arabismi
. All'epoca di D. - e già prima, come attestano soprattutto le carte latine e volgari - in molte parlate italiane, e anche in Toscana, erano penetrati parecchi a. divenuti per lo più di uso comune nella lingua letteraria. Bisogna distinguere il filone scientifico, e cioè gli a. entrati in italiano per via scritta, attraverso le traduzioni latine dall'arabo, dal filone popolare, e cioè gli a. diretti dovuti soprattutto ai contatti dei cristiani col mondo arabo e orientale (attraverso le crociate e i rapporti commerciali delle nostre repubbliche marinare col Maghreb e con l'Oriente).
Spetta al filone dotto ad es. cenìt (Pd XXIX 4) che tradisce un tramite grafico anche per l'errore di lettura ni per m, già presente nel latino medievale della prima metà del sec. XII (Platone Tiburtino); la voce araba è infatti samt ar-ra' s, " punto del cielo sopra il capo ", latino plaga capitis (si veda anche Cv III V 9). Il significato antico ha nuca (If XXXII 129), " fil delle reni ", " colonna vertebrale ", che attraverso il latino medievale dei medici (ad es. Costantino Africano: " medullae lingua Arabica vocantur nucha ") riproduce l'arabo nuḫā‛, " midollo spinale "; anche alchìmia (If XXIX 119 e 137) per via dotta risale al basso latino chimia, alchimia, dall'arabo al-kīmīya, " pietra filosofale ", " specie di reagente universale e l'arte per ottenerlo " (probabile adattamento del greco χυμεία, " mescolanza di liquidi "). Attraverso le traduzioni latine dall'arabo si spiegano alcuni calchi, ad es. l'uso di ‛ imprimere in ', " ricevere un influsso " (di un pianeta): cfr. Pd XVII 76-77 colui che 'mpresso fue, / nascendo, sì da questa stella forte, calco servile dall'arabo aṯṯara fī, " lasciare un'impronta ", " influire ".
A. diretti, i quali si riferiscono, in origine, al mondo orientale sono ad es. assessin (If XIX 50), in un primo tempo " appartenente a una setta fanatica capeggiata dal veglio della Montagna " (M. Polo volg. 31, Mare amor. 31, Novell. 100), dall'arabo ḥaššāšīn (pl.), propriamente " bevitore di ḥašīš", cioè di un " narcotico tratto da una pianta " (detta ad es. in siciliano cascíscia); Soldan (If V 60) ai tempi di D. " il sovrano dell'Egitto ", dall'arabo sulṭān, " padrone assoluto "; ragazzo (XXIX 77), " garzone ", " mozzo di stalla " era in origine un " fattorino ", un " galoppino " della dogana (come ci indicano alcuni documenti veneziani pisani e genovesi segnalati da G.B. Pellegrini): l'arabo magreb. raqqāṣ, " staffetta ", " corriere ". Ammiraglio (Pg XIII 154, XXX 58) ha assunto la specializzazione marinaresca (avvenuta in Sicilia, alla corte dei Normanni) e la forma poi normale in italiano (di contro alle numerose varianti capricciose admirabilis, admiragdus, admirandus ecc.), dall'arabo amīr, " comandante " (cfr. ‛ emiro '). All'epoca di D. era già da tempo diffuso il gioco orientale degli scacchi (Pd XXVIII 93) col rocco (Pg XXIV 30) e l'alfino (Detto 456, " alfiere "), rispettivamente da arabo-persiano šāh, " re " (forse attraverso una grafia sc [=š], letta poi s-k), arabo ruḫḫ, " elefante che porta una torre " e arabo al-fīl, " elefante "; spesso menzionato e proibito negli statuti medievali era il gioco della zara (Pg VI 1), dall'arabo zahr, " dado ". Proveniva dall'Oriente il balasso (Pd IX 69), " specie di rubino " (cfr. ‛ balascio ', Ottimo, e intorno al 1250 ‛ balagius ', Alberto Magno), dall'arabo balaḫš derivato dal nome della provincia persiana del Badāḫšān donde s'importava. Nome di misura araba è carato (If XXX 90: cfr. ‛ carata ' in Brunetto Latini Favol. 161, ma già ‛ karatis ' in G. Scriba, notaio genovese, nell'anno 1164), dall'arabo qirāt, " peso per oro e diamanti " (greco χεράτιον), " ventiquattresima parte di un denaro ", mentre risma (If XXVIII 39) ha già assunto un senso figurato con sfumatura dispregiativa (arabo rizma, " pacco di vesti o di carta ") ed è la forma che si è imposta tra le varianti del tempo (‛ risima ', ‛ lisma ', ‛ resma '). Sono aggettivi comuni meschino (Vn IX 10 5, If IX 43, XXVII 115) dall'arabo miskīn, " povero ", e azzurro (XVII 59) che risale al persiano-arabo läžwärd, " lapislazzuli " e " colore azzurro ".
Riproduce la variante veneziana l'arzanà de' Viniziani (If XXI 7): cfr. anche ‛ arzanatus ' (Andrea Dandolo) dall'arabo dār aṣ-ṣinā‛a, " casa del lavoro ", " fabbrica ", divenuto poi ‛ arsenale ' e impostosi sul tipo ‛ terzanà ' (G. Villani, Buti); cfr. anche l'allotropo ‛ dàrsena ' (già attestato intorno alla metà del sec. XII nel Lib. Maior.). Di origine meridionale è invece mazzerare (If XXVIII 80), " gittare l'uomo in mare in un sacco legato con una pietra " (Buti), denominale da màżżera (in dialetti meridionali " pietra pesante in genere ") dall'arabo ma ‛ ṣara, " pietra da molino ". Attraverso lo spagnolo (o meglio il mozarabico?) è giunto a D. meschita (If VIII 70), " moschea " (spagnolo mezquita, dall'arabo masğid, con ğim qui di pronuncia velare); cfr. basso latino muscheta (Annali Genovesi); attraverso il provenzale vengono leuto (If XXX 49), " liuto " (arabo al-‛ ūd, propriamente " legno "), e angelico caribo (Pg XXXI 132), " canzone a ballo ", provenzale garip, " nome di una composizione musicale ", forse risalente all'arabo garīb, " straordinario ", secondo un'interpretazione dello Spitzer; cfr. ‛ caribo ' in Giacomino Pugliese e ‛ caribetto ' in Meo de' Tolomei.
Bibl. - C.A. Nallino, in " Rivista degli studi orientali " VIII (1919-20) 369-400; B. Nardi, in " Studi d. " XXI (1937) 157-172; G.B. Pellegrini, Ragazzo, in " Studi linguistici italiani " I (1960) 162-173, e soprattutto L'elemento arabo nelle lingue neolatine con particolare riguardo all'Italia, in L'occidente e l'Islam nell'alto medioevo (" Settimane di studio del Centro italiano di studi sull'alto medioevo " XII), Spoleto 1965, 697-790 e 833-844.