliste a Liegi trova un'eco in numerose statuette eburnee (per es. Vergine con il Bambino, eseguita in area mosana, 1220-1230 ca.; Amburgo, Mus. für Kunst und Gewerbe). Di poco più tarda, la produzione di tutto un gruppo di statue della Vergine con il Bambino dalle grandi pieghe angolose, intagliate a larghi piani geometrici, può essere localizzata nel Nord della Francia (1240 ca., Chicago, Art Inst.; Baltimora, Walters Art Gall.).La svolta decisiva si ebbe a partire dal 1240-1250 con le grandi statuette parigine che, nelle ampie pieghe spezzate, profondamente scavate, nella silhouette della figura flessuosa ed elegante, nella lavorazione raffinata ma priva di manierismi, sembrano concentrare la migliore produzione del Gotico monumentale: l'opera più significativa è certamente la Vergine della Sainte-Chapelle della metà del sec. 13° (Parigi, Louvre), attorno alla quale possono essere raggruppate alcune delle più seducenti immagini della Vergine con il Bambino (Orléans, Mus. Historique et Archéologique; New York, Metropolitan Mus. of Art; Parigi, Louvre); la Vergine di Saint-Denis (Cincinnati, Taft Mus.) faceva un tempo parte di un insieme al quale appartenevano i due angeli oggi a Rouen (tesoro della cattedrale). Alcuni gruppi plastici composti da grandi statuette si sono in parte conservati (Deposizione dalla croce, Incoronazione della Vergine, Parigi, Louvre, e Anversa, Mus. Mayer van den Bergh; Vergine di Zwettl, anteriore al 1259, abbazia di Zwettl, Austria); essi non costituivano una esclusiva parigina: nel 1299 il capitolo del duomo di Pisa commissionò infatti allo scultore Giovanni Pisano una Vergine tra due angeli e due petia della Passione per l'altare maggiore. Sussiste solo la statua della Vergine (Pisa, Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana) ma la bottega di Giovanni Pisano sembra avere lavorato a più riprese l'a., dato che si è potuto attribuirle due busti di Cristo (coll. privata; Londra, Vict. and Alb. Mus.). Benché assai più rare di quelle della Vergine, sono note alcune statuette di Cristo degli ultimi decenni del Duecento (Firenze, Mus. Naz. del Bargello; Norimberga, Germanisches Nationalmus.); quella di Londra (Vict. and Alb. Mus.) potrebbe essere di origine inglese.Mentre le statuette sono numerose, nella seconda metà del secolo i bassorilievi risultano relativamente rari: se la Natività del Louvre (1250-1260 ca.) può essere attribuita all'ambito parigino, la maggior parte di tali rilievi - riuniti, nonostante la loro eterogeneità, alla produzione della bottega del dittico di Soissons (Londra, Vict. and Alb. Mus.) - si ricollega piuttosto all'arte del Nord della Francia. Alla fine del secolo o intorno al 1300 la bottega del trittico di Saint-Sulpice du Tarn (Parigi, Mus. de Cluny) continuava a produrre opere ad altorilievo e dalle grandi pieghe spezzate duecentesche, pur introducendo taluni elementi tipici dell'arte del sec. 14° (grafismo delle barbe, pieghe trasversali en tablier, dilatazione di certe silhouettes), mentre la bottega del Cristo giudice (Parigi, Louvre) lavora in uno stile più piatto e più ampio, nel quale l'eleganza del disegno costituisce palesemente il fattore prioritario. Le medesime ricerche grafiche compaiono su valve di specchi e cofanetti datati intorno al 1300 e al primo terzo del sec. 14°, sui quali sono evocate le scene più caratteristiche dei romanzi allora di moda (Romanzo della Tavola Rotonda, Tristano e Isotta, Storia della castellana di Vergy) oppure scene cortesi comprendenti una o più coppie di amanti (la partenza per la caccia, la corte del dio Amore, l'incoronazione dell'amata, l'assedio al castello d'Amore). Tutto un gruppo di statuette della Vergine con il Bambino può essere attribuito al primo terzo del sec. 13°: ancora di grandi dimensioni, esse presentano un peculiare allungamento del busto, di cui la Vergine di Villeneuve-lès-Avignon (Notre-Dame, tesoro) rappresenta l'esempio più significativo. La Vergine con il Bambino (1320-1340 ca.; Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco) si distingue per la perfezione delle proporzioni e la grazia sognante; più ampia e più sinuosa, la Vergine di Noyon (Parigi, Louvre) può essere accostata a sculture e opere di oreficeria e datata, in base a confronti, intorno al 1340.Con l'eccezione di alcune figurette di appliques con scene della Passione (Parigi, Louvre; Londra, Vict. and Alb. Mus.; Anversa, Mus. Mayer van den Bergh; Oslo, Kunstindustrimus.; New York, Metropolitan Mus. of Art) e del grande Cristo dell'antica Coll. Homberg (Parigi, Louvre), pochi a. appaiono segnati dall'influsso di Jean Pucelle, che domina invece nella miniatura dopo il 1325; la maggior parte delle botteghe parigine moltiplicò all'epoca la produzione di rilievi con iconografia stereotipata, resi di difficile datazione dalla resistenza tenace di forme stilistiche arcaizzanti.Manufatti eburnei sono frequentemente menzionati negli inventari di corte della seconda metà del secolo, in particolare in quelli di Carlo V e del duca di Berry, che possedevano sia dittici sia statuette. Queste ultime sembrano tuttavia divenire meno numerose e la bella Vergine dei duchi di Toscana, forse del terzo quarto del sec. 14° (Firenze, Mus. Naz. del Bargello), che si potrebbe accostare alle opere di André Beauneveau, è di qualità non comune. La produzione dei rilievi era all'epoca dominata dall'attiva bottega dei dittici della Passione ('dittico quadrilobo' di Parigi, Louvre; dittici di Baltimora, Walters Art Gall.; di New York, Metropolitan Mus. of Art; di Lisbona, Mus. Calouste Gulbenkian), le cui imitazioni tradiscono una rapida decadenza (legatura di Saint-Denis; Parigi, Louvre).I tentativi di individuare botteghe straniere operanti nei secc. 13° e 14° rimangono estremamente discutibili: non è certo che il grande Cristo di Londra (Vict. and Alb. Mus.) sia inglese, ma il dittico Salting (Londra, Vict. and Alb. Mus.) e i rilievi scolpiti per John Grandisson, vescovo di Exeter (1327-1369), sono indiscutibilmente insulari (Londra, British Mus., e Parigi, Louvre); statuette della Vergine seduta, le cui vesti ricadono intorno alle gambe in una moltitudine di pieghe parallele, sono ugualmente attribuite all'Inghilterra (Londra, British Mus.; New York, Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters; New Haven, Yale Univ. Art Gall.; Parigi, Louvre; ecc.).Se alcuni a. e statuette possono essere considerati prodotti nella Francia orientale, l'identificazione delle opere renane richiede maggiore cautela: il gruppo degli a. profani 'a fasce gemmate', di cui il cofanetto di S. Orsola (inizi del sec. 14°; Colonia, Domschatzkammer) è l'esempio più bello, deve potersi ritenere eseguito a Colonia, analogamente ad alcuni a. religiosi apparentati al piccolo libro eburneo dipinto di Londra (Vict. and Alb. Mus.). I criteri iconografici sono tuttavia troppo fragili per identificare opere distinte rispetto all'ambito parigino e le valutazioni stilistiche sono tanto più discutibili, in quanto artisti renani e dei Paesi Bassi lavorarono alla corte di Francia, per il sovrano e per i suoi fratelli, durante tutta la seconda metà del Trecento.Il ruolo dell'Italia nella produzione di a. gotici è più chiaro: le statuette a tutto tondo attribuite a Giovanni Pisano o alla sua cerchia si collocano senza difficoltà tra i capolavori di questa arte nel Medioevo e tenderebbero a dimostrare che, come in Francia, l'a. veniva lavorato dai migliori scultori (Madonnina, Pisa, Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana; Cristo, Londra, Vict. and Alb. Mus.; Cristo, coll. privata); ma si tratta di opere isolate, non confrontabili con gli altri a. forse di origine italiana (calice delle Arti liberali; Milano, Tesoro del Duomo). La lavorazione dell'osso acquistò tuttavia, in Italia, dignità di arte nel Trecento, con i grandi pastorali decorati a fogliami con busti o arricchiti di dorature e pitture (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana; Firenze, Mus. Naz. del Bargello; Londra, Vict. and Alb. Mus.; Leningrado, Ermitage), e quindi - intorno al 1400 - con le opere degli Embriachi, apprezzate da un collezionista raffinato quale Jean de Berry (polittico di Poissy, Parigi, Louvre).Nel Quattrocento le vicissitudini dei regni di Carlo VI (1368-1422) e di Carlo VII (1403-1461) non favorirono la produzione di manufatti eburnei e, con l'eccezione di alcune statuette come l'opulenta Vergine di Baltimora (Walters Art Gall.), forse parigina e forse degli inizi del sec. 15°, gli intagliatori di a. sembrano essersi limitati a eseguire opere minori, grani di rosario o rilievi piatti su fondi arabescati di cui i 'baci di pace' offrono numerose testimonianze (Parigi, Mus. de Cluny; Parigi, Louvre; Torino, Mus. Civ. di Torino, Mus. d'Arte Antica; Angers, Mus. Jean Lurçat; Gand, Archeologisch Mus. van de Univ.; Londra, British Mus.; ecc.). Di fatto gli eventi storici, provocando la paralisi e la dispersione delle botteghe di Parigi, determinarono una decadenza dalla quale l'arte parigina della lavorazione dell'a. - che nessun altro centro europeo seppe rilanciare, prima del Tardo Rinascimento - non ebbe più modo di risollevarsi.
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Le fonti antiche non forniscono notizie molto esaurienti circa le tecniche di lavorazione, i luoghi di produzione, il costo e la distribuzione dell'a., lo status sociale degli artigiani che lo lavoravano: un editto del 337 (Codex Theodosianus, XIII, 4, 2) include gli artigiani dell'a. (eborarii) nella lista di coloro che erano esentati da alcuni obblighi civili; una miniatura databile tra il sec. 10° e l'11°, che illustra i Cynegetica dello pseudo-Oppiano di Apamea (Venezia, Bibl. Naz. Marciana, gr. Z 479, c. 36r), raffigura un artigiano intento a intagliare una zanna utilizzando una piccola ascia, mentre sul tavolo è appoggiata una tavoletta già preparata.Qualche notizia in più si ha circa i centri di produzione: la materia prima proveniva ovviamente soprattutto dall'Africa orientale, ma anche dall'India e da zone, come la Mauretania Caesariensis, in Africa settentrionale, in cui gli elefanti sono oggi estinti (Cutler, 1985). Sulle città e i laboratori più attivi nella trasformazione delle zanne in oggetti finiti la discussione tra gli studiosi è, viceversa, ancora aperta e si basa essenzialmente su considerazioni di carattere stilistico, mentre mancano pressoché totalmente dati archeologici definitivi. I laboratori più importanti furono probabilmente ubicati nelle maggiori città del mondo bizantino (Costantinopoli, Alessandria, Antiochia), nell'area siriaca, quest'ultima di fondamentale importanza per il commercio con l'India, e, limitatamente al sec. 6°, anche a Ravenna.Dal punto di vista tipologico, gli a. bizantini possono essere suddivisi in alcuni gruppi: dittici imperiali, oggetti devozionali, arredi liturgici, oggetti di uso profano, materiali di uso comune; va tuttavia sottolineato come i limiti di tali gruppi siano tutt'altro che netti e come oggetti prodotti con funzioni diverse presentino spesso evidenti analogie formali tra loro.La serie cronologica dei dittici consolari bizantini si sovrappone parzialmente nel primo periodo a quella dei dittici prodotti in area occidentale, per proseguire poi autonomamente. Essa inizia con il dittico di Areobindo (console nel 506), che segna il primo distacco dell'arte metropolitana dalla tradizione tardoantica, e prosegue fino al 541, data in cui, sotto l'impero di Giustiniano (527-565), cessa il conferimento della carica consolare, riservata in seguito solo all'imperatore. Questa serie di dittici, precisamente datati e sicuramente riferibili a una produzione costantinopolitana o antiochena, si rivela quindi di estrema importanza storico-artistica nello studio della nascita e dello svilupparsi dell'iconografia e dello stile propri dell'epoca protobizantina. Tra i dittici più significativi da questo punto di vista vanno segnalati quello di Anastasio (491-518) e quello attribuito a Giustiniano. Il dittico consolare di Anastasio, del 517 (Parigi, BN, Cab. Méd.), rappresenta bene l'iconografia tipica di questo genere di oggetti: l'imperatore è raffigurato seduto sul trono ornato, tra l'altro, dalle personificazioni di Roma e Costantinopoli; nella mano sinistra tiene lo scettro sormontato dall'aquila, mentre la destra, che tiene la mappa, è sollevata nell'atto di dare l'avvio ai giochi circensi, raffigurati in basso, offerti ai cittadini dal console stesso in occasione dell'assunzione della carica. Al di sopra del trono, entro tre medaglioni, compaiono le immagini dello stesso imperatore, dell'augusta Ariadne e, probabilmente, del console Pompeo. A un tipo caratterizzato da un'iconografia più articolata appartiene il dittico noto come a. Barberini (Parigi, Louvre), la cui valva superstite è costituita da cinque placchette unite tra loro, delle quali solo quattro sono conservate. In quella centrale compare l'imperatore, quasi certamente Giustiniano, a cavallo, cui la Tellus sorregge la staffa, mentre una piccola Vittoria giunge portando la palma e la corona; sulla sinistra un ufficiale, con ogni probabilità Belisario, offre una statua della Vittoria; in basso, le popolazioni vinte dell'Asia e dell'Africa recano doni, tra cui significativamente una zanna d'a., all'imperatore, mentre in alto compare l'immagine del Cristo benedicente, sullo sfondo di un medaglione sorretto da due angeli, che simboleggia il firmamento.Accanto ai dittici completamente figurati compaiono anche esemplari con una decorazione più semplificata, in cui l'immagine del console è isolata in un medaglione centrale. È il caso, per es., del dittico di Filosseno, del 525 (Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.), o di quello di Giustino, del 540 (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Skulpturengal.): in quest'ultimo il tralcio vegetale che racchiude il medaglione termina in alto e in basso con quattro palmette, mentre nella parte superiore, sotto l'iscrizione dedicatoria, compaiono tre clipei con le immagini del Cristo, dell'imperatore Giustiniano e dell'augusta Teodora.Una classe particolare di oggetti, tipologicamente assai vicini e cronologicamente contemporanei ai dittici consolari e imperiali, è formata da un gruppo di dittici a soggetto religioso in cui le figure del Cristo, della Vergine e delle potenze angeliche non costituiscono più contorno all'immagine imperiale, ma sono esse stesse soggetto dell'intero dittico o almeno di alcune sue parti. È il caso, per es., di un dittico (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Skulpturengal.) databile alla metà del sec. 6°, che presenta su una valva la Vergine e il Bambino in trono tra due angeli, mentre sull'altra compare il Cristo tra i ss. Pietro e Paolo. Analogamente, su una valva di un altro esemplare (Londra, British Mus.) - che per il tipo di iscrizione dedicatoria poteva far parte anche di un dittico imperiale ed è databile su base stilistica all'epoca di Giustino I (518-527) - compare la figura dell'arcangelo Michele, che, per finezza di modellato, per ricchezza e morbidezza del panneggio e per delicatezza dei passaggi tra i piani prospettici, costituisce senza dubbio uno dei documenti più importanti dell'intera scultura bizantina. Questo genere di dittici venne usato come registro dei membri più illustri della comunità ecclesiale. A tale scopo vennero spesso adattati anche i dittici consolari: è il caso, per es. del citato dittico di Filosseno, sul quale, probabilmente nel sec. 9°, vennero iscritti brani di preghiere.La produzione di manufatti destinati alla devozione individuale, testimoniata dai dittici a soggetto religioso, dovette subire una flessione durante i secc. 8° e 9°, a causa della crisi iconoclastica. Anche se mancano testimonianze dirette ed esemplari conservati, è però lecito supporre che proprio le icone portatili in a., assieme a quelle dipinte, ricoprissero in quest'epoca un ruolo importante, contribuendo ad assicurare una continuità stilistica, iconografica e produttiva anche nei periodi di maggiore difficoltà per le comunità iconodule. La produzione di questo tipo di oggetti riprese comunque con grande vigore a partire dalla metà del sec. 9°, dopo l'esaurirsi della lotta iconoclasta, si sviluppò particolarmente nel corso dei secc. 10° e 11°, nel pieno della 'rinascenza macedone', per continuare poi fino alla crisi definitiva del mondo bizantino. Le icone appartenenti a questo gruppo potevano essere assai semplici, costituite da una sola tavoletta - come, per es., il pannello della metà del sec. 10° con s. Giovanni evangelista e s. Paolo (Venezia, Mus. Archeologico) - o più complesse, con le tavolette unite da cerniere a formare un trittico con probabile funzione di altarolo portatile. Tale forma sembra essere in assoluto la preferita, come del resto accade anche nel campo delle icone dipinte di questo periodo (Weitzmann, 1971b), e appare spesso difficile stabilire se le singole tavolette siano icone autonome o parti smembrate di composizioni più complesse. Fra i trittici conservati vanno ricordati, come massime espressioni dell'arte bizantina dell'a. in questo periodo, quello conservato a Roma (Mus. del Palazzo di Venezia) e il c.d. trittico Harbaville (Parigi, Louvre). In entrambe queste opere lo schema compositivo è analogo: nella tavola centrale, divisa in due registri, compaiono in alto il Cristo (in trono nell'a. di Parigi) tra la Vergine e il Battista, in basso s. Pietro tra gli evangelisti; nelle tavolette laterali, anche qui su due registri, compaiono santi e Padri della Chiesa. Sull'esemplare conservato a Roma, una lunga iscrizione dedicatoria ricorda l'imperatore Costantino VII Porfirogenito (913-959), alla cui committenza possono essere assegnate entrambe le opere. Dal punto di vista stilistico questi due trittici costituiscono una testimonianza importantissima dell'arte della 'rinascenza macedone': le figure, con il loro morbido modellato e il severo atteggiarsi, trasmettono un senso di spiccata monumentalità, superando le limitazioni dimensionali proprie della materia usata, elemento questo caratteristico di tutta l'arte bizantina del periodo, a partire dalla miniatura per arrivare alle espressioni monumentali dei grandi cicli pittorici e musivi.Sotto questo profilo, particolarmente importanti appaiono altri due rilievi - attualmente isolati, ma che potevano far parte di cicli più complessi (Weitzmann, 1967; 1971a) - databili tra la fine del sec. 10° e gli inizi dell'11°: il primo con l'Entrata di Cristo a Gerusalemme (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Skulpturengal.), l'altro con la Dormizione della Vergine (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 4453). Entrambi presentano caratteri nuovi, sia nell'iconografia, con molte figure poste in reciproco rapporto, le quali si muovono in un ambiente paesaggisticamente definito e delimitato da una sorta di ciborio a traforo che ribadisce la cornice, sia nell'esecuzione tecnica, con un rilievo alto e marcato da profondi sottosquadri, con le pieghe delle vesti nettamente evidenziate attraverso un procedimento spiccatamente linearistico. Tale sistema compositivo si ritrova, in qualche misura esasperato, in un rilievo con la rappresentazione dei Quaranta martiri di Sebaste (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Skulpturengal.), databile al sec. 12° e caratterizzato da uno stile molto animato, con le figure in primo piano scolpite quasi a tutto tondo, mentre le file retrostanti risultano progressivamente appiattite e delineate sullo sfondo. Alcuni di questi rilievi vennero originariamente prodotti, o più spesso riutilizzati, come coperte di libri e codici miniati: è, per es., il caso della citata tavoletta di Monaco, impiegata nella coperta del c.d. Evangeliario di Ottone III, donato dall'imperatore Enrico II (1002-1027) alla cattedrale di Bamberga, o della valva di dittico a cinque pannelli, con il Cristo e la Vergine in trono, databile al sec. 5°, utilizzata nella copertura del c.d. Vangelo di Eǰiacin conservato a Erevan (Matenadaran, 2374).Assai meno diffuse, anche in ragione della complessità tecnica della produzione, dovevano essere invece le immagini devozionali a tutto tondo; un solo esemplare, una Vergine Odighítria, databile al sec. 12°, è conservato a Londra (Vict. and Alb. Mus.).Le fonti antiche, e in particolare il De cerimoniis aulae byzantinae di Costantino VII Porfirogenito (a cura di A. Vogt, Paris 1935-1940) accennano spesso in maniera indiretta a porte, mobili e arredi in genere, decorati da placchette eburnee. L'impiego di placche di a. nella decorazione di mobili di uso liturgico è inoltre testimoniato da un'opera eccezionale quale la cattedra del vescovo Massimiano (Ravenna, Mus. Arcivescovile). La cattedra, databile alla metà del sec. 6° e di provenienza controversa - gli studiosi hanno di volta in volta proposto Antiochia, Alessandria o Ravenna, anche se la maggioranza sembra attualmente propensa a considerarla opera costantinopolitana -, fu, con ogni probabilità, donata dall'imperatore Giustiniano al vescovo ravennate Massimiano (545-553), il cui monogramma compare sulla fronte del bancale. Della struttura originaria, costituita da trentanove pannelli d'a. che rivestivano l'intelaiatura del trono in legno d'ebano, restano ventisette tavolette figurate inquadrate da fasce, sempre in a., decorate con motivi vegetali e animali. Nella cattedra - il cui ultimo restauro nel 1956 ha permesso di ricostruire l'esatta disposizione dei pannelli anche sulla base dei marchi incisi nell'a. durante la lavorazione - si sviluppava un complesso ciclo iconografico, ben ricostruibile anche grazie ad alcuni disegni settecenteschi: sul bancale l'immagine del Battista tra i quattro evangelisti, sormontata da una fascia con il monogramma di Massimiano fiancheggiato da due pavoni; sullo schienale il ciclo cristologico; sulle fiancate al di sotto dei braccioli le scene dell'Antico Testamento e della Vita di s. Giuseppe.Fin dall'epoca tardoantica, l'a. venne inoltre particolarmente impiegato nella produzione di contenitori per uso liturgico e in particolare di pissidi. Queste ultime, ricavate tagliando trasversalmente alla base una zanna d'a. e svuotandola delle parti molli della polpa, potevano avere diverse funzioni: custodie per l'incenso, per le ostie consacrate o anche reliquiari. Tra le pissidi conservate, molte provengono dall'area egiziana e sono databili intorno al sec. 6°; particolarmente interessanti sono quella con scene nilotiche e sfingi, conservata nel Mus. di Wiesbaden, quella con le Storie di s. Menna (Londra, British Mus.) e quella con il Sacrificio di Abramo (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz). L'esemplare conservato a Washington (Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.), decorato con scene dell'Antico Testamento e databile tra il sec. 5° e il 6°, presenta tracce di sovradipintura, che, se non riconducibili a restauri o usi secondari, testimonierebbero della possibilità che alcuni oggetti in a. avessero un'ulteriore decorazione policroma. Un genere del tutto particolare di contenitori è rappresentato dai reliquiari e in particolare dalle stauroteche, la più significativa delle quali, databile all'epoca dell'imperatore Niceforo II Foca (963-969), è conservata in S. Francesco a Cortona. Il programma iconografico di quest'opera appare quasi un manifesto della teocrazia bizantina: sulla fronte il campo centrale è spartito in quattro settori da una grande croce decorata a girali vegetali; nelle quattro formelle risultanti compaiono le figure della Vergine e del Battista e dei ss. Stefano e Giovanni Evangelista; nella fascia in alto tre medaglioni con il Cristo tra gli arcangeli Michele e Gabriele, cui si contrappongono nella fascia inferiore altri tre medaglioni con l'immagine di Costantino il Grande tra Elena e Longino; sul rovescio un'iscrizione in forma di croce ricorda l'imperatore Niceforo II, mentre in una seconda è ricordato uno Stefano, skeuophýlax della Santa Sofia di Costantinopoli. È possibile che questo tipo di reliquiari avesse un particolare uso in campo militare: le fonti antiche testimoniano infatti che l'esercito bizantino era accompagnato nelle sue spedizioni da icone e reliquie particolarmente venerate, nelle quali i generali di Costantinopoli riponevano grande fiducia (Guillou, 1979).Oltre che in campo religioso, l'a. venne ampiamente impiegato nel mondo bizantino anche per la produzione di oggetti utilizzati nel corso di cerimonie pubbliche o destinati alle abitazioni private. Nel primo gruppo rientra certamente il frammento di scettro imperiale tradizionalmente attribuito a Leone VI (886-912) e conservato a Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz). Si tratta di una placca quadrangolare che presenta su di un lato la Vergine che pone la sua mano sul capo di un imperatore alla presenza dell'arcangelo Gabriele, sull'altro il Cristo tra i Ss. Pietro e Paolo. L'attribuzione a Leone VI appare abbastanza dubbia - l'immagine dell'imperatore è assai differente dalle altre conosciute e lo stile delle figure appare molto diverso da quello dell'epoca in questione - e altre ipotesi di identificazione sono state recentemente avanzate dagli studiosi: Weitzmann (1971b) ha proposto infatti il nome di Leone V (813-820), mentre caratteri stilistici e particolarità iconografiche potrebbero portare anche all'identificazione dell'imperatore con Leone III Isaurico (717-741). In ambedue i casi l'opera sarebbe stata prodotta immediatamente a ridosso della fase più acuta della polemica iconoclastica e costituirebbe dunque un esempio ulteriore della continuità della produzione di immagini sacre anche in cerchie in diretta relazione con la massima autorità imperiale. Il tema dell'incoronazione imperiale divenne invece usuale nella produzione eburnea dalla metà del sec. 10° in poi, come è dimostrato dal frammento con il Cristo che impone la corona a Costantino VII Porfirogenito (Mosca, Gosudarstvennyj Muz. A.S. Puškina) o dalla tavoletta con l'incoronazione di Romano II (959-963) e di sua moglie Teofano (Parigi, BN, Cab. Méd.).Tra gli oggetti di uso profano, un posto particolare spetta senza dubbio ai cofanetti, scrigni talvolta di piccole dimensioni, destinati essenzialmente a contenere gioielli o oggetti preziosi, che costituivano essi stessi prezioso dono offerto in occasione di matrimoni o di ricorrenze particolari. I cofanetti in questione erano in genere realizzati in legno duro e pregiato (ebano, palissandro, mogano) rivestito di placchette eburnee variamente decorate. La loro produzione fu probabilmente continua nelle diverse epoche della storia bizantina, ma raggiunse un livello quantitativo e qualitativo assolutamente eccezionale intorno al sec. 10°, nel pieno fiorire di quella 'rinascenza macedone' che informò di sé molti aspetti della vita culturale e artistica di Costantinopoli e delle province. Nel gran numero di cofanetti conservati, integri o frammentari, spicca un gruppo omogeneo caratterizzato dalla presenza di riquadrature ornamentali decorate con rosette, talvolta inframezzate da medaglioni figurati. Le fasce a rosette inquadrano formelle di dimensioni variabili in cui sono raffigurati i soggetti più diversi, dalle figure animalistiche a quelle di uomini al lavoro, dalle immagini di santi a scene derivate della mitologia classica. L'esemplare più noto di questo gruppo, il c.d. cofanetto di Veroli, già nella cattedrale del paese laziale e ora conservato a Londra (Vict. and Alb. Mus.), databile tra la fine del sec. 10° e l'inizio dell'11°, presenta appunto sulle quattro facce e sul coperchio una serie di scene a tema mitologico, raccordate tra loro da un legame concettuale molto sottile: il programma iconografico sembra incentrato sulle manifestazioni dell'Eros (Beckwith, 1962; Weitzmann, 1971b) e presenta, tra le altre, scene tratte dai miti di Europa, di Ercole, di Fedra e di Ippolito. Il richiamo costante, tematico e stilistico, all'Antichità classica, associato a una nuova concezione lineare e ritmica della figurazione, lo stretto rapporto iconografico con le contemporanee miniature prodotte nello scriptorium costantinopolitano (in particolare con il Rotulo di Giosuè; Roma, BAV, Pal. gr. 431), il carattere di oggetto prodotto per quell'aristocrazia potente e colta che dominava l'impero sin dall'epoca di Basilio I (867-886), fanno di quest'opera quasi un programma delle correnti culturali che si incontrano nell'arte bizantina di questo periodo.Accanto ai cofanetti vennero prodotti altri contenitori per uso privato o domestico, in particolare sono attestate scatole per unguenti profumati e medicamentosi, che presentano tratti di raffinata decorazione a carattere miniaturistico, come per es. la piccola pisside circolare (diametro cm. 4,2; altezza cm. 3) con i ritratti della famiglia dell'imperatore Giovanni VII Paleologo (1390; Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.). Altri oggetti con diversa funzione, come l'impugnatura di spada con la raffigurazione di Dioniso, databile al sec. 6° e conservata nella stessa collezione, testimoniano che l'a. venne inoltre utilizzato, accanto all'osso, più facilmente reperibile e assai meno costoso, nella produzione di oggetti di uso comune (pettini, spilloni, manici per coltelli e rasoi, supporti per specchi) che avessero un certo pregio estetico.
Bibl.: R. Delbrueck, Die Consulardiptychen und verwandte Denkmäler, 2 voll., Berlin 1929; A. Goldschmidt, K. Weitzmann, Die byzantinischen Elfenbeinskulpturen des X.-XIII. Jahrhunderts, I, Kästen; II, Reliefs, Berlin 1930-1934; K. Wessel, La cattedra eburnea di Massimiano e la sua scuola, CARB 4, 1958, pp. 145-160; J. Beckwith, The Veroli Casket, London 1962; D. Talbot Rice, The Ivory of the Forty Martyrs at Berlin and the Art of the twelfth Century, Zbornik Radova Vizantoloskog Instituta 8, 1963, pp. 275-279; K. Weitzmann, Die byzantinischen Elfenbeine eines Bamberger Graduale und ihre ursprüngliche Verwendung, in Studien zur Buchmalerei und Goldschmiedekunst des Mittelalters. Festschrift für K. H. Usener, Marburg a.d.L. 1967, pp. 11-20; C. Delvoye, Les ivoires paléobyzantines, CARB 14, 1971, pp. 191-220; K. Weitzmann, An Ivory Diptych of the Romanos Group in the Hermitage, VizVrem 32, 1971a, pp. 142-155 (rist. in id., Byzantine Book Illumination and Ivories, London 1980); id., Ivory Sculpture of the Macedonian Renaissance, "2. Kolloquium über spätantike und frühmittelalterliche Skulptur, Heidelberg 1970", Mainz 1971b, pp. 1-12; id., Catalogue of the Byzantine and Early Medieval Antiquities in the Dumbarton Oaks Collection, III, Ivories and Steatites, Washington 1972; W.F. Volbach, Elfenbeinarbeiten der Spätantike und des frühen Mittelalters, Mainz 19763 (1916); id., Avori di scuola ravennate del V e VI secolo, Ravenna 1977; N. Oikonomidès, John VII Palaeologus and the Ivory Pyxis at Dumbarton Oaks, DOP 31, 1977, pp. 329-337; K. Corrigan, The Ivory Scepter of Leo VI. A Statement of Post-Iconoclastic Imperial Ideology, ArtB 60, 1978, pp. 407-416; A. Guillou, Deux ivoires constantinopolitains datés du IXe et Xe siècle, in Byzance et les Slaves. Mélanges I. Dujcev, Paris 1979, pp. 207-211; A. Cutler, The Making of Justinian Diptychs, Byzantion 54, 1984, pp. 75-115; id., On Byzantine Boxes, JWaltersAG 42-43, 1984-1985, pp. 32-47; id., The Craft of Ivory. Sources, techniques, and uses in the Mediterranean world: A.D. 200-1400, Washington 1985; A. MacGregor, Bone, Antler, Ivory and Horn. The Technology of Skeletal Materials since the Roman Period, Beckenham 1985; F. de' Maffei, Tradizione ed innovazione nei dittici eburnei: Giuliano, Pulcheria, Giustiniano, Rivista di Studi Orientali 60, 1988, pp. 89-139.E. Zanini
La lavorazione dell'a. vantò in Siria e in Egitto una lunga tradizione che si protrasse durante il periodo islamico. In altri paesi tale attività si manifestò sporadicamente, in relazione alla richiesta e alla disponibilità del materiale.La principale fonte dell'a. era l'Africa centrale e orientale. È improbabile che nel Medioevo l'India esportasse il proprio a., la cui quantità era appena sufficiente per i bisogni del paese. In genere veniva impiegata la zanna d'elefante, ma qualche volta, soprattutto in Egitto, si sostituiva l'a. con l'osso.La natura e le dimensioni della zanna d'elefante ne limitavano l'impiego. Piccoli oggetti, come scatolette e pezzi di scacchi, erano ricavati per intero dal blocco. Oggetti più grandi, come scatole di maggiori dimensioni e pissidi (scatole cilindriche), erano costituiti da pezzi singoli tenuti insieme di solito da pioli dello stesso materiale. Le tecniche per decorare con l'a. una superficie di legno erano due: l'intarsio, in cui la lamina tagliata nella forma richiesta veniva inserita nella incisione e l'incrostazione, in cui la lamina d'a. era attaccata alla superficie. Le tecniche di decorazione consistevano nel rilievo, nell'intaglio, nella pittura policroma e nella doratura.Periodo omayyade e abbaside (secc. 8° - 10°)
I primi oggetti islamici in a. furono prodotti in Siria, in Egitto e probabilmente in Mesopotamia nel periodo omayyade (661-750 d.C.). Tre pissidi, due d'a. e una di osso, e un bel pannello (Atene, Benaki Mus.; Kühnel, 1971, nrr. 1, 5) sono decorati con tralci di vite in rilievo che escono da un vaso: un motivo originariamente greco-romano che sopravvisse nel primo periodo islamico caratterizzando, per es., la decorazione della facciata del palazzo omayyade di Mshattá in Giordania. Piccole placche, sia d'a. sia di osso, decorate con analoghi motivi, sono state trovate in Egitto e attribuite ad artigiani copti dei secc. 7° e 8° (Bahgat Bey, Gabriel, 1921, tav. XXVIII).Una pisside a coperchio conico nella chiesa di St. Gereon a Colonia, decorata a puntini e anelli riempiti di pigmenti neri e rossi, è importante perché, grazie alla dedica a un governatore dello Yemen, iscritta in arabo corsivo, è riferibile ad Aden verso la metà del sec. 8° (Kühnel, 1971, nr. 18). Non si conoscono in questo periodo altri casi di lavorazione dell'a. nello Yemen e la pisside è probabilmente opera di un artigiano emigrato dalla Siria o dall'Egitto; da una di queste regioni sembra infatti provenire il gruppo di pezzi di scacchi 'astratti' anch'essi incisi da puntini e anelli con pigmento bruno (ivi, nrr. 9, 11, 13). Nel mondo islamico sono molto rari i pezzi di scacchi 'naturalistici'; sono attribuiti al primo periodo un elefante, un gruppo raffigurante un personaggio (forse un re) che cavalca un elefante e un gruppo equestre (ivi, nrr. 14-16). Il primo pezzo (Firenze, Mus. Naz. del Bargello) è scolpito con forte risalto plastico e, poiché la decorazione della gualdrappa richiama il I stile di Samarra, si è ipotizzato che provenisse dalla Mesopotamia e risalisse al 9° secolo. Il famoso pezzo raffigurante un re su un elefante, accompagnato da fanti e cavalieri (Parigi, BN; Kühnel, 1971, nr. 17), ha lo stesso stile delle sculture indiane del sec. 9°; resta poco chiara l'iscrizione alla base che lo dichiara lavoro di Yūsuf al-Bāhilī: una nisba tribale, ben attestata nel primo periodo islamico.In Egitto artigiani copti preservarono le tecniche dell'intarsio e dell'incrostazione. In un cimitero presso al-Fusṭāṭ sono stati ritrovati grandi pannelli di legno rettangolari, appartenenti a cenotafi (i tābūt arabi), decorati ad arcate con colonne e una composizione quadrata, costituita da un cerchio inscritto in una cornice di rettangoli ornati da incrostazioni (Monneret de Villard, 1938, pp. 10-11, tavv. XVI-XX), databili per lo stile della decorazione tra il 9° e il 10° secolo.
La corte di 'Abd alRaḥān III (912-961) e dei suoi successori offrì il mecenatismo necessario per l'impianto di una bottega regia di intagliatori dell'a.; dopo la caduta del califfato omayyade di Spagna, gli intagliatori d'a. trovarono protezione alla corte dei Dhu'l-Nūn (1028-1085) che regnavano a Toledo. Nulla si sa della provenienza di questi artigiani e nella penisola iberica non risulta una tradizione autoctona della lavorazione dell'avorio. È difficile spiegare l'apparizione improvvisa di un artigianato con uno stile così maturo e una tale padronanza tecnica, a meno di non ammettere che gli artigiani fossero emigrati dalla Siria o dall'Egitto o fossero abili discepoli degli intagliatori bizantini inviati dall'imperatore con il quale il califfo intratteneva relazioni amichevoli; ma né l'una né l'altra ipotesi sono pienamente accettabili. Delle opere prodotte dai laboratori di corte restano ventinove pezzi, tra cui molti capolavori risalenti al periodo tra il 950 e il 1050 ca. (Kühnel, 1971, nrr. 19-47). A tale numero vanno aggiunti quattro a. mozarabici, i bracci di una croce processionale portatile e quelli di un altare portatile, opera di cristiani arabizzati nella parte islamica della Spagna (ivi, nrr. 48-51). Oltre a questi ultimi, gli a. intagliati comprendono cofanetti con coperchi piatti o a piramide tronca e pissidi con coperchi a cupola. I coperchi sono tenuti fermi, nei cofanetti, da due graffe - una sola nelle pissidi - incardinate sul retro. Le graffe originali sono d'argento niellato con terminali lanceolati e sono attaccate all'orlo inferiore della scatola e al piano superiore del coperchio; sul lato frontale si trova una chiusura con cerniera. Caratteristica di tutti i pezzi è un rilievo, più o meno alto, intagliato su un singolo piano a fondo liscio. I cofanetti più piccoli sono ricavati da un unico blocco d'a.; gli altri sono costituiti da placche d'a. unite con pioli dello stesso materiale, eccetto il caso della grande scatola nel Mus. Catedralicio di Palencia (ivi, nr. 43) in cui le placche sono fissate a una cornice di legno. Un oggetto di grandissimo valore è la scatola per spezie del Mus. Arqueológico Prov. di Burgos che consiste di un dittico con cardini, intagliato in dieci compartimenti emisferici (ivi, nr. 19).Molti di questi lavori presentano iscrizioni in arabo, intagliate in scrittura cufica semplice o fiorita sull'orlo inferiore del coperchio. Contengono il nome del proprietario, la data e, in pochi casi, il luogo di fabbricazione e il nome dell'artigiano; è così possibile rintracciare la storia e lo sviluppo di questa produzione. Alcuni cofanetti (Kühnel, 1971, nrr. 19-30) sono dedicati a una figlia o alle figlie di 'Abd al-Raḥmān III e probabilmente erano destinati a contenere gioielli e ornamenti personali; una pisside nella Hispanic Society of America di New York (ivi, nr. 28) reca infatti un'iscrizione in versi arabi che loda la bellezza dell'oggetto e la sua funzione di portaprofumi.Durante il califfato vi furono due laboratori di corte per l'a., uno a Córdova, capitale dell'Andalūs, e l'altro a Madīnat al-Zahrā', sede della corte del califfo dalla sua fondazione nel 936 fino alla sua distruzione nel 1010. Destinatari degli a. erano il califfo al-Ḥakam II, membri della casa reale e dignitari dello stato. Dodici a. (Kühnel, 1971, nrr. 19-30) sono stati attribuiti alla bottega di Madīnat al-Zahrā' sulla base di due cofanetti le cui iscrizioni attestano che entrambi furono prodotti in quella città nel 966 (ivi, nrr. 23, 24). Il pezzo più antico è il dittico del Mus. Arqueológico Prov. di Burgos, dedicato a una figlia di 'Abd al-Raḥmān III mentre questi era ancora in vita e quindi precedente al 962. Da un punto di vista stilistico si tratta di opere tra loro omogenee: la fitta decorazione consiste soprattutto di ornamenti vegetali, mezze palmette o palmette intere, quadrifogli e bacche su un fusto continuo simmetricamente disposto intorno a un asse verticale. Una caratteristica particolare è l'intaglio preciso della seghettatura e della venatura delle foglie. In tre esemplari sono inseriti nella decorazione coppie di uccelli e animali affrontati o uno dietro l'altro (ivi, nrr. 22, 29, 30); due a. portano il nome dell'artigiano, Khalaf (ivi, nrr. 23, 27).Altri nove a. (Kühnel, 1971, nn. 31-39) sono distinti dagli a. di Madīnat al-Zahrā'; tra questi, i pezzi datati vanno dal 968 al 1005. La loro composizione decorativa è strutturata in cartouches, di solito nella forma di due quadrifogli intrecciati l'un l'altro con il nastro che incornicia il tutto. Questi cartouches sono destinati a scene di festini con musica, di caccia, di giostre e combattimenti di animali o di uccelli. L'ornamento vegetale ricorre soprattutto tra una scena e l'altra. Gli esemplari più notevoli sono una pisside, al Louvre (ivi, nr. 31), e un grande cofanetto che un tempo si trovava nella cattedrale di Pamplona (ivi, nr. 35). Nella pisside del Louvre, eseguita per un figlio di ῾Abd al-Raḥmān III, compaiono quattro cartouches di doppi quadrifogli sia sul coperchio sia di lato; di questi ultimi, uno è riempito dalla figura di un musicista in piedi affiancato da due persone sedute su una predella sorretta da due leoni, gli altri da coppie di cavalieri ai due lati di una palma da cui colgono i datteri, da due uomini che afferrano un nido contenente un'aquila e infine da una coppia di leoni che attacca un bufalo, il tutto disposto specularmente. Altri esseri animati, il pavone da solo in posizione frontale e con ruota, uccelli e varia selvaggina, coppie di capre che si affrontano, coppie di falconieri, lottatori e grifoni, figurano all'interno della decorazione vegetale che colma gli spazi tra le scene. Nel cofanetto di Pamplona, eseguito nel 1005 per il figlio dello ḥājib al-Mansūr, la decorazione è ricca come quella della scatola del Louvre: presenta dieci cartigli a doppio quadrifoglio sul coperchio ove si affollano coppie di animali, reali e fantastici, insieme a cavalieri intenti alla caccia, e dieci cartigli sui lati lunghi, con scene di giostra, di leoni che attaccano un uomo che si difende con spada e scudo, e tre scene di festini e di musici su una predella sorretta da una coppia di leoni. All'interno del coperchio si trova l'iscrizione che la qualifica come "lavoro di Faraj e dei suoi allievi" e almeno quattro firme sono apposte in varie parti della decorazione.Dopo la caduta del califfato omayyade gli artigiani dell'a. trovarono asilo a Cuenca in Castiglia, città che dal 1020 era soggetta ai Dhu'l-Nūn di Toledo. Alla bottega di Cuenca sono attribuiti otto a. intagliati e gli esemplari datati vanno dal 1026 al 1050; uno di essi è dedicato al figlio del sovrano, al-Ma'mūn (1037-1075). Un maestro artigiano, Muḥammad ibn Zayyān, e un suo fratello o figlio sono gli autori di due cofanetti (Kühnel, 1971, nrr. 40,43). Gli a. di Cuenca continuano la tradizione di Madīnat al-Zahrā' e di Córdova, conservando la decorazione vegetale dell'una (ivi, nr. 42) e gli animali e le figure umane dell'altra, presentate non in cartigli ma in piccoli riquadri orizzontali o verticali. La decorazione è monotona e la tecnica è inferiore.Córdova fu famosa nel più tardo periodo omayyade per le sue incrostazioni d'avorio. Il minbar d'a. incrostato eseguito per la Grande moschea non esiste più e l'esemplare più raffinato che rimane dell'artigianato di Córdova è il minbar eseguito per la moschea del Kutubiyya di Marrakech tra il 1125 e il 1130 (Terrasse, Basset, 1926, pp. 119-128; tavv. XL-XLIV; Ferrandis, 1935-1940, II, nr. 159; Sourdel-Thomine, Spuler, 1973, tavv. 230-231). La tecnica è simile a quella del mihrāb .a mosaico della Grande moschea di Córdova, opera di mosaicisti bizantini. Cubi di legno e d'a., alcuni dipinti, sono incrostati a scacchiera e formano fasce che incorniciano dei poligoni intrecciati racchiudenti a loro volta arabeschi intagliati; attorno al complesso girano, a formare una bordatura, iscrizioni eburnee in corsivo. Gli a. di Córdova costituirono il modello dei minbar dell'Africa settentrionale, come quelli della moschea della Qaṭaba di Marrakech (Terrasse, Basset, 1926, pp. 244-270; Ferrandis, 1935-1940, II, nr. 160) e della madrasa Bū ῾Ināniyya a Fez (Terrasse, Hainaut, 1925, tav. XLIV).Nella Spagna islamica l'arte dell'incrostazione continuò probabilmente in Andalusia. Tre scatole rettangolari con coperchi a piramide tronca, decorate con incrostazioni d'a. (Ferrandis, 1935-1940, II, nrr. 161-163), sono state attribuite al 13° secolo. In due di esse la decorazione consiste in grandi tondi che racchiudono animali e figure umane disposte in un certo ordine, come negli a. intagliati di Córdova, secondo una simmetria rigidamente speculare. La tecnica dell'incrostazione era praticata anche nel regno di Granada dei Nasridi nel sec. 14° ed è testimoniata da due magnifici sportelli di credenza in una casa privata di Granada (ivi, nr. 167; Sourdel-Thomine, Spuler, 1973, tav. 301). Sempre da Granada proviene una grande scatola rettangolare decorata con disegni a forma di stelle intrecciate in a. colorato e diversi tipi di legno (Ferrandis, 1935-1940, II, nr. 172).
Forma e repertorio iconografico e decorativo di taluni olifanti e cofanetti d'a. molto devono all'arte islamica del 10° e 11° secolo. In Occidente molti di essi sono conservati nei tesori delle chiese, mentre in Oriente non ne è stato rinvenuto alcuno. È perfino dubbio se l'uso dell'olifante come corno da caccia o come recipiente per bere fosse conosciuto nel mondo islamico. Le estremità superiore e inferiore degli olifanti sono intagliate in rilievo su un solo piano a fondo liscio, bordato da volute di foglie d'acanto e animali ispirati allo stile islamico, mentre il corpo principale è privo di decorazioni. Soltanto l'olifante conservato ad Aquisgrana (Domschatzkammer; Kühnel, 1971, nr. 55) potrebbe essere di lavorazione islamica. In un altro gruppo di olifanti la decorazione è intagliata nella fascia centrale con tondi intrecciati, ciascuno dei quali racchiude un uccello o un animale, reale o fantastico; alcuni appartengono al repertorio islamico ma altri provengono dal bestiario romanico e nessuno di essi può essere ritenuto con certezza un lavoro musulmano.Cofanetti decorati con stile e tecnica analoghi (Kühnel, 1971, nrr. 82-87) si trovano soltanto in Occidente, ma almeno due di essi possono essere prodotti dell'artigianato islamico: in particolare un cofanetto al museo dell'Ermitage di Leningrado (ivi, nr. 83), in cui la decorazione è intagliata a giorno, anticipando così la tecnica degli squisiti pannelli d'a. dell'Egitto fatimide. È stata avanzata l'ipotesi che gli olifanti e i cofanetti siano stati intagliati tra il sec. 10° e il 12° nell'Italia meridionale, probabilmente ad Amalfi, ritenuta un centro di lavorazione dell'a., il cui esemplare più famoso è il paliotto nel Mus. Diocesano di Salerno. Amalfi, per i suoi rapporti commerciali con l'Egitto, era aperta alle influenze islamiche ed è probabile che nella città lavorassero intagliatori d'a. musulmani. L'ipotesi può essere avvalorata da un astuccio per penna d'a. al Metropolitan Mus. of Art di New York (ivi, nr. 86), che appartiene alla stessa serie di oggetti: il nome del donatore o del proprietario, "Taurus Mansonis", vale a dire Tauro figlio di Manso, è inciso rozzamente, a quanto pare, da un artigiano cui il latino era poco familiare e che pertanto era probabilmente un musulmano. Anche se non è possibile identificare in particolare questo specifico Taurus è però certo che la famiglia Mansoni ebbe una parte preminente negli affari di Amalfi nel 10° e 11° secolo.
L'ipotesi che gli intagliatori d'a. musulmani di Amalfi provenissero dall'Egitto non sembra valida perché non esiste una connessione evidente tra gli a. intagliati dell'Italia meridionale e quelli dell'Egitto tra il 10° e l'11° secolo. Questi ultimi, opera di artigiani copti e musulmani, sono pannelli d'a. o di osso, di varie forme e dimensioni, ritrovati quasi tutti nelle rovine del Fusṭāṭ (Kühnel, 1971, nrr. 91-127). Per lo più essi presentano un repertorio limitato di uccelli e altri animali e più raramente figure umane con una decorazione a volute su fondo liscio. In genere sono di qualità mediocre ed essendo destinati alla decorazione di cofanetti o mobilio erano strettamente connessi con gli intagli in legno del periodo fatimide. Vi è tuttavia un piccolo gruppo di pannelli d'a. rettangolari dei secc. 11° e 12° di qualità eccellente, intagliati a giorno su due piani con consumata abilità e sicurezza. Quattro pannelli attualmente negli Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Islamische Kunst di Berlino (ivi, nr. 88), formano una cornice rettangolare che forse un tempo decorava lo schienale di un trono; sono intagliati con scene della vita di corte (caccia, festini, concerti), osservate con acutezza e particolare attenzione ai dettagli dell'abbigliamento e al disegno dei tessuti. Le figure minute si muovono su uno sfondo di tralci di vite in volute regolari che aggiungono profondità alla composizione. Al Louvre si trovano altri due pannelli strettamente collegati a quelli di Berlino per l'analogia dei soggetti (ivi, nr. 89). Ancora più notevoli sono sei pannelli, uno orizzontale e cinque verticali, al Mus. Naz. del Bargello di Firenze (ivi, nr. 90); destinati probabilmente a decorare un cofanetto, sono alquanto più grandi degli altri e rappresentano scene di caccia e di vendemmia. Si è ipotizzato che due di questi pannelli raffigurino i Lavori dei mesi per indiscutibili somiglianze con le sculture di identico soggetto del portale della basilica di S. Marco a Venezia (Kühnel, 1971, pp. 70-71); si tratterebbe dell'unico esempio di questa iconografia nell'arte islamica. I sei pannelli sono tutti paragonabili, per la composizione e le pose, ai famosi pannelli lignei del palazzo d'Occidente dei Fatimidi (Cairo, Mus. of Islamic Art; Pauty, 1931, tavv. XLVI-LVIII; Kühnel, 1971, p. 68, fig. 55). Un rapporto ancora più stretto si riscontra con un pannello verticale in legno intagliato a giorno (Parigi, Louvre; Kühnel, 1971, p. 69, fig. 56).Un importante cofanetto (Madrid, Mus. Arqueológico Nac.) è quello in legno bordato di pannelli dipinti a spirale in verde e rosso; un'iscrizione araba a intarsio sul coperchio, attestante che il cofanetto fu fabbricato in al-Manṣūriyya, presso Kairouan, per il califfo al-Mu'izz, l'ultimo dei Fatimidi a governare l'Occidente da Ifriqiya (corrispondente all'od. Tunisia), consente di datarlo tra il 953 e il 975 (Ferrandis, 1935-1940, II, nr. 9). La nisba dell'artigiano al-Khurāsānī indica che questi era originario della Persia orientale, anche se sicuramente apprese la sua arte in Egitto.Il cofanetto in legno - con estremità arrotondate e coperchio a cupola - conservato nella Cappella Palatina di Palermo (Monneret de Villard, 1938, tavv. I-V; Gabrieli, Scerrato, 1979, pp. 471-473) presenta incrostazioni di a. e mastice ed è decorato da uccelli e altri animali, sfingi e coppie di figure situate nelle volute, mentre versi in arabo esaltano la bellezza dell'oggetto. L'uso del mastice era già sviluppato nel periodo fatimide, ma la scatola probabilmente è del tardo 12° o dei primi anni del 13° secolo. Nel periodo mamelucco sembra che all'incrostazione sia subentrato l'intarsio il cui uso può essere stato determinato dal famoso minbar eseguito ad Aleppo su commissione del sovrano zengide Nūr al-dīn nel 1168-1169 per la sua Grande moschea e trasportato da Saladino nella Masjid al-Aqsā di Gerusalemme dopo la conquista dei crociati. La decorazione del minbar - la cui forma divenne canonica in Siria e in Egitto - è costituita da pannelli poligonali di legno, alcuni con inserzioni di a. e di madreperla formanti stelle a otto punte incorniciate da fasce d'a. intarsiato e da iscrizioni naskhī d'a. (Saladin, 1907, fig. 28; van Berchem, 1920-1927, II, pp. 393-402; III, tavv. XXIX-XXX). La stessa tecnica decorativa fu adottata per leggii del Corano, scatole, minbar, dikka e porte del periodo mamelucco, quando i pannelli d'a. erano anche intagliati in rilievo con arabeschi e iscrizioni in thulth (Hautecoeur, Wiet, 1932, II, figg. 113, 136, 162, 172-173, 175, 198, 200, 209, 211; Sourdel-Thomine, Spuler, 1973, tavv. 309).
Nessuno, dei circa duecentoventi a. che formano un gruppo più o meno omogeneo, è stato trovato fuori dell'Europa; un centinaio di essi è conservato nei tesori delle chiese dell'Europa occidentale. Si tratta di cofanetti rettangolari con coperchi piatti o a piramide tronca, alcuni ovali con coperchi a cupola, pissidi con coperchi piatti, pettini, pastorali; tutti presentano decorazioni policrome, spesso ravvivate da dorature. I cofanetti e le pissidi sono forniti di manici di metallo dorato con terminazioni lanceolate e chiusure. La dimensione dei cofanetti varia da cm. 10 a cm. 48,5 di lunghezza. La pittura è eseguita con pigmenti rossi e verdi e più raramente azzurri sciolti in acqua; i profili e i dettagli interni sono in nero; la doratura, a foglia, nella maggior parte dei casi non si è conservata. Nella composizione decorativa predomina il tondo sempre inciso con il compasso e riempito di figure geometriche, arabeschi, uccelli, fra cui spesso il pavone, altri animali e figure umane; il repertorio è quello dell'arte islamica dei secc. 12° e 13° con poche eccezioni, quali la presenza di Cristo e dei santi. I tondi, che possono figurare singoli, in coppia o talora anche in gruppi di vario numero, sono isolati e in nessun caso intrecciati l'un l'altro come i cartigli degli a. intagliati della Spagna islamica. Rosette o ramoscelli fioriti, nonché uccelli, altri animali e figure umane, sono spesso raffigurati isolatamente, con o senza la decorazione a tondo; in qualche raro caso compaiono le scene in miniatura. Molti cofanetti e pissidi sono decorati da iscrizioni in arabo sull'orlo inferiore del coperchio, in caratteri cufici o naskhī: si tratta di frasi di benedizione rivolte al proprietario oppure di versi d'amore. Nessuna di esse costituisce tuttavia una dedica di carattere storico e se ne deve desumere che gli a. dipinti siano il prodotto non di laboratori regi, ma piuttosto di botteghe che soddisfacevano la domanda di una larga clientela. Anche se si trovano nei tesori delle chiese occidentali come reliquiari o come ricettacoli sicuri per documenti di valore, i cofanetti in origine erano destinati a uso profano, probabilmente come doni in occasione di nozze.Gli a. dipinti sono abbastanza omogenei per forma, metodo di lavorazione e stile generale della decorazione, tanto da far pensare che provengano da un'unica regione; alcune variazioni nel modo di trattare l'oggetto possono tuttavia denotare l'esistenza di diverse botteghe con differenti gradi di sviluppo. Si è tentato di raggrupparli secondo le varie formule delle iscrizioni, mancanza della decorazione a tondo o varianti nell'esecuzione dei motivi comuni (Pinder-Wilson, Brooke, 1973, pp. 275-285).Strettamente connessi per forma e costruzione appaiono circa venti a. che includono cofanetti, pissidi e terminali di pastorali in cui la decorazione dipinta è sostituita da ornamenti incisi, distribuiti in misura piuttosto sobria e consistenti in croci, stelle e uccelli. Tali ornamenti sono formati da minuscoli cerchi incisi sulla superficie dell'a. e riempiti di pigmento verde o rosso secondo una tecnica già nota nel periodo abbaside (Pinder-Wilson, Brooke, 1973, pp. 285-286). Un importante pezzo del gruppo è il cofanetto ovale nella cattedrale di York, che per ragioni storiche non può essere anteriore al 1148 (ivi, tavv. LXXXa, b, LXXXIa, pp. 295-297, 299-301); probabilmente tutto il gruppo può essere assegnato alla seconda metà del 12° secolo. L'unico altro cofanetto ovale di questo gruppo è conservato a Trento (Mus. Diocesano Tridentino) e poiché combina la decorazione dorata di croci greche, uccelli e arabeschi con circoli incisi, colorati in nero o rosso, costituisce l'elemento di congiunzione tra gli a. incisi e quelli dipinti (Cott, 1939, nr. 101).Gli a. dipinti in genere sono datati tra la seconda metà del sec. 12° e la prima del 13°. L'esemplare più antico che si conosca è il c.d. reliquiario di S. Petroc a Bodmin (Cornovaglia), menzionato per la prima volta nel 1177, mentre degli altri esiste memoria dal 1215 al 1309 (Pinder-Wilson, Brooke, 1973, pp. 286-287). La provenienza degli a. è tuttavia ancora controversa e dovrebbe essere indagata sulla base dello stile e delle caratteristiche. Sono nella maggior parte oggetti non privi di grazia che, pur senza le aristocratiche pretese degli a. spagnoli, dovettero avere un loro fascino 'popolare', come risulta evidente dal largo numero di pezzi conservati. L'iconografia degli a. che presentano la decorazione a tondo, con o senza iscrizione, ricalca in larga misura quella dei lavori fatimidi e spagnoli, ma il modo di lavorare la materia e di organizzare la decorazione non è del tutto conforme ai canoni osservati nei maggiori centri artistici del mondo islamico e fa pensare piuttosto a un centro di produzione al di fuori della principale corrente dell'arte islamica. Diez (1910) ha formulato la tesi non convincente di un'origine siriana; Monneret de Villard (1950, pp. 29-30) ha paragonato la decorazione di due cofanetti d'a. (Cott, 1939, nrr. 41, 42) a quella della ceramica persiana mīnā'ī del tardo sec. 12° e del 13°, nella convinzione che quegli a. fossero stati prodotti in Mesopotamia. Kühnel (1914) li ha attribuiti alla Sicilia, motivando la sua tesi con l'iconografia e le circostanze storiche e citando somiglianze con i dipinti della Cappella Palatina e i mosaici, i tessuti e il legno intagliato della Sicilia normanna. Si possono istituire paralleli anche con la ceramica dipinta della seconda metà del sec. 12°, l'unica altra arte 'popolare' che sia sopravvissuta. La Sicilia, sotto il governo dei Normanni e degli Hohenstaufen, con la popolazione che in parte era costituita da musulmani, offriva certo l'ambiente propizio allo sviluppo di un'industria dell'a. isolata rispetto ai principali centri di produzione del mondo islamico. È vero che gli elementi cristiani della decorazione avrebbero potuto essere presenti anche in Mesopotamia, Siria ed Egitto, ma è assai improbabile che in questi paesi potessero essere prodotti dei pastorali. Neanche la Spagna musulmana offriva condizioni più favorevoli; inoltre gli a. dipinti non mostrano quasi traccia dello stile almoravide.Volendo prendere in considerazione la provenienza siciliana, è tuttavia improbabile che le botteghe siano rimaste ancora attive durante il sec. 13°, data la crisi della popolazione musulmana dell'isola che, dopo la ribellione del 1221, andò in gran parte dispersa nell'Africa settentrionale. Un'alternativa alla Sicilia è l'Italia meridionale, dove ad Amalfi, come si è detto prima, gli artigiani musulmani dell'a. potevano aver operato accanto a quelli cristiani nel sec. 10° e nei primi anni dell'11°, partecipando alla produzione di olifanti e cofanetti; tanto più che le città marittime dell'Italia meridionale erano sempre più impegnate nei traffici con il Levante e l'Egitto e una disposizione del re angioino Carlo II del 1301 afferma chiaramente l'esistenza di molti musulmani che esercitavano la loro arte nell'Italia meridionale (Pinder-Wilson, Brooke, 1973, p. 297).
Soltanto due opere d'a. intagliato sono state attribuite all'Iran nel periodo antico e medievale. La prima è un astuccio rettangolare per penna (Bruxelles, Coll. Stoclet): sui lati presenta delle arcate intagliate in rilievo e sul coperchio tre tondi intrecciati, di cui quello centrale rappresenta Bahrām Gūr sul cammello che insegue una lepre e quelli laterali contengono un senmurv. Il pezzo è stato attribuito variamente all'ultimo periodo sasanide oppure al sec. 10° (von Falke, 1928, p. 145). La seconda opera è il rovescio di uno specchio dove sono intagliati in rilievo una coppia di uccelli contrapposti dorsalmente con le penne della coda che s'incrociano (Kühnel, 1971, nr. 128), datato tra il 10° e l'11° secolo.Esistono esempi coevi dell'intaglio di a. e di ebano nella regione di Isfahan durante il sec. 13° e si è ipotizzata un'industria locale dell'intarsio della quale, sfortunatamente, non si è salvato alcun prodotto (Monneret de Villard, 1938, p. 15). L'esistenza di una tradizione dell'intarsio è confermata dalle due porte di legno intarsiate in a. di Gūr-i Mīr, Samarcanda, ora conservate nell'Ermitage a Leningrado e che probabilmente sono un lavoro persiano dei primi anni del sec. 15° (A Survey of Persian Art, 1939, fig. 1470).
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