Autobiografia
L'interesse per l'a., in Europa e negli Stati Uniti, non solo si è fortemente accentuato nel generale rinnovamento dei metodi di analisi letteraria, ma anche, e soprattutto, è stato coinvolto dalla determinazione di ampie e mature prospettive storiografiche di lunga durata. Secondo G. Gusdorf, prima del Romanticismo il racconto della propria vita apparteneva alla storia della coscienza religiosa; e, poiché questa non ha confini nazionali, ne derivava che il trattare l'a. medioevale e quella rinascimentale costringendole all'interno di tali confini era da giudicarsi infondato. La posizione di Gusdorf, ormai anomala, si è dimostrata rivelatrice della tendenza antistoricistica di molta critica formale, non di quella, però, disposta al compromesso con i risultati dello storicismo rinnovatosi e rinfrancatosi dopo la lunga parentesi idealistica. Ph. Lejeune supera l'ostacolo, che Gusdorf definisce illusion de l'éternité ("l'autobiografia è sempre esistita [...]. Si potrà dunque scrivere la sua storia dall'Antichità ai nostri giorni, tracciare la sua evoluzione, i suoi progressi, le sue svolte, fino alle sue realizzazioni moderne", Gusdorf 1975) facendo proprio il linguaggio dello storicismo di H.R. Jauss e affermando che "la ricerca delle origini e della continuità permette di mettere in evidenza gli elementi del gioco a partire dai quali i nuovi generi si sono costruiti, e il modo in cui gli orizzonti d'attesa si sono progressivamente trasformati" (Lejeune 1975; trad. it. 1986). Muovendo dalla correzione della tesi crociana che l'opera d'arte sia solo espressione individuale, Jauss dimostra che "essa, perfino là dove nega o scavalca, in quanto creazione linguistica, ogni prevedibile attesa, presuppone informazioni preliminari e una linea d'aspettativa, su cui si misurano l'originalità e la novità" (1972; trad. it. 1989, p. 222). Ma allora, e qui le cose si arricchiscono di ulteriori elementi di discussione, ogni opera "appartiene a un 'genere' letterario e con questo non si afferma niente di più e niente di meno che la necessità per ogni opera che vi sia un orizzonte d'attesa precostituito (che può anche essere inteso come insieme di regole del gioco), allo scopo di orientare la comprensione del lettore (pubblico) e rendere così possibile una ricezione qualificata" (p. 222).
Dopo i grandi esempi di scrittura autobiografica offerti da Dante, F. Petrarca, G. Boccaccio, B. Cellini e V. Alfieri, per non citare che i massimi esponenti, non si può negare che nel corso del 19° sec. si era andata esaurendo la vivacità del genere in una serie di libri politico-moralistici, strettamente condizionati dai tempi di affermazione e sviluppo dell'unità nazionale. Quando G. D'Annunzio si dedicò alla biografia e all'a. ebbe la sensazione di recuperare generi talmente imbastarditi e mercificati ai suoi occhi d'innamorato delle forme antiche da non meritare quasi cenno. Nel magnifico Proemio a La vita di Cola di Rienzo, unica di una serie progettata e intitolata Vite di uomini illustri e di uomini oscuri, D'Annunzio si ravvisa in "colui il quale si sforza di trovare l'arte latina della biografia" (Proemio a La vita di Cola di Rienzo, 1913, poi in G. D'Annunzio, Prose di ricerca di lotta, di comando..., 1° vol., 1947, p. 72) e addita tra i "maestri", da un lato, i ritrattisti rinascimentali - H. Holbein e I. de' Barbari -, dall'altro, Plutarco e D. Laerzio fra i classici, F. Villani, V. da Bisticci, N. Machiavelli fra i moderni. Solo la frequenza assidua di simili "artefici" può garantire il rinascere di questa che è, appunto, "l'arte di scegliere e d'incidere tra i lineamenti innumerevoli delle nature umane quelli che esprimono il carattere, che indicano la più rilevata o profonda parte dei sentimenti e degli atti e degli abiti, quelli che appariscono i soli necessarii a stampare una effigie che non somigli ad alcun'altra" (p. 73).
Egli inoltre dichiara sagacemente e abbandona la pretesa di fare storia, stabilendo la differenza tra lo storico e il biografo, "il primo non considerando gli uomini se non nel più vasto movimento dei fatti complessi e nelle più efficaci attinenze con la vita pubblica, il secondo non rappresentandosi se non nei più saglienti rilievi della sua persona singolare" (p. 73). D'Annunzio definisce "Libro della mia memoria" i "tre tomi densissimi" delle Faville del maglio, dove raccoglie prose autobiografiche di lontana ascendenza, ma giunte solo nel 1924 a maturazione e unità. Apologia di sé e polemica contro il "vecchio mondo [che] si va spegnendo" intridono Il venturiero senza ventura (1924), Il secondo amante di Lucrezia Buti (1924), Il compagno dagli occhi senza cigli (1928). La consapevolezza di allontanarsi dalla tradizione cristiana dell'a. è resa esplicita da D'Annunzio con l'accusa di "falsa modestia" rivolta a Petrarca per essersi dichiarato, nel Secretum (1342-43), contro la diffusione del suo "libello" presso la "moltitudine degli uomini". La ricercata "chiarezza di sé" mira alla rivelazione della "vita profonda" dell'io, alla sua "forma pura", e comporta la conquista di un linguaggio che è tutt'uno con la vita: "Qui, come per la scultura delle origini, l'oggetto vero della mia arte verbale è il nudo, nel senso dello spirito. E dico che qui spesso io riesco a ottenere una rispondenza perfetta tra la mia volontà di espressione e la materia ch'io tratto, fra il mio pensiero e il mio linguaggio" (Faville del maglio, 1924, in G. D'Annunzio, Prose di ricerca, di lotta, di comando, 2° vol., 1950, pp. 3-7). Il motto Gratia Dei sum id quod sum, premesso alle pagine introduttive sinora riferite che costituiscono l'"Avvertimento" alle Faville, richiama il pensiero espresso da F.W. Nietzsche nel cap. ix di Ecce homo (1888), la sua a. in cui è messo in crisi l'eroismo ottocentesco: quello delle "grandi parole", dei "grandi atteggiamenti", i quali "sono tutti pericoli che l'istinto 'si capisca' troppo presto".
Il tentativo di trasfigurare l'a., e la biografia, al di là della loro morte nella cultura romantica e postromantica non comporterebbe di necessità la menzione di altri testi novecenteschi, ancora impegnati, a diversi livelli, in operazioni di aggiornamento o di rilancio. Se l'Ignoto toscano (1909) di A. Soffici riporta provvisoriamente in auge la maschera foscoliana di Didimo Chierico e quella leopardiana di Filippo Ottonieri - a loro volta deformate proiezioni autobiografiche su una traccia biografica classica -, Lemmonio Boreo (1912), sempre di Soffici, è una sorta di racconto picaresco di violenze represse finalmente esplose, e comunque di lì a poco non più tutte censurate nell'Italia delle squadracce fasciste. "Non si dimentichi" però, avverte M. Richter, "che il Lemmonio Boreo nacque quasi insieme con il saggio su Rimbaud" (1969, p. 147), il quale è una biografia e un'interpretazione tutta sostenuta dalla convinzione che questo sia il poeta capace di descrivere esemplarmente "un'anima moderna, [...] questa nostra anima babelica, amalgama, farrago, garbuglio, cafarnaum d'incertezze, di timori, di speranze, di aspirazioni vagabonde, d'ideali contradittorii, di tedi incurabili e d'ironie" (A. Soffici, Artur Rimbaud, in A. Soffici, Opere, 1° vol., 1959, p. 148). Rimbaud per Soffici ha toccato un tale fondo di assoluto, che soltanto Nietzsche può essergli affiancato.
Tralasciando i diari di guerra e i tardivi, fiacchi ricordi autobiografici di Soffici (L'uva e la croce, 1951; Passi tra le rovine, 1952; Il salto vitale, 1954; Fine di un mondo, 1955), altri stava coltivando il progetto di un Ecce homo vociano. Non si tratta di G. Prezzolini, scrittore di mediocre livello con le sue a. L'italiano inutile (1953) e Diario 1900-1941 (1978) e le biografie Vita di Niccolò Machiavelli fiorentino (1930) e Quattro scoperte (Croce, Papini, Mussolini, Amendola) del 1964; si tratta, invece, del contemporaneo G. Papini, il cui Un uomo finito (1913) mira a essere il libro di un'avanguardia intellettuale, con ambizioni confessate di declamazione nietzschiana. L'esito, volontario, è la provincializzazione di quel messaggio di distruzione e di edificazione dell'uomo nuovo. Ebbero successo anche le due biografie dedicate da Papini rispettivamente a Cristo (Storia di Cristo, 1921) e a Dante (Dante vivo, 1933), attraverso le quali si afferma la definitiva biforcazione del genere nel saggio erudito, da un lato, nel resoconto più o meno scandalistico di vizi e passioni, dall'altro. La possibile conseguenza di questa condizione significherebbe subito ripercorrere i gradi dello sprofondamento, consumato lungo il ventennio fascista e oltre, nella letteratura di consumo, quando la vena encomiastica dell'a. giunse a manifestazioni aberranti. Si è in seguito imposta, con buon riscontro commerciale, la biografia d'impianto psicoanalitico, versione tardo-lombrosiana del "genio" non più "delinquente", ma maniaco e nevrotico.
Nel corso dei primi decenni del 20° sec. si è avuto l'aumento, da una parte, della pubblicazione di diari e lettere, dall'altra, del ricorso, a opera di intellettuali di prestigio, ai modelli autobiografici del Sei-Settecento, pur se privati di ambizioni eroiche. Eccellente, in questa direzione, è il Contributo alla critica di me stesso (composto nel 1915, ma pubblicato nel 1918) di B. Croce, ma non meno degno di attenzione e di lettura è Pellegrino di Roma (1945) del modernista E. Buonaiuti. Significativi alcuni esempi della fitta memorialistica antifascista (Fantasmi ritrovati, 1966, dell'islamista e semitista G. Levi Della Vida, e le Memorie di un'antifascista, 1919-1940, 1946, di B. Allason); e, mutando genere, le Lettere del carcere di A. Gramsci (1947, postume) o le lettere di P. Gobetti, M. Mila, V. Foa, L. Pintor, sino all'a. di N. Bobbio, De senectute (1996). La tendenza di editori e giornalisti a sollecitare i ricordi degli scrittori che si apprestano a lanciare ha prodotto, poi, un testo ricco d'ironia, il senile Profilo autobiografico, redatto nel 1928 da I. Svevo in terza persona per l'editore Morreale, sulla scorta di un testo allestito dal giornalista suo amico G. Cesari. Svevo, in precedenza, nel 1896, aveva steso un Diario per la fidanzata estremamente sorvegliato e lucido, per non dire della riconosciutagli capacità di far di sé il protagonista di due eccezionali romanzi. Alla specie delle scritture ultime, post mortem, appartengono invece le incompiute Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla Terra, abbozzate da L. Pirandello al termine della sua vita. L'opera di E. Montale si è sviluppata lungo binari differenti: ha rilasciato, infatti, un'intervista immaginaria, Intenzioni (Intervista immaginaria) (in La rassegna d'Italia, 1946, 1), preziosissima per i suoi lettori, un po' reticente per il periodo della formazione giovanile (a cui provvede, tuttavia, un quaderno del 1917).
La scarsità di documenti autobiografici è un dato di fatto incontrovertibile, cui hanno contribuito, senza volerlo, le forti riserve dei formalisti russi. R. Barthes, M. Blanchot e Ph. Sollers, G. Genette e J. Derrida, M. Foucault hanno, in diversi momenti ma concordemente, concorso ad alimentare, come sostiene il critico J.-C. Bonnet, un disinteresse per l'autore come persona reale, e per ogni illusione di tipo referenziale a esso collegata. L'importanza spesso decisiva che critici di questa fama hanno avuto, non solo nel loro Paese, nel determinare sorti e sviluppi della letteratura contemporanea, non rende del tutto improbabile l'ipotesi che l'a. e la biografia, divenuti generi di consumo, siano improponibili a livello militante. Ma è pur vero che un discorso sui generi letterari è molto arduo da mandare avanti come se nulla fosse accaduto nel 20° sec., e non fossero nati diversi modi di raccontare gli altri e sé stessi. Si è già menzionata l'intervista, ma sono da tempo presenti e operanti il dialogo radiofonico, il film biografico, il documento vissuto, l'histoire de vie; e non è detto che l'aggiornamento del catalogo dei sottogeneri, del cui studio è pioniere Lejeune, debba arrestarsi. Va ancora una volta sottolineato, inoltre, il carattere alternativo che è venuto a occupare il diario nei riguardi dell'autobiografia. Basterebbero Il mestiere di vivere, 1935-1950 (1952, postumo) di C. Pavese e il Giornale di guerra e di prigionia (1955) di C.E. Gadda a farci intendere le possibilità di questo genere dell'io, che è nato non dalle Confessioni (1782-1789) di J.-J. Rousseau, ma piuttosto dalla diffusione dei journals intimi, a cui si sono ispirati Ch. Baudelaire (con Journaux intimes: Fusées, Mon cceur mis à nu, 1887) e H.F. Amiel.
L'allargarsi delle indicazioni e l'intento di raggruppare opere che rispondono a una forte affermazione della personalità dello scrittore potrebbero apparire un tentativo necessariamente frammentario e, soprattutto, discontinuo. Bisogna osservare che le scritture dell'io, per la loro stessa natura, quasi pretendono di mantenere intatta la loro discontinuità e verginità; difficile risulta anche collocarle lungo una scala di valori, che supponga una partecipazione a esigenze e motivazioni precedentemente elaborate, o comunque di qualche reperibilità immediata. L'autonomia, in altri termini, resta il carattere primario di queste scritture, senza per questo sottrarsi alla possibilità dell'interprete di osservare, distinguere e raggruppare. Il processo di crescita e maturazione, al quale si assiste, in Italia come altrove, parallelamente all'affermarsi, all'evolversi, al modificarsi dell'a. e anche, se pure di minore impatto, della lettera autobiografica, è un traguardo raggiunto nel 20° secolo. Di tale risultato occorre compiacersi, perché si è dimostrata non proponibile la riduzione dei testi autobiografici ed epistolografici alle abitudini della storiografia civile e culturale. Si sta, così, superando la tentazione di utilizzare i documenti predetti in chiave prevalentemente, se non esclusivamente, biografica, alla ricerca della formazione di una serie di ritratti storici, più o meno esemplari e credibili, più o meno curiosi. La redenzione dell'a. e della lettera è avvenuta senza una vera e propria presa di coscienza della profondità della questione e, purtroppo, quando le sorti e dell'una e dell'altra avevano già cominciato a declinare.
bibliografia
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