GUERRIERO, Augusto
Nacque il 16 ag. 1893 ad Avellino da Francesco ed Eleonora Tanghi, in una famiglia non ricca, ma di agiata e colta borghesia, che lo mandò a studiare giurisprudenza a Napoli, dove si laureò nel 1920. Non volle fare l'avvocato. Preferì l'amministrazione dello Stato dove entrò con regolare concorso, prima al ministero delle Colonie, poi alla Corte dei conti e fu qui che fece tutta la sua carriera, fino a diventarne presidente di sezione onorario. La sua passione, di cui dapprincipio un poco si vergognava trovandola alquanto incompatibile con la sua qualifica di magistrato, era però il giornalismo. Per questo firmò solo con le iniziali A.G. i primi articoli che scrisse su Il Mattino diretto allora da E. Scarfoglio. Ma smise quando, come funzionario del ministero delle Colonie, fu trasferito in Libia, dove rimase alcuni anni, senza però contrarvi il "mal d'Africa", di cui tutti i frequentatori di quelle terre rimangono, o si dicono, afflitti.
Al ritorno a Roma fu ripreso invece dal male del giornalismo, di cui ricominciò a frequentare punti d'incontro e ritrovi e dove tornò a debuttare, coperto stavolta da uno pseudonimo, come titolare di una rubrica di costume sul settimanale umoristico Marc'Aurelio, che non sfuggì all'attenzione del più grande talent-scout di tutti i tempi, L. Longanesi. Quando questi, che aveva voluto conoscerlo e aveva attentamente seguito le conversazioni al caffè Aragno, fondò Omnibus (il primo rotocalco italiano, rimasto per sempre l'insuperato modello di tutti gli altri), gli propose di punto in bianco la rubrica di politica estera. "Ma io - rispose esterrefatto il G. - di politica estera so ben poco". "Sì - replicò Longanesi - però sa spiegarla a coloro che sanno meno di lei, e che sono il novantanove per cento degl'Italiani, compresi i diplomatici".
Così, nacque Ricciardetto, lo pseudonimo con cui il G. è passato alla storia del giornalismo, o meglio ci passerebbe se del giornalismo ci si decidesse a scrivere finalmente una storia. Eccettuato il soggiorno in Libia, il G. non aveva mai messo piede fuori d'Italia, ma nel chiuso della sua sedentaria vita aveva studiato le lingue straniere - specialmente il francese e l'inglese, ma abbastanza bene anche il tedesco - e, anche se non le parlava, le leggeva correttamente. Del saggismo politico aveva i suoi modelli, specialmente americani, e uno soprattutto, Walter Lippmann, di cui lo affascinavano la semplicità e la chiarezza. Seppe impadronirsene perfettamente. E fu questo che in mezzo all'accademismo e trombonismo dei cosiddetti esperti italiani, fece del dilettante Ricciardetto il più popolare dei commentatori. Al successo della sua rubrica "Guerra e pace" contribuì anche la libertà di giudizio e di critica che Longanesi lasciava ai suoi collaboratori, e che provocò la chiusura del suo settimanale dopo solo due anni di tribolatissima vita. Il G. non ne abusò: non era un antifascista. Era un liberal-conservatore, che col regime andava in alcune cose d'accordo, ma ne rifiutava il conformismo, la retorica nazional-populista e, in politica estera, l'avventurismo. Quando Hitler occupò la Cecoslovacchia, scrisse chiaro e tondo che quello andava considerato come il primo atto di una guerra che fin d'allora non si poteva più evitare.
Soppresso Omnibus, il G. riprese la sua rubrica su Tutto, altro periodico di Longanesi anch'esso destinato a breve vita. Ma ormai per lui non sussistevano problemi di collaborazione, non c'era giornale o settimanale che non chiedesse i suoi articoli: i più documentati e informati, i più brillanti e meglio argomentati che apparissero sulla nostra stampa. Lo volle Arrigo Benedetti per Oggi. Lo volle Mondadori per Tempo. Lo volle Pannunzio per Il Mondo. Ma soprattutto lo aveva voluto, fin dal '38, il Corriere della sera, dove rimase finché il Corriere rimase se stesso, com'era rimasto il G., che dopo la Liberazione non aveva cambiato nemmeno una virgola né del suo stile né del suo pensiero. Irriducibilmente anticomunista e criticamente filoamericano era sempre stato, e lo restò. Antirazzista e filo-israeliano da sempre, non rinunciò mai alla propria indipendenza di giudizio e, per esempio, trovò molto da ridire, come vecchio magistrato garantista e ligio alla legge internazionale, sul sequestro di Eichmann in Argentina. Rimase sempre fedele al suo impegno di "battitore libero" senza pregiudizi né interessi di parte.
Sebbene ne avesse ricavato una immensa popolarità (cui si mostrava indifferente, ma di cui invece era lusingatissimo), il G. non pensò mai che i suoi articoli potessero sopravvivere alle occasioni che li avevano ispirati e subì quasi di malavoglia l'iniziativa di un editore che ne raccolse una parzialissima cernita in due volumi: Guerra e dopoguerra. Saggi politici, pubblicato nel 1943 a Milano con la firma di Ricciardetto, e Tempo perduto uscito col suo nome nel 1959 (ibid.). Non si era accorto, e non voleva mostrare di essersi accorto, che quegli articoli avevano una ragione di sopravvivere ai fatti che li avevano occasionati: il rigore, l'asciuttezza, la vivacità dell'argomentazione, il sottile senso dell'umorismo, che ancor oggi farebbero, e dovrebbero, far testo in qualunque scuola di giornalismo, se ne esistesse una degna di questa qualifica.
A due altri libri il G. ha affidato il ricordo del proprio nome, ammesso che il proprio nome gli stesse, quando li compose, ancora a cuore: Quaesivi et non inveni (ibid. 1973), cercai e non trovai, e Inquietum est cor nostrum (ibid. 1976) che non ha bisogno - mi pare - di traduzione. Entrambi rivelano l'altra faccia del G., quella che gli disegnarono gli anni e le sofferenze. Il G. era stato uno degli uomini più "brillanti" della sua generazione: conversatore (in un napoletano illustre, da palazzo, non da "basso") brioso, curioso di tutto e di tutti, sibarita nei suoi gusti, perfino un po' snob. Frequentava il salotto più in vista di Roma, quello della principessa Colonna: non perché in quell'ambiente trovasse pane per i suoi raffinati denti, ma perché - confessava candidamente - "'nu salotto come quello, pe' 'nu cafunciello d'Avellino come me, rappresenta 'nu punto d'arrivo". Sapeva ridere di se stesso, ma voleva essere solo lui a farlo perché la spregiudicatezza non gli vietava la suscettibilità tipica del signore meridionale, per di più magistrato.
Gli anni e la salute ne distorsero completamente il carattere. Una sordità ribelle a ogni rimedio lo isolò dagli amici togliendogli i suoi due più grandi piaceri: la conversazione e la musica; mentre un'artrosi, anch'essa ribelle a qualsiasi cura, lo riduceva in carrozzella, preda di atroci dolori. Rimasto sempre ostinatamente scapolo, non poteva contare che sulla devozione di una segretaria-governante che gli rimase fedele fino all'ultimo giorno.
Fu allora che cercò consolazione nella fede. La cercò per l'unica strada che sapeva battere, e che alla fede aveva condotto Pascal, il suo autore preferito: la ragione. Ma lui, a differenza di Pascal, non la "invenit", non la trovò, e fu l'inconsolabile cruccio dei suoi ultimi tormentati anni. Si spense con l'anno 1981, il 31 dicembre, a Roma, invocando la morte e con la disperazione di non aver saputo rispondere alle tre domande che lo avevano negli ultimi tempi ossessionato: "di dove veniamo, dove andiamo, e cosa siamo venuti a fare in questo mondo".
Il G. entrò nella pubblica amministrazione quale funzionario del ministero delle Colonie, passò poi a quello delle Corporazioni, quindi alla Corte dei conti; nel 1925 fu comandato presso la sezione periferica di Tripoli di Libia, dove rimase fino al 1936. Al rientro in Italia si stabilì a Roma, dove percorse tutti i gradi della sua carriera, di cui raggiunse i vertici alla metà degli anni Cinquanta e che lasciò come presidente onorario di sezione.
Esordì nell'attività giornalistica nel 1923 con articoli siglati su Il Mattino di Napoli ma interruppe ogni pubblicazione nel periodo trascorso in Africa. Nel 1936 riprese a pubblicare su La Stampa di Torino, all'epoca diretta da A. Signoretti, con alcuni ritratti di personaggi della storia contemporanea, per lo più in chiave antibritannica. Dopo l'incontro con Longanesi collaborò sia al settimanale Omnibus (1937-39), sia alla rivista Tutto, apparsa per pochi mesi nel 1939. Da questa data in poi scrisse sul Tempo, edito da Mondadori e, fino al 1941, su Oggi, diretto da A. [G.] Benedetti e M. Pannunzio, dove cominciò a firmare la rubrica "Ferro e fuoco" con lo pseudonimo con cui è più noto: Ricciardetto (dall'omonimo poema satirico burlesco di Niccolò Forteguerri, del 1726).
Nel 1938 Achille Benedetti lo segnalò ad A. Borelli, all'epoca direttore del Corriere della sera il quale, due anni più tardi, nell'autunno 1940, lo volle come collaboratore; in questa prima fase il G. sul Corriere firmò come Micromegas. Nel 1943 E. Janni, che aveva sostituito Borelli, gli chiese di sospendere la collaborazione per motivi politici, considerandolo cioè compromesso con il regime fascista; l'allontanamento del G. durò fino al 1946 quando, con G. Emanuel direttore, riprese a collaborare con i suoi pezzi di politica estera, proseguendo fino al 1972.
Nel dopoguerra il G. collaborò anche a Il Mondo, nel biennio 1949-50 (più alcuni articoli negli anni 1955-58), ma soprattutto la sua firma compare sul settimanale mondadoriano Epoca dove tenne una rubrica dal 1950 al 1981, riservando a questa la firma di Ricciardetto.
Oltre ai volumi citati nel testo della voce, si ricordano ancora del G.: Piatiletka. Studio economico-tecnico sul piano quinquennale russo, in L'Economia italiana, s. 2, 1932, n. 2; Il problema delle materie prime e la Società delle Nazioni, in Etiopia italiana, Milano 1936; Politica estera italiana, ibid. 1945.
Si aggiunga per completezza che i risultati di successive ricerche (Gerbi) hanno accertato che il G. nel primo periodo della sua collaborazione al Corriere della sera pubblicò alcuni articoli in cui sosteneva tesi decisamente antisemite nonché antiamericane; Montanelli in una conversazione con lo stesso Gerbi lo invitò ad approfondire tale tema sostenendo che "ogni allineamento alla politica razziale del regime, insospettabile in Guerriero, era stato a suo avviso imperdonabile" (Gerbi, p. 694).
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centr. dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione generale della Pubblica Sicurezza, cat. A1, 1940, b. 48, Guerriero Augusto; Ministero della Cultura popolare, Gabinetto, b. 122, Guerriero Augusto; Milano, Archivio del Corriere della sera, b. Guerriero Augusto; necr. in Corriere della sera, 2 genn. 1982; Il Giornale, 2 genn. 1982. Vedi pure: G. Licata, Storia del Corriere della sera, Milano 1976, ad ind.; Storia della stampa italiana, a cura di V. Castronovo - N. Tranfaglia, La stampa italiana dalla Resistenza agli anni Sessanta, Roma-Bari 1980, ad ind.; S. Fiori, Negli anni del fascismo. Un rotocalco anomalo: "Oggi", 1939-1942, in La Rassegna della letteratura italiana, XC (1986), pp. 159-176; I. Montanelli, Così A. G. divenne Ricciardetto, in Corriere della sera, 19 marzo 1997; S. Gerbi, Ricciardetto e l'uccellino circonciso, in Belfagor, LIV (1999), pp. 693-707; Enc. Italiana, App. III, II, p. 800.
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