ARCADIA
. Accademia romana. Morta Cristina ex-regina di Svezia (1689), che soleva accogliere nel suo palazzo a Roma letterati, poeti, scienziati, alcuni di essi decisero di continuare a radunarsi, e fondarono l'Arcadia. Il nome dell'accademia, che ricordava il paese ideale dei pastori di virgiliana e sannazariana memoria, venne da questo: che uno di tali letterati, Agostino Maria Taja, avendo un giorno udito da alcuni confratelli recitare componimenti pastorali, esclamò: "Egli mi sembra che noi abbiamo oggi rinnovata l'Arcadia".
Alla prima adunanza, tenuta il 15 ottobre 1690 nel giardino dei frati minori riformati a S. Pietro in Montorio, assistevano quattordici accademici, tra i quali mette conto di rammentare soltanto G. M. Crescimbeni da Macerata, che espose il programma, e il suo ispiratore Vincenzo Leonio da Spoleto, G. V. Gravina da Roggiano, Silvio Stampiglia da Civita Lavinia, G. B. F. Zappi da Imola. Degli altri nove fondatori, due erano torinesi, due genovesi, due toscani: quasi tutta Italia terra dunque rappresentata. Gli accademici assunsero nomi pastorali.
L'Arcadia si propose di ristorare la poesia italiana, "mandata quasi a soqquadro dalla barbarie dell'ultimo secolo, d'esterminare il cattivo gusto, e procurare che più non avesse a risorgere, perseguitandolo continuamente ovunque si annidasse o nascondesse, e infino nelle castella e nelle ville più ignote o impensate".
Il 20 maggio 1696 l'accademia approvò le proprie leggi, dettate dal Gravina nel latino delle XII Tavole. Era una vera repubblica letteraria, col presidente (custode generah) elettivo. La legge VIII ordinava: In coetu et rebus arcadicis pastoritius mos perpetuo; in carminibus autem et orationibus quantum res fert adhibetor. Contrariamente a quanto generalmente si crede, l'ispirazione pastorale è la meno frequente nelle rime degli Arcadi, che coltivarono a preferenza la lirica pindarica, la petrarchesca, l'anacreontica. Davanti a loro si presentavano infatti tre vie: quella di Pindaro (o del Chiabrera) pei soggetti eroici, di Anacreonte (o del Chiabrera) pei soggetti tenui, del Petrarca e del Di Costanzo pei soggetti amorosi.
L'accademia divenne assai presto straordinariamente numerosa: il Crescimbeni, primo custode generale, contava già un migliaio di affiliati; nel 1699 le colonie dedotte erano otto, e in pochi anni non vi fu città di qualche nome che non volesse avenne una. Nella metropoli le adunanze per la recita dei versi e delle orazioni si tenevano a cielo aperto, nel Bosco Parrasio, che, dopo esser migrato d'una in altra villa romana, finì con lo stabilirsi nel 1725, grazie alla munificenza di Giovanni V di Portogallo, sul Gianicolo, dove ebbe pur sede il "Serbatoio", cioè l'archivio con la sala per le adunanze amministrative. Prima accademia veramente nazionale, l'Arcadia contribuì ad avvicinare le varie regioni italiane, come a livellare le differenze delle varie classi sociali, uguali tutte dinnanzi alla siringa di Pan, insegna dell'accademia.
Dalla metà circa del sec. XVIII fino a tempi assai recenti fu vezzo di uomini che si credevano spregiudicati e di buongusto di dir male dell'Arcadia, d'inveire contro l'Arcadia. Oggi si esagera, forse, in senso contrario: oggi è di moda ingrandirne i meriti. Cominciò il Carducci a dire, nella prefazione al suo commento al Petrarca, che dell'Arcadia bisogna parlare con buona creanza. Giustissimo: ma non bisogna ricadere nell'errore d'Isidoro Carini, il quale, col preconcetto che l'Arcadia fosse stata un tentativo di rinnovamento in ogni ramo del sapere, credette di scriverne la storia, mettendo insieme un repertorio biobibliografico non solo di poeti e verseggiatori, ma di eruditi, filosofi, filologi, matematici, medici, giureconsulti, naturalisti iscritti nell'Arcadia. Il vero è che questi dotti furono anche arcadi, come più tardi furono arcadi i più grandi poeti italiani, compreso l'Alfieri, e i grandi stranieri venuti a Roma, compreso il Goethe; ma l'Arcadia fu un'accademia precipuamente poetica o versaiola, la cui attività si riduce a tredici volumi di Rime. E si noti che la raccolta delle Rime degli Arcadi procedé regolarmente sino al tomo IX (1722). Poì vi fu una sosta, e una ripresa dal tomo X (1747) all'XI (1749). Poi nuova sosta, e ripresa col tomo XII (1759). Poi altra lunga sosta sino all'ultimo tomo, che è il XIII, del 1780.
A mezzo il sec. XVIII, l'ufficio dell'Arcadia stava per finire; all'accademia nazionale subentrava un'accademia puramente romana, che visse stentatamente anche nel sec. XIX, anzi sino a questi ultimi anni, e che è stata nel 1925 trasformata in Accademia letteraria italiana.
L'Arcadia vera, l'Arcadia genuina, della quale si deve parlar con rispetto, perché fu l'espressione d'un momento, qual che si sia, della vita spirituale della nostra nazione, è l'Arcadia della prima metà del Settecento. Che cosa fece? Reagì al secentismo.
"La reazione (dice il Carducci) necessariamente comincia suì limiti e con le forze dell'azione stessa contro la quale si svolge. Quindi il primo elemento dell'Arcadia è l'arte del Seicento nelle due forme: la raffinata e arguta, epigrammatica, madrigalesca (Lemene, Zappi); la solenne e concitata e pomposa, lirica e pindareggiante (Filicaja, Menzini, Guidi)". "Se non che la reazione importa anche, in gran parte, restaurazione: e la restaurazione fu delle forme del Cinquecento" (classicismo stretto del Gravina e del Lazzarini, petrarchismo rigido del Manfredi e di tutta la scuola bolognese, petrarchismo temperato, con qualche corcessione al secentismo, degli arcadi romani, imitatori del Di Costanzo). Da tutto questo lavorio emersero le quattro forme liriche prevalenti a mezzo il secolo XVIII: il sonetto descrittivo e narrativo, la conzonetta, la canzone-ode, l'endecasillabo sciolto: forme che furono bravamente coltivate da C. I. Frugoni, col quale l'Arcadia compì il suo officio di elaboratrice delle forme, che tramandò alla poesia neoclassica della seconda metà del Settecento. Così dal classicismo formale dell'Arcadia si passa al classicismo integrale del Parini.
La veemenza del Baretti contro la "ricadiosità" arcadica era giustificata: ma oggi possiamo riconoscere, col Carrer, che gli Arcadi furono quelli "che con la loro pacatezza sedarono le fantastiche esorbitanze del secolo precedente, e apparecchiarono il campo alle onorate fatiche di quegl'insigni onde fu illustrata la letteratura italiana nella seconda metà del sec. XVIII".
Bibl.: G.M. Crescimbeni, L'Arcadia, Roma 1709; Notizie istoriche degli Arcadi morti, Roma 1720-21; Vite degli Arcadi illustri, voll. 5, Roma 1708-51; (G. M. Morei), Memorie istor. d. adunanza d. Arcadi, Roma 1761; I. Carini, L'Arcadia dal 1690 al 1890, il solo I vol., Roma 1891; Secondo centenario d'Arcadia, Roma 1891, I; G. Carducci, Il Parini Principiante, in Opere, XIII; G. Toffanin, L'eredità del Rinascimento in Arcadia, Bologna 1923. Scritti sulla storia dell'Arcadia si trovano nei periodici dell'Accademia: L'Arcadia, 1889-96; Giornale arcadico, 1898-1916; ai quali, dal 1917 sono successi gli Atti dell'Accademia e scritti dei soci. Il giudizio cit. di L. Carrer (Gli Arcadi, in Opere, Firenze 1855: III, pp. 509 segg.) collima con quello di due recenti difensori dell'Arcadia, A. Evangelisti, Arcadia e retorica, in Novelle elegiache, studii e ricordi, Bologna 1920, e B. Croce, Gli scrupoli di Belisa Larissea, in Nuove curiosità storiche, Napoli 1922.