AVENTINO
. L'Aventino passa comunemente per uno dei sette colli della Roma primitiva, mentre in realtà entrò a far parte della compagine della città fortificata in età relativamente tarda essendo distaccato dalle altre colline; tuttavia per la sua posizione eminente e a dominio del passaggio del fiume, fu sempre dai Romani custodito con particolare riguardo, e in una certa epoca si sentì il bisogno di includerlo entro le mura. Quando ciò sia avvenuto è discusso. La tecnica di quel tratto di muro che resta presso il viale Aventino si può attribuire al sec. III o al massimo al II a. C mentre l'arco in alto è posteriore e va messo in relazione con i restauri apportati alle mura e alle porte (87 a. C.) per l'installazione di grosse macchine da getto (cfr. App., Bell. civ., I, 66).
Il colle ha due sommità, chiamate già dagli antichi Aventinus Maior e Aventinus Minor: la prima, quella dove sorgono le chiese di S. Prisca, di S. Sabina, di S. Alessio, di S. Maria del Priorato e di S. Anselmo, con annesso convento dei benedettini; la seconda, divisa dalla prima per mezzo di una stretta valle nella quale passava il vicus Portae Raudusculanae, oggi via di Porta S. Paolo, vanta la bella chiesa di S. Saba e la chiesa di S. Balbina, fondata entro un'aula della casa di Fabio Cilone.
Sembra che in origine soltanto la prima sommità avesse il nome di Aventino (Enn., apud Cic., De div., I, 107), ma che della seconda fosse ignoto il nome.
L'abbinamento di ambedue sotto una denominazione comune avvenne forse quando le mura le unirono al resto della città. Nei primi tempi dell'età regia, cioè durante l'egemonia della Roma Quadrata, l'Aventino era sotto l'influenza di questa, e ne costituiva una specie di colonia, il cui territorio era stato dichiarato ager publicus; quando Servio Tullio divise la città in quattro tribù, lo lasciò fuori del pomerio, e in tale condizione rimase fino al tempo di Claudio: fatto strano, che neppure gli antichi scrittori sapevano spiegare. Il Braun suppose che il monte fosse stato la primitiva necropoli di Roma e perciò ritenuto per lungo tempo luogo funesto. Il Niebuhr credette di spiegare quest'anomalia col fatto che ivi sorgeva il tempio di Diana, innalzato dai popoli partecipanti alla Lega latina, e poiché tale tempio aveva carattere federale, non poteva essere incluso in territorio esclusivamente romano. Il Mommsen pensò invece a motivi d'ordine strategico e militare; infine il Gilbert immaginò che il colle avesse in origine una cinta sacra particolare e indipendente, che fu rispettata dai Romani anche quando esso cadde in soggezione della Roma Quadrata.
I frammenti del muro di cinta che sono stati scoperti in varie epoche permettono di stabilire a grandi linee i confini e l'aspetto del colle in antico: il Grande Aventino aveva la forma di un trapezio cinto di mura per due lati soltanto, gli altri due essendo collegati alla città. Dove aveva inizio la stretta fra il monte e il fiume si trovava la Porta Trigemina (piazza di Bocca della Verità); nel lato che guarda l'odierna via Marmorata era la Porta Lavernalis, attraverso la quale passava il Vicus Armilustri che solcava tutto il colle, seguendo il percorso della moderna via di S. Sabina e scendendo poi lungo il versante opposto: qui si riuniva col Clivus Publicius, che attraversava anch'esso il colle in direzione del Piccolo Aventino. La Porta Raudusculana era situata nell'insenatura fra le due sommità sulla via omonima.
Nel Piccolo Aventino abbiamo ricordo di una porta soltanto, la Porta Naevia verso levante, nel vicus Portae Naeviae, che si staccava dal vicus Piscinae Publicae e, dopo avere attraversato il colle, usciva dalle mura dando origine alla via Ardeatina.
Per la sua natura e per la sua posizione il colle fu considerato fin da età remota come luogo religioso, e perciò vi furono eretti numerosi templi dedicati alla Bona Dea, a Silvano, a Giove Dolicheno, a Giunone Regina, a Minerva, a Flora, a Cerere, a Mercurio e soprattutto a Diana.
La fondazione di questo tempio veniva attribuita dalla tradizione (Liv., I, 45; Dionys., IV, 25 seg.) a Servio Tullio, che avrebbe fatto del santuario il centro religioso della Confederazione latina ricostituita sotto l'egemonia di Roma. Certo nella Diana Aventinense tornano tutte o molte delle caratteristiche della Diana Aricina, che già da antichi tempi era uno dei santuarî più venerati dei popoli latini; solo l'immagine della dea sembra s'avvicinasse piuttosto al tipo dell'Artemide orientale, e precisamente dell'Artemide Efesia. Ma poiché l'egemonia di Roma sul Lazio non poté dirsi assicurata che circa la metà del sec. IV a. C., anche il tempio non si deve ritenere più antico di tale età. A detta di Dionigi nel tempio era conservata, ancora al suo tempo, la stele di bronzo con scritti i patti stretti fra Roma e le città latine; la festa si celebrava alle idi (giorno 13) di agosto e aveva carattere popolare.
Nei primi anni dell'impero il tempio fu ampliato e restaurato da L. Cornificio, amico devoto di Augusto; e da lui la dea prese l'appellativo di Diana Cornificia; un frammento della Forma Urbis, se veramente si riferisce a questo tempio, ce ne dà la pianta.
Nessun avanzo emerge fuori dal terreno né di questo tempio né degli altri sopra ricordati, come neppure delle terme Deciane, erette nel 252 dall'imperatore Decio, né delle terme Surane, così dette da Licinio Sura vissuto nell'età di Traiano.
Il quartiere ebbe per un certo tempo un carattere popolare, e questo spiega l'assenza di notevoli edifici pubblici, ma nell'impero ebbe invece palazzi signorili, quali appunto quello di Licinio Sura, quello in cui abitò Traiano prima di salire al trono imperiale, quelli degli Ummidî, di Fabio Cilone, ecc.; nella divisione della città in regioni fatta da Augusto, il Grande Aventino fu assegnato alla XIII regione e le dette anche il nome, mentre il Piccolo fece parte della XII (Piscina Pubblica). Un'iscrizione di questa età ricorda un Pagus Aventinensis, residuo di un'antica comunità religiosa della Roma primitiva, sullo stesso tipo del Pagus Ianiculensis e del Pagus Esquilinus.
Bibl.: E. De Ruggiero, Dizionario Epigrafico, Roma 1886, s. v.; H. Jordan-Ch. Hülsen, Topographie der Stadt Rom, Berlino 1878-1907, I, pp. 279 seguenti, III, pp. 152 segg.; A. Merlin, L'Aventin dans l'antiquité, Parigi 1906; E. Platner, T. Ashby, A topographical Dictionary of ancient Rome, Oxford 1929, s. v.
L'Aventino cristiano e medievale. - Le memorie dell'Aventino cristiano ci riportano in primo luogo alla "chiesa domestica" organizzata dalla vedova Marcella nella sua domus patrizia dell'Aventino; frequentata forse da S. Atanasio, esule a Roma fra il 339 e il 340, certo e a lungo da S. Girolamo, che ne dà testimonianza abbondante nell'epistolario. Lo frequentavano, oltre a Marcella, la vedova Lea, la vergine Asella, la vedova Paola con la figliuoletta Eustochia, Albina, Marcellina, Felicita, Principia, Feliciana.
Questo ritiro spirituale poteva essere non lontano da quel centro dove si vorrebbe fosse la domestica ecclesia di Aquila (v.) e Prisca, i coniugi cui S. Paolo rivolge il saluto nella lettera ai Romani (XVI, 3).
Un denso involucro di leggenda avvolge le origini del titulus aventinense, nel quale confluiscono tradizioni diverse: quella della Prisca fondatrice, onorata più tardi col titolo di santa, e commemorata il 18 gennaio; cioè nel giorno stesso in cui si commemorava la Prisca o Priscilla della regione Salaria; il gruppo Aquila e Prisca introdotto verosimilmente dai monaci greci nel sec. VIII; un corpo santo della regione ostiense, trasferito nel titolo e venerato come quello di S. Prisca vergine e martire.
Le testimonianze archeologiche sono relative a un oratorio cristiano e a resti di casa romana, scoperti davanti la chiesa e nell'orto adiacente. Il Cecchelli poté vedere tracce di un oratorio davanti la chiesa, ma le pitture gli apparvero non del secolo IV, come credeva E. Q. Visconti, ma notevolmente più tarde (fra il sec. IX e l'XI). Il De Rossi, sulla fede del Bianchini, parla d'un vetro cristiano con le immagini dei Ss. Pietro e Paolo, che sarebbe stato rinvenuto inter antiquae ecclesiae rudera prope S. Priscam. Nel sec. XVIII si raccolse presso S. Prisca un diploma di bronzo che conferisce, a nome d'una città iberica, il diritto di cittadinanza a un certo Gaio Mario Pudente Corneliano, ciò che ha fatto supporre rapporti molto antichi fra il titulus Priscae e la gens Cornelia abitante sulla Salaria (i Cornelî Pudenti) e il cemeterio di Priscilla, in cui sarebbero anche memorie dei Pudenti.
Un'altra leggenda, completamente elaborata nei secoli VIII-IX, narra di una Serapia antiochena e di sua figlia Sabina, martirizzate e sepolte in oppido Vendinensium: tal nome sembra corrotto e da correggere in Aventinensium. Anche per la chiesa di S. Sabina si ha nel sec. V il semplice appellativo di titulus Sabinae e, nei secoli posteriori, sanctae Sabinae. Come testimonianza archeologica, vi sono i resti di una casa romana del sec. III, scoperti sotto il livello della basilica del V. Questa fu eretta, come dice la grande iscrizione musiva dedicatoria, da Pietro d'Illiria, pontificando papa Celestino I (422-432). Ha forma basilicale, a tre navate e una sola abside. Fu restaurata da Leone III (795-816) e da Eugenio II (824-827), il quale anzi vi fece il nuovo setto presbiteriale e chiuse le finestre con transenne munite di lastre trasparenti di metallum gypsinum (selenite o calcite spatica). Negli ultimi restauri, come è stato ricomposto il recinto presbiteriale con gli sparsi frammenti, così sono state ripristinate le transenne sul modello rinvenuto in situ. Tracce della prima fase sono anche nelle belle tarsie al di sopra degli archi, poggiati sulle colonne che dividono le navate. Ma ornato magnifico di questa chiesa è la porta in legno scolpito, preziosissimo cimelio del sec. V, in cui ogni pannello ha una storia dell'Antico o del Nuovo Testamento. Davanti all'ingresso è ancora l'antico northex. Il prossimo convento di S. Sabina è sacro alle memorie domenicane. Vi sono ancora i ricordi della residenza di S. Domenico, e sappiamo che Onorio III concesse la chiesa all'Ordine. Bellissimo il chiostro, ora occupato dal Lazzaretto.
Il titolo di S. Balbina appare nelle sottoscrizioni del sinodo romano del 595; esso è forse tutt'uno con il titulus Tigridae, che appare nelle sottoscrizioni del 499 e poi sparisce. Forse nella Domus Cilonis posta sulle pendici del piccolo Aventino, ma già nella regione XII (Piscina Publica), fu importato il culto della fondatrice del Coemeterium Balbinae della Via Ardeatina. La basilica infatti è tuttora entro la grande aula di un edificio classico. Essa accosta un grande monastero medievale.
Sull'altura del Piccolo Aventino avrebbe soggiornato, secondo Giovanni Diacono, Santa Silvia madre di S. Gregorio Magno. Sul luogo sorse assai per tempo un centro monastico che poi si sviluppò grandemente per l'arrivo dei monaci emigrati dalla grande laura di S. Saba a Gerusalemme. Questo di Roma fu la Cella nova. Il monasterium Sancti Sabae ha grande parte nella storia di Roma. Gli scavi hanno accertato l'esistenza di una basilichetta del sec. VI, con pitture che vanno dal sec. VII al X e con sepolture monastiche. Le pitture raffigurano scene della vita di Cristo, santi, e persino ritratti di monaci. Succeduti ai monaci greci i benedettini, essi continuarono l'opera pittorica, ma poi fu necessario ricostruire la basilica a livello superiore, e questo dovette accadere poco dopo il mille. La basilica superiore contiene altre pitture e un bel recinto presbiteriale cosmatesco. Notevoli anche le tracce del chiostro, e originale la facciata con una grande loggia ad archetti.
Ma un più importante cenobio fu quello sorto sul Grande Aventino, là dove sin da tempo antichissimo era una chiesa dedicata al martire Bonifacio, di cui parla già il cosiddetto catalogo Salisburgense (sec. VII). Nel sec. X si aggiunse il culto di S. Alessio; Benedetto VII concedette il monastero nel 977 al metropolita greco Sergio, e i monaci basiliani che erano con lui diedero alla contrada il nome di Blachernae, dalla contrada omonima di Costantinopoli. Ai monaci greci si unirono dei latini sotto la regola di S. Benedetto, e finalmente Sergio stesso mutò la regola basiliana in quella benedettina. Ora, dopo i rifacimenti barocchi, poco più appare dell'antica basilica. Solo nella cripta sono affreschi notevoli che possono attribuirsi all'età di Onorio III (1216-1227).
Presso questo monastero è la chiesa di S. Maria de Aventino (ora S. Maria del Priorato, perché posta nella villa del Priore dei Cavalieri di Malta), che risulta dalla trasformazione della domus gentilizia di Alberico, principe dei Romani. Egli vi pose nel 939 dei monaci benedettini. Questo monastero fiorì moltissimo (specie nei secoli X e XI) e fu tra le venti abbazie della città; ma nel secolo XV scomparve. La chiesa fu nel sec. XVIII trasformata da G. B. Piranesi; essa non conserva di antico che un ciborietto con singolari intagli marmorei del sec. X-XI, che ricordano l'arte di maestro Iohannes de Venetia, scultore della porta di S. Maria in Cosmedin.
Importantissimi palazzi sorsero sul Grande Aventino nel Medioevo. Negli ultimi restauri di S. Sabina si scoperse un segmento d'architrave con l'iscrizione della casa di Teofilatto vesterario e Teodora, i noti personaggi romani del sec. X. È la stirpe dei nobiles de Aventino che hanno forse origini bizantino-ravennati. Decaduti costoro, vi si sostituiscono i Crescenzî. Il castello imperiale dell'Aventino poté sorgere sul luogo della casa teofilattiana. Sappiamo della residenza di Ottone III in questo sito, dove nel 1001 egli fu cinto d'assedio dai Romani (v. F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, trad. ital., II, Roma 1900, p. 131). Poi queste case aventinensi divengono possesso stabile dei Crescenzî, e da ultimo dei Savelli. La cinta del castello di S. Sabina ha tracce di varia epoca, ma specialmente dei secoli XIII-XIV, poiché vi predomina la costruzione a piccoli tufi, che è peculiare di quel periodo.
Resti di torri sono anche sul Piccolo Aventino. L'ultima costruzione sacra sul Grande Aventino è il grande cenobio benedettino di S. Anselmo (v. P. Spezi, Bibliografia delle chiese di Roma, p. 102), consacrato nel 1900.
Bibl.: Ch. Hülsen, Le chiese di Roma, Firenze 1927; G. P. Kirsch, Die römisch. Titelkirchen im Altertum, Paderborn 1918. Per la chiesa di S. Prisca: F. Lanzoni, in Riv. arch. cristiana, 1925, p. 247 segg.; G. B. De Rossi, in Bull. arch. crist., 1867, p. 44 segg.; per S. Sabina: F. Lanzoni, loc. cit.; J. J. Berthier, L'église de Sainte Sabine, Roma 1910; A. Muñoz, in Studi Rom., II, p. 329 segg.; id., La Basilique de Sainte Sabine, Milano 1919; id., L'église de Sainte Sabine à Rome, Roma 1924; I. Taurisano, Santa Sabina (nella collez. Le chiese di Roma illustrate, n. 11), Roma s. a.; per S. Balbina: F. Lanzoni, loc. cit. per S. Saba: M. E. Cannizzaro e I. C. Gavini, in Boll. d'arte Min. P. I., 1915, p. 129 segg.; H. Grisar, in La Civiltà cattolica, i giugno 1901, 21 sett. 1901, 18 genn. 1902; per S. Alessio: L. Duchesne, in Mélang. École franç. de Rome; X (1890), p. 227 segg.; A. Monaci, Regesto dell'Abbazia di S. Alessio, in Archiv. Soc. Rom. Storia Patria, XXVII (1904), p. 351 segg.; XXVIII (1905), pp. 151 segg., 395 segg.; L. Zambarelli, Santi Bonifacio e Alessio sull'Aventino (nella collez.: Le chiese di Roma illustrate, n. 9), Roma s. a.; ancora di grande valore è l'opera di F. M. Nerini, De Templo et coenobio Ss. Bonifacii et Alexi, Roma 1752; per S. Maria del Priorato: G. Tomassetti, in Bull. arch. com., 1905, p. 339.
Per la secessione della plebe sull'Aventino, e la rivolta che pose fine al dominio dei decemviri, e per i tumulti che condussero all'uccisione di Caio Gracco, v. romani: Storia. Sull'"Aventino della propria coscienza" dichiarò di essersi ritirata - e fu perciò chiamata Aventino - la "variopinta opposizione" antifascista, ben presto sconfitta, che tra il 1924 e il 1925 si astenne dal partecipare ai lavori della Camera dei deputati.