AUSPICIO (lat. auspicium, da avis "uccello" e *specio "vedo")
Annunciatori per eccellenza del volere divino furono per i primitivi Romani gli uccelli. Ma i segni tratti dalla direzione del volo, dal numero, dalla specie e dalla voce degli uccelli, tanto perspicui e acconci a una popolazione di agricoltori, mal si adattavano a mutate condizioni politiche e sociali. Così accanto ai segni degli uccelli, che acquistarono col tempo un valore puramente convenzionale, non solo per comodità d'osservazione, ma anche perché, nella crescente decadenza religiosa degli auspici, rendevano più facile la finzione e l'inganno, furono usate altre forme d'investigazione del pensiero divino. Al tempo di Cicerone, se non si ricorreva all'aruspicina, i segni erano ricavati, in città, quasi esclusivamente dall'osservazione dei fulmini e dei tuoni (auspicia caelestia), al campo, dal modo di mangiare dei polli sacri (auspicia pullaria). Rispecchia l'evoluzione dei metodi divinatorî la parola auspicium che, etimologicamente identica ad avispicium (vedi sopra), passa poi a significare un'interrogazione della volontà divina in qualsiasi maniera formulata, nonché il consenso divino a un'azione umana qualunque sia il modo in cui esso viene concesso.
Consona allo spirito della religione romana primitiva, l'auspicazione non cerca di penetrare il segreto dell'avvenire, ma, controllando la conservazione del patto con gli dei (pax deorum), tende solo a ottenere la sanzione divina ad azioni umane. Nei tempi più antichi il capo di famiglia, da solo o con l'assistenza di un augure (v. auguri), prendeva gli auspici prima di iniziare qualunque azione importante; ma tali auspici privati, che, sì come i pubblici, i soli patrizî pretendevano di possedere, caddero presto in disuso. Durarono invece gli auspici pubblici, chiamati anche semplicemente auspici, che divennero la divinazione ufficiale dello stato romano. Nessun'azione pubblica importante, in patria o al campo, era impresa senza aver prima, mediante auspici richiesti (auspicia impetrativa), la certezza della disposizione favorevole di Giove, dal quale provengono tutti gli auspici, e la conseguente garanzia di prospera riuscita.
Gli auspici pubblici appartenevano allo stato, ma erano affidati dallo stato ai singoli magistrati; in origine erano indissolubilmente legati all'imperium, denotando l'imperium la parte umana e gli auspici la parte divina dello stesso potere. I magistrati ricevevano gli auspici entrando in carica e uscendo li trasmettevano ai loro successori; in certi casi potevano anche demandarli a loro dipendenti (auspicia aliena). Se lo stato restava senza magistrati, gli auspici ritornavano alla parte patrizia del senato, che provvedeva alla rinnovazione di essi delegando l'esercizio del suo potere a un interré nominato dal suo seno. Tutti i magistrati e promagistrati, e probabilmente anche il pontefice massimo, avevano diritto agli auspici per gli atti di loro competenza. N'erano esclusi solo i magistrati speciali della plebe. Gli auspici maggiori spettavano, con determinate gradazioni, ai magistrati e promagistrati forniti d'imperium e ai censori, i minori agli altri. Il vario grado degli auspici denotava soltanto il vario grado del potere, che in questo campo si manifestava soprattutto nel fatto che il magistrato munito di auspici minori non poteva presiedere un'assemblea in cui si dovessero eleggere magistrati con auspici maggiori.
Perché fossero validi, gli auspici dovevano esser presi, se ciò era possibile, nello stesso luogo nel quale doveva avere inizio l'azione, sempre però in uno spazio appositamente delimitato e inaugurato, templum (il templum non era necessario solo per gli auspici presi al campo), e nello stesso giorno, calcolato da mezzanotte a mezzanotte. Di regola erano iniziati subito dopo la mezzanotte e finiti prima dello spuntar del giorno. Il magistrato si levava dal letto evitando con gran cura ogni rumore (il silentium, l'assenza di ogni causa di disturbo, è condizione indispensabile per un'auspicazione favorevole) e sedeva sotto una tenda (tabernaculum) aperta dalla parte di mezzogiorno o di oriente (Rose, in Journal of Roman Studies, XIII, 1923, p. 82 segg.). Fatta una preghiera, indicava i segni che desiderava gli fossero inviati e attendeva immobile finché egli stesso li avesse scorti o il suo assistente li comunicasse a lui per visti.
Negli ultimi secoli della Repubblica l'interrogazione degli auspici perde il suo carattere religioso per assumere un significato squisitamente politico. Già Fabio Massimo il Temporeggiatore osò dichiarare, pur essendo augure, ch'era fatto cogli auspici migliori solo quello che si operava per il bene dello stato e che proposte di leggi dannose avevano gli auspici contrarî. L'osservazione si ridusse più tardi a una mera formalità. Da ultimo si omise persino la parvenza d'un'osservazione e il magistrato incaricava il suo assistente, ora il pùllarius, di annunciargli la comparsa del richiesto segno celeste, che era sempre un fulmine. Ma intanto gli auspici venivano a poco a poco sostituiti dall'aruspicina etrusca, né furono rimessi in onore dall'Impero.
Bibl.: Alle opere citate alla voce auguri aggiungi ancora: W. Warde Fowler, The religious experience of the Roman people, Londra 1911, p. 192 segg.