Archeologia industriale
Nel nuovo secolo, salvo alcune eccezioni, sembra che la riflessione in materia di a. i. abbia perso d’intensità, mentre le concrete realizzazioni si sono susseguite a ritmo serrato e sovente con esiti interessanti (Lisbona, inserimento del MUDE, Museu do design e da moda, 2009, nell’antica sede del Banco nacional ultramarino; Madrid, il Matadero trasformato in centro culturale, 2007; Roma, sistemazione di spazi espositivi e d’uso pubblico nell’ex Mattatoio comunale, 2002 e 2006).
Soprattutto all’estero ha prevalso un approccio che non si pone problemi concettuali, ma procede, secondo criteri empirici, mescolando ragioni pratiche (recupero di beni, soprattutto edilizi, abbandonati; restituzione di tali beni a un uso sociale, ma anche economicamente redditizio; istanze ecologiste di risparmio del suolo edificato e di materiali) con altre di memoria e di storia (delle vicende dell’industrialismo; di quelle dei lavoratori e della loro vita; dei progressi tecnologici e costruttivi attestati, per es., dalle antiche fabbriche e dai macchinari in esse ospitati ecc.). Si è poi aggiunta, in numerosi casi, una raffinata componente di gusto che ha prodotto in molte realizzazioni architettoniche (per es. di riconversione a fini museali, come nel noto caso della Tate Modern di Londra, o di cultura musicale, come nel caso, ugualmente noto, dell’Auditorium Paganini, 2001, di Parma ricavato, su progetto di Renzo Piano, v., nell’ex Zuccherificio Eridania) esiti affascinanti che, comunque, di solito non consentono di comprendere quale sia stato il processo di trasformazione subito dagli edifici e quanto si sia perso o conservato della loro carica testimoniale. In sostanza, più che di conservazione, restauro e valorizzazione culturale del patrimonio industriale si può parlare di una sua riconversione funzionale, di recupero, ristrutturazione, se non addirittura del suo mirato ‘riciclaggio’ (recycling).
Nei casi culturalmente più maturi, come quello dell’Emscher Park (1991-99), che interessa l’ex distretto minerario e industriale tedesco della Ruhr, l’intervento ha saputo controllare una dimensione paesaggistica e territoriale, articolandosi in più anni e sottoprogetti, fino ad assumere la valenza di rigenerazione ambientale di un vasto ambito in profonda crisi.
Nonostante il riferimento all’archeologia richiami un atteggiamento di studio, nel tempo la materia si è venuta consolidando sui due fronti speculari della conoscenza e della conservazione, come afferma la Carta di Nizhny Tagil per il patrimonio industriale (adottata da The international committee for the conservation of the industrial heritage, TICCIH, nel suo XII Congresso del 2003 in Russia, e presentata all’UNESCO dall’ICOMOS, International COuncil on MOnuments and Sites, nell’assemblea generale del 2008 per la sua ratificazione e approvazione). È interessante osservare come nel preambolo della Carta si faccia espresso riferimento al documento internazionale sul restauro denominato Carta di Venezia (1964).
Su tali argomenti Beatriz Mugayar Kühl (2009) ha fornito uno dei più validi contributi di questi ultimi anni, frutto di un impegno di ricerca che, in reazione all’empirismo e all’attivismo tanto dilaganti da mettere a rischio, pur con le migliori intenzioni, i valori testimoniali e di autenticità del patrimonio industriale, si propone di ricondurre il tema entro argini scientificamente più sicuri, incardinando il dibattito in materia sulla riflessione teoretica e di metodo del restauro (che è cosa diversa dal recupero o dal mero riuso). Il tutto senz’alcuna pretesa panconservativa o di mummificazione, ma lasciando il giusto spazio e riconoscendo ampie capacità risolutive a una buona progettazione e, dove opportuno, all’impiego di linguaggi architettonici contemporanei. È necessario, però, che i concetti di conservazione e salvaguardia siano acquisiti alla ‘cultura del progetto’ il che, perlopiù, finora non è avvenuto, come attestano numerosi casi: la sistemazione, effettuata da architetti di grido, dei gasometri ottocenteschi di Vienna, usati come meri contenitori e scenari di nuove funzioni, sfigurati nella loro conformazione spaziale e negli aspetti costruttivi, o l’inquietante caso del CaixaForum di Madrid, realizzato a spese di un’antica e ormai irriconoscibile centrale elettrica. Esempi positivi sono costituiti, invece, dal restauro, accompagnato da un’intelligente valorizzazione culturale, dell’ex Stabilimento Florio delle tonnare di Favignana e Formica (2010) in Sicilia o, a una scala più ampia, dai progetti per le città e i complessi minerari, come Carbonia, o anche, negli Stati Uniti, dalla creazione, a cura della Dia art foundation, di un grande spazio per ospitare opere d’arte contemporanea, collocato nell’antica fabbrica di biscotti Nabisco, a cento chilometri da New York.
Un’ultima considerazione merita la recentissima rilettura critica del tema presentata da Ascensión Hernandéz Martínez (2013) in uno dei più approfonditi e argomentati saggi in materia. L’autrice si domanda le ragioni per cui alcune delle più prestigiose realtà, soprattutto culturali, siano ospitate oggi in vecchi edifici industriali, solo pochi anni fa dimenticati e disprezzati. Indaga acutamente i caratteri di fluidità e libertà spaziale di tali architetture, la loro spontanea adattabilità funzionale, il presentarsi, in cer to modo, come opere ‘aperte’ a plurime interpretazioni, ragione per cui furono proprio gli artisti a scoprire per primi e valorizzare tali spazi (per collocarvi i loro atelier, scuole d’arte o per realizzarvi mostre al di fuori dei circuiti commerciali correnti). Nel tempo, ciò ha aperto la strada a un produttivo incontro fra il (nuovo) riconoscimento del vecchio patrimonio industriale e la (nuova) industria culturale (come nei casi veneziani di Punta della Dogana, con la sistemazione della Fondazione François Pinault da parte dell’architetto Tadao Ando, v., e dei Magazzini del sale alle Zattere, riconvertiti da Piano in sede della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, entrambe del 2009). Da qui, inoltre, un modo d’intervenire sulle antiche architetture, in questi ultimi anni, sempre più contenuto, quasi ‘minimale’, e rispettoso di ogni segno del tempo e delle vicende trascorse, in un apparente rigore conservativo che non deriva da una reale consapevolezza storica, ma da una poetica che risente di alcune esperienze artistiche, e di fotografia artistica, contemporanee (da cui il gusto per le superfici ruvide, deteriorate e corrose: moda rough luxe e dirty chic). Ne è conferma il fatto che, certe volte, non giudicandosi soddisfacente lo stato reale del manufatto si è deciso di ruderizzarlo ad arte, in una sorta di ‘spettacolarizzazione’ che è cosa ben diversa dall’autentico rispetto. Sono tentativi nel complesso interessanti pur se, a rigor di termini, la vecchia architettura viene piegata alle esigenze di una moderna museografia che richiede ‘contenitori’ presentati e trattati come autentici ‘monumenti pubblici’, ‘nuove cattedrali’ di una cultura laica che lascia irrisolto, sullo sfondo, il giudizio sul valore effettivamente riconoscibile in tali testimonianze industriali.
M. Palmer, P. Neaverson, Industrial archaeology. Principles and practice, London-New York 1998; B.M. Kühl, Questões teóricas relativas à preservação da arquitetura industrial, «Desígnio», 2004, 1, pp. 101-17; C. Varagnoli, La restauración de la arquitectura industrial en Italia entre proyecto yconservación, in AR&PA Actas del IV Congreso internacional‘Restaurar la memoria’. Arqueología, arte y restauración, a cura di J. Rivera, Valladolid 2006, pp. 251-74; S. Salvo, Il restauro dell’architettura contemporanea come tema emergente, in G. Carbonara, Trattato di restauro architettonico. Primo aggiornamento, Torino 2007, pp. 265-335; B.M. Kühl, Preservação do patrimônio arquitetônico da industrialização, Cotia 2009; L’archeologia industriale in Italia, a cura di A. Ciuffetti, R. Parisi, Milano 2012; A. Hernández Martínez, El patrimonio industrial, un legado delsiglo XIX: su recuperación para usos culturales, in El siglo XIX areflexión y debate, a cura di T. Sauret, Málaga 2013, pp. 239-88; M. Rossinetti Rufinoni, Preservação e restauro urbano. Intervenções em sítios historícos industriais, São Paulo 2013.