AQUILEIA (A. T., 27-28-29)
Comune della provincia di Udine, con 8687 abitanti, di cui 1211 nel capoluogo. È congiunta alla laguna di Grado e al mare dal fiume Natissa, che scorre poco lontano; e, se le sue campagne sono feconde di cereali e di frutta, di gelsi e d'ortaggi, i maggiori guadagni, oggi, li trae soprattutto dai suoi monumenti e dai cimelî romani e medievali accolti nel suo interessante museo, meta assidua di un buon numero di visitatori, che agevolmente possono giungervi con le strade della guerra da Venezia, da Trieste, da Udine e da Gorizia. Durante la guerra, fu a lungo centro logistico per la III armata.
Storia. - Colonia di diritto latino nel paese dei Carni, popolazione celtica infiltratasi tra il sec. IV e il III nella compagine delle preesistenti popolazioni veneto-illiriche della zona compresa tra le Alpi e il Tagliamento o la Livenza. Spinta occasionale alla fondazione fu la minacciata invasione nel 186 a. C. di una nuova ondata di Galli transalpini, probabilmente anch'essi Carni, di cui parla Livio (XXXIX, 22, 6); essa però veniva a rispondere alla necessità ormai profondamente sentita dai Romani di meglio assicurarsi il possesso di tutta la zona in cui erano già penetrati nel 221 a. C., ma che avevano perduto durante la guerra annibalica. Narra infatti lo storico latino (XXXIX, 54, 55) che schiere di Galli per valichi ancora ignorati penetrarono senza ostacoli nella Venezia e al dodicesimo miglio del luogo ove poi sorse Aquileia (Plinio, Nat. Hist., III, 19, 131) presero a fondarvi una città che dopo varie trattative venne distrutta nel 183. Ciò non sembrando sufficiente alla sicurezza del paese contro le irrequiete popolazioni limitrofe, Galli, Giapidi, Istri, se non forse anche contro minacce più lontane ed incerte, quali quelle di Filippo di Macedonia (Livio, XL, 57, 6; XLII, 11, 4), fu decisa la deduzione di Aquileia, per quanto non senza discussioni in senato circa il carattere della colonia e rinnovate difficoltà da parte degli Istri che la ritardarono di due anni. Solo nel 181 infatti poterono i due consolari Publio Scipione Nasica e Gaio Flaminio insieme con Lucio Manlio Acidino di rango pretorio dedurre la nuova colonia composta di 3000 fanti. A ciascuno di essi furono assegnati 50 iugeri dì terreno, mentre 100 ne venivano dati ai centurioni e 140 ai cavalieri (complessivamente 500 kmq.), cifre notevoli che sono la testimonianza più eloquente dell'importanza strategica attribuita alla nuova città che sorgeva in pianura, in luogo prima inabitato, tra i fiumi Alsa e Natiso, a 15.000 passi dal mare secondo Plinio (Nat. Hist., III, 18) o più esattamente a 60 stadî secondo Strabone (V, 1, 8). Ma che esso fosse ben scelto, dimostrò la sua fortuna sempre crescente di baluardo militare e di emporio commerciale di carattere prettamente romano: solo ricordo infatti delle popolazioni preesistenti sono poche monete con le effigi dei re celti (fig. 1), il culto del dio Beleno e il nome di origine locale, forse dal fiume Aquilis e già dell'oppidum gallico distrutto dai Romani, che però al colono latino doveva piuttosto ricordare il nome augurale dell'aquila.
Il centro abitato fu originariamente piccolo e dell'abituale forma pressoché quadrata propria degli accampamenti militari, tagliato da strade parallele (v. la pianta, n. 1); secondo i dati desunti dagli scavi fatti nel secolo scorso i lati avrebbero misurato rispettivamente poco più di mezzo chilometro (v. pianta). Ma subito si sentì il bisogno di rinforzarlo con l'invio, nel 169, di altre 1500 famiglie condotte dai triunviri T. Annio Lusco, P. Decio Subulo, M. Cornelio Cetego (Liv., XLIII, 17, 1). Anche la spedizione del console G. Sempronio Tuditano (129 a. C.) contro i Taurisci valse ad accrescere la sicurezza; ogni pericolo però fu eliminato solo con l'impero, ché ancora sotto Augusto abbiamo notizia di una incursione di Giapidi. Intanto si veniva mutando la sua costituzione interna: da colonia latina, forse per effetto della lex Iulia del 90 a. C., acquistando la piena cittadinanza romana e venendo scritta nella tribù Velina, diventa municipio retto da quattro magistrati (quattuorviri iure dicundo e quattuorviri aedilicia potestate) assistiti dal senato o ordine dei decurioni e dai questori.
Solo in età severiana, mutati ormai completamente i vecchi ordinamenti, ritornerà al nome di colonia come, divisa anche l'Italia in provincia, diventerà naturalmente fra il sec. III e il IV capoluogo di tutta la decima regione e sede del delegato imperiale che ne era a capo (corrector Venetiae et Histriae).
Infatti Aquileia con il volger del tempo e seguendo le sorti di tutta l'Italia settentrionale era cresciuta enormemente d'importanza: ampliata nella sua cinta muraria forse da Augusto, è quartiere d'inverno per le legioni, sede del capo della squadra veneta (praefectus classis Venetum), centro di rifornimento per l'esercito del Danubio e per la flotta dell'alto Adriatico, zecca imperiale dopo Diocleziano (fig. 2), luogo prediletto di soggiorno per gli imperatori e la loro corte, a cominciare da Augusto, sia per ragioni militari, sia per la salubrità del suo clima. È circondata da un fertilissimo agro colonico, celebre per i suoi vini e le sue frutta, e nello stesso tempo è centro di fiorenti industrie, ché vi si lavorava la lana e la porpora, il bronzo e il ferro, il legno e la pietra, vi erano fabbriche d'armi e di tessuti di ogni specie, come testimoniano i numerosi collegia di artefici menzionati nelle iscrizioni.
Non dovevano neppur mancare scuole d'arte: Aquileia, per esempio, è ricchissima di mosaici, anzi è terreno impareggiabile di studio per l'evoluzione delle varie tecniche, passandosi dall'opus sectile e dal segmentatum che decorava i pavimenti degli edifici pubblici e privati, soprattutto nei primi due secoli dell'impero, all'opus tessellatum. E questo è dapprima paziente lavoro fatto con minutissime tessere per rendere sorridenti immagini di grazia quale la famosa Afrodite sul toro (fig. 3), trovata nel secolo scorso, poi, come del resto tutta l'arte romana dopo gli Antonini, si trasforma e nella tecnica e nell'ispirazione: non più opere levigate, tutte morbidezza nella forma e povere molto spesso d'intima vita, ma effetti nuovi e semplici. Si direbbe che la robusta arte italica, quasi sommersa nel primo periodo dell'impero dal prevalere del gusto ellenizzante, prenda la rivincita nel momento in cui i barbari minacciano la compagine romana e più tenaci sono gli sforzi per salvarla. Ecco allora i magnifici ritratti a musaico, che ornavano la palestra annessa a delle terme, scoperti nel 1922 (pianta, n. 9) e che trovano il loro termine di paragone solo in quelli del pavimento teodoriano della basilica (sec. IV), cristiani nello spirito, ma evidentemente romani nell'esecuzione.
Del resto, l'arte romana aveva già dato anche in un periodo precedente altri bellissimi saggi in una serie di busti che ritraggono evidentemente personaggi aquileiesi e a cui certo spetta un posto d'onore nella serie dei ritratti romani (fig. 4). E una pagina forse non ancora bene studiata nella storia della scultura, ma che rivela senza dubbio l'esistenza di una fiorente scuola locale.
Invece la ricchissima serie dei vetri aquileiesi mostra un senso della linea e del colore che si era andato raffinando e variando per gl'innumeri contatti con l'Oriente. Prevalgono infatti i magnifici vetri soffiati, sia a tinta unita sia multicolori, che abbiamo ragione di ritenere di produzione locale, ma non mancano i vetri a musaico e i cosiddetti murrini che sono importati dall'Egitto e dall'Oriente e stanno a testimoniare la ricchezza di Aquileia (fig. 6).
Dubbio è ancora il problema delle ambre. È noto che il commercio di questo prezioso prodotto si svolse attraverso i paesi dell'alto Adriatico fin dall'età preistorica. Mancano però ricerche esaurienti sui centri di produzione delle ambre lavorate: ad ogni modo se numerose sono quelle trovate in Germania, come dimostrano le ricche raccolte dei musei tedeschi, e se quindi non si deve escludere che alcune di esse siano giunte ad Aquileia quali oggetti di scambio, per le più belle (fig. 5) si deve probabilmente ammettere la mano d'opera locale, tanto abile anche nell'arte d'incidere le gemme.
E questo fiorire di arte pura ed applicata ad Aquileia non stupisce quando si pensi che essa era nodo stradale di massima importanza: la via Annia la collegava, come sembra, a Concordia e quindi alle altre vie dell'Italia settentrionale; la Gemina, arteria fra le principali dell'impero, la metteva in comunicazione attraverso la valle del Vipacco con Emona (Lubiana) e Celeia (Celie), quindi con tutta la valle del Danubio; la Iulia Augusta con Aguntum (Stribach presso Lienz) per Tricesimum, Iulium Carnicum (Zuglio) e il passo di Monte Croce Carnico, mentre era congiunta a Virunum (Maria Saal), il centro del Norico, tanto per la valle del Fella quanto per il passo del Predil, e a Tergeste (Trieste) per una via costiera. Se alle strade si aggiungono le facili e comode comunicazioni fluviali e marittime (nel 1927 è stata messa in luce parte della banchina lungo il canale della Natissa ad oriente della città - fig. 8 e pianta, n. 7 - che conferma la testimonianza scritta della perfetta attrezzatura del suo porto), si comprenderà facilmente come Aquileia radunasse nelle sue mani tutto il commercio dell'alto Adriatico con i paesi danubiani, specie dopo la loro graduale pacificazione e l'annessione del Norico: dà olio, vino e manufatti e in cambio riceve dai paesi illirici schiavi, bestiame e pelli, dal Norico ferro e oro, dai paesi baltici ambre, dall'Oriente svariatissimi prodotti. Ciò non è senza effetto sul genere degli abitanti (Aquileienses): alle originarie famiglie di ceppo romano, quali per esempio gli Statii e i Barbii che importarono la coltura della vite e diedero inizio al commercio e all'industria, si aggiunge una popolazione, in parte fissa e in parte fluttuante, delle più svariate provenienze, o stranieri o di condizione libertina e servile. Se ne ha un riflesso anche nei culti: non solo ad Aquileia erano venerate divinità locali, quali il già ricordato dio Beleno e Fonio, e gli dei nazionali di Roma, ma molti culti stranieri pervenuti sia attraverso l'Urbe sia direttamente dai luoghi di origine, principale fra tutti quello di Mitra (v. la pianta, dove il n. 10 segna l'ubicazione del Mitreo).
Malgrado tutto questo però essa torna, col decadere dell'impero, ad essere quello che era stata in origine: un propugnacolo militare che è costretto a riattare, talora precipitosamente e al di sopra dello stesso porto (pianta, n. 8), le sue mura lasciate in abbandono durante la lunga pace, non solo contro le invasioni barbariche, ma purtroppo anche perché mescolata a tutte le guerre civili che infierirono dopo gli Antonini. Dopo essere stata minacciata dai Quadi e dai Marcomanni (169 d. C.), sostiene l'assedio dell'imperatore Massimino e ne vede la morte dinanzi alle sue porte; è contesa fra Costantino II e Costante (340 d. C.), fra Giuliano e i seguaci di Costanzo; partecipa alla vittoria di Teodosio su Massimo (388); minacciata da Alarico, viene crudelmente devastata da Attila nel 452. Ma la vita romana non cessa, si può dire, che con l'invasione longobarda, quando il patriarca Paolino l'abbandona per Grado (568).
Di tanto splendore, di così lunga e variata vita ben poco rimane. L' inesausto suolo di Aquileia, esplorato finora più dall'aratro che dal piccone dell'archeologo, ha restituito ricchezze di vetri, di ambre, di mosaici, di marmi, di monumenti onorarî - fra cui importantissimi quelli in onore di Lucio Manlio Acidino, il fondatore della colonia (fig. 7) e del console Gaio Sempronio Tuditano - o di monumenti funebri, che erano in genere molto ricchi, della forma di un'ara (fig. 9). Ma ben poco ha rivelato dei templi, e degl'infiniti edifici sacri e profani onde andava superba la ricca metropoli e di cui si trova così larga eco specie negli scrittori della tarda latinità. Si può talora supporre l'ubicazione di alcuni di essi dal luogo di ritrovamento delle epigrafi, ma finora sono sicuramente identificati solo un tempietto a Giove, forse distrutto appena terminato per il prolungamento delle mura sul lato occidentale, un teatro, un anfiteatro, un arco (v. pianta) e due acquedotti, una palestra con ogni probabilità annessa a una terma (pianta, n. 9), numerose ville e abitazioni romane di cui sono soprattutto notevoli gli avanzi dei pavimenti musivi (pianta, n. 2 e 3 entro la cinta, n. 5 e 6 fuori di essa), le fondamenta di tratti delle mura e alcune delle torri e porte della città che per esse appunto e per il suo porto andava celebrata in tutto il mondo antico.
Con l'invasione longobarda, sembra quasi che per qualche secolo Aquileia scompaia dalla storia. Un ritmo, attribuito a S. Paolino (morto nell'802), piange accoratamente le sue rovine e descrive le tombe profanate ed i marmi venduti nelle regioni circostanti. Un diploma di Carlomagno, dell'8 dicembre 811, ricorda un tentativo del patriarca Massenzio per rimettere Aquileia "nel pristino onore". E dei lavori di Massenzio, o dei suoi successori, si ha conferma in qualche ricordo monumentale e nel fatto che il patriarca Federico I, il debellatore degli Ungheri (morto dopo il 921), fu sepolto in A. Molto, certo, fece per A. il patriarca Giovanni (morto nel 1019); ma l'inizio della vita nuova della città è dalla tradizione attribuito al patriarca Poppone (morto nel 1042), al quale difatti si deve la ricostruzione del duomo, l'erezione della magnifica torre, del palazzo per la dimora del patriarca, delle mura. Il canale che unisce Aquileia al mare ritornò ad essere navigabile e servì ai commerci e al trasporto dei passeggeri; giacché, in grazia delle antiche vie romane, che convergevano verso di essa, Aquileia era lo scalo migliore fra l'alto Adriatico e la Germania orientale. Oltre la cattedrale, altre chiese furono costruite nell'interno, come quella di S. Giovanni in Foro; così pure, oltre il capitolo cattedrale ed il monastero di S. Maria, notevolmente arricchiti di redditi e di privilegi, troviamo nei suoi immediati dintorni il monastero di S. Martino della Beligna, la collegiata dei Ss. Felice e Fortunato e la canonica regolare di S. Stefano, istituita dal patriarca Godebaldo nel 1062; e più tardi, gli ospizî dei lontani monasteri di Rosazzo e Moggio e la magione dei cavalieri Gerosolimitani. Processioni da tutti i paesi del patriarcato, e soprattutto dal Friuli, accorrevano in Aquileia per la settimana santa e per l'Assunta. Più tardi, il 14 luglio 1231, il patriarca Bertoldo allargò i diritti dei cittadini d'Aquileia, che erano censuarî della chiesa; ma, pochissimi anni dopo, il vicario di quel patriarsa chiedeva una contribuzione ai sudditi del patriarcato "a fine di continuare i lavori incominciati in Aquileia per il restauro della chiesa, la quale è del tutto abbandonata dai suoi servitori causa l'intemperie della città d'Aquileia". Nonostante tutto questo, Aquileia formò una comunità, che aveva voto nel parlamento del Friuli ed era governata da un podestà, nominato dal patriarca. Questi vi aveva una canipa, presieduta da un canipario il quale riscuoteva i prodotti in natura ad essa dovuti, e una muta con un mutario per la riscossione dei pedaggi. Impegnato nel governo spirituale e temporale del patriarcato, il patriarca non poteva fare in Aquileia se non una saltuaria residenza. Ma di regola, non mancava di celebrarvi le feste di Natale e specialmente quelle di Pasqua; quando non poteva, vi si faceva sostituire da un suffraganeo. Solo dopo che Lodovico di Teck si rifugiò in Germania, i patriarchi non risiedettero più in Aquileia e perciò la rovina si accrebbe. Durante l'estate, i canonici tralasciarono l'ufficio corale e le monache di S. Maria trovarono riparo a Cividale per sfuggire alla malaria. Tuttavia la cattedrale non fu mai del tutto abbandonata; e, dopo i radicali restauri intrapresi dal patriarca Marquardo per ovviare ai danni recati dal grande terremoto del 1348, abbiamo i bei lavori ornamentali fatti dal patriarca Barbo e dal Capitolo, alla fine del Quattrocento ed al principio del Cinquecento.
L'occupazione austriaca, dal 1509 in poi, sottrasse Aquileia alla signoria che il patriarca continuava ad avervi in forza del patto con Venezia del 1445; ed i nuovi signori, preoccupati di favorire Gorizia e Gradisca, nulla vollero fare per la loro disgraziata città, che si ridusse ad un miserabile villaggio. La soppressione del patriarcato, avvenuta nel 1751, le diede l'ultimo colpo: tolto il capitolo, tolto il monastero di S. Maria, spariti da tempo gli altri istituti ecclesiastici, Aquileia fu ridotta a parrocchia rurale, e l'immediata dipendenza della sua chiesa maggiore dalla santa sede, decretata dalla bolla di Benedetto XIV, non ebbe mai pratica esecuzione.
Nel sec. XVIII, e in seguito, grazie alla rinnovata passione per gli studî archeologici, furono fatte ricerche, raccolte numerose iscrizioni, praticati degli scavi, ma sempre saltuariamente, con poco metodo; la massima parte del materiale raccolto emigrò in ogni luogo, specialmente a Vienna, oppure andò perduta o distrutta. Solo nel 1807, fu istituito, e poi nel 1852 rinnovato, un museo pubblico nel battistero minacciato da rovina; nel 1873, poi, un museo comunale, che divenne governativo nel 1882. In esso, vennero raccolte alcune collezioni private e quanto si ritrovò negli scavi intrapresi dal 1872 in poi. Sul principio del sec. XX, per opera del conte Lanckoronski, furono iniziati scavi sistematici, nell'interno e all'intorno della basilica, e si ebbe la scoperta dei magnifici musaici. Cessata, nel maggio 1915, la dominazione austriaca, cominciarono subito, pure fra le ansie della guerra, le cure del governo italiano per l'esplorazione ed il benessere di Aquileia. Nel 1919, Aquileia liberata celebrò il XXI secolare dalla sua fondazione, e la città di Roma le donò la riproduzione della lupa capitolina; nell'ottobre 1921, dalla basilica, la chiesa madre della guerra nostra, partì la salma dell'Ignoto Milite, destinato all'apoteosi di Roma sull'Altare della patria; mentre, il 4 novembre, i dieci militi ignoti furono solennemente composti all'ombra dei cipressi, dietro la basilica millenaria, nel più suggestivo, forse, cimitero di guerra del mondo. Con tanta gloria di ricordi, si congiungono magnificamente le glorie del lavoro moderno, specialmente le bonifiche agrarie, che, incominciate già nella seconda metà del secolo XVIII, sono dirette ora a ridare all'agro aquileiese l'antica fertilità e salubrità, restituendogli migliaia di ettari infestati dalla malaria e dall'acquitrino.
I monumenti artistici. - La basilica, a croce latina, col grande transetto, col presbiterio molto sopraelevato, infonde un senso di augusta e sacra austerità; lo splendente pavimento a musaico, ben conservato nell'area e in vicinanza del duomo, è quello delle due basiliche di Teodoro (320 circa), e costituisce il più vasto e mirabile litostrato paleocristiano sin qui noto. Vi sono particolarmente notevoli i ritratti dei donatori e la scena piscatoria con le vicende di Giona. In questa scena il motivo alessandrino della pesca degli Eroti si unisce, nota il Cecchelli, al tema delle storie di Giona elaborato dalla più antica arte cristiana. Singolare è altresì una Vittoria cui stanno vicine le figurazioni delle specie eucaristiche. Dell'opera romanica di Poppone testimoniano la struttura generale del tempio, il colonnato coi capitelli, il grande affresco absidale che esalta la chiesa aquileiese e il suo patriarca, effigiato insieme con Corrado II in mezzo ai santi tutelari del luogo, mentre rendono omaggio alla Madonna col Bambino. Marquardo di Randeck (1365-1381) riedificò la basilica crollata per il terremoto del 1348. A lui si devono i pulvini dei capitelli, gli archi acuti che valsero ad alzare con bell'effetto la nave di mezzo, i pilastri della crociera coi capitelli adorni di sculture figurate piene di grazia, e la fascia di pitture nel coro. La rinascita rifulge nelle due scalinate marmoree che adducono al presbiterio, nell'elegante tribuna di Bernardino da Bissone, nel ciborio col bassorilievo della Pietà pure del Bissone, nell'altar maggiore ornato con gusto squisito da Sebastiano d'Osteno: tutte opere di marmorarî lombardi tra la fine del sec. XV e i primi anni del XVI. La cripta della basilica, romana nella parte inferiore, di origine e funzione incerta, fu probabilmente ricostruita sul principio del secolo XI, mentre gli affreschi con scene tolte dalla vita di Cristo e di Maria e dalle leggende dei Ss. Ermagora e Fortunato sono della fine del sec. XII o degli inizî del XIII. Questi affreschi ripetono vivamente i modi bizantini e nell'iconografia della passione di Cristo hanno accenti patetici di potente effetto. Le transenne, nel braccio destro della basilica, con i contrasti caratteristici tra incavi e superficie piana, adorne di triplici fasce che incorniciano figure di animali, di uccelli e di vegetali simbolici ricordano forse l'attività di Massenzio (sec. IX) per la cattedrale, ma non è da escludere che appartengano al secolo XI come altri affermano. La cappella dei Torriani nella nave destra fu destinata a sepolcreto di quella illustre famiglia che diede ad Aquileia quattro patriarchi.
Il tempietto rotondo di stile romanico, nella navata sinistra, noto sin dal 1077 col nome di "sepolcro" volle per certo ricordare il S. Sepolcro di Gerusalemme. Fu forse usato per le rappresentazioni liturgiche e i sacri misteri (fig. 12).
L'atrio, superstite solo in parte, forse anteriore a Poppone, collega la basilica attraverso l'attigua chiesa dei Pagani, il cui nome è ancora di origine imprecisata, col battistero. La chiesa dei Pagani serba tracce di affreschi (sec. XIII). Il battistero, ormai non più che una rovina, è nella muratura d'ambito senza dubbio romano. La cupola ond'era coperto crollò nel 1790. È questo, in ordine di tempo il terzo battistero di Aquileia; il primo, di forma circolare, resta nella navata sinistra della basilica popponiana sotto il piano attuale ed è d'epoca teodoriana; l'altro è visibile, in quanto ancora si conserva, nella cripta degli scavi, dove appunto oltre a pavimenti musiví del primo impero e oltre ai musaici artisticamente migliori della chiesa di Teodoro, si constatano le vestigia di una seconda grande basilica, probabilmente postattilana, fornita di proprio battistero. A destra della basilica due solitarie colonne di conci sono l'unico avanzo del palazzo dei patriarchi.
Il campanile, dominatore della pianura, che si estolle gigantesco per 73 metri, testimonia della tramontata potenza patriarcale e dell'energica intraprendenza di Poppone. Fu completato con la pigna nel sec. XIV dal patriarca Bertrando. La presente forma della cella campanaria e del coronamento risale al sec. XVI. Nel Cimitero degli Eroi è la tomba (figg. 10, 13) dei dieci militi ignoti, dell'arch. G. Cirilli. (V. tavv. da CLXXXI a CLXXXVIII).
Bibl.: Corpus Inscr. Lat., Berlino 1872-77, V, i, p. 78 segg.; V, ii, p. 1023 segg.; E. Pais, suppl. Italic., Berlino 1884, I, p. 14 segg., 225 egg.; C. Czoernig, Das Land Görz und Gradisca, Vienna 1873, p. 145 segg.; E. De Ruggiero, Diz. epigr. di ant. rom., Spoleto 1895, s. v.; Hülsen, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. der class. Altertumswiss., II, s. v.; F. Maionica, Aquileia zur Römerzeit, Gorizia 1881; id., Fundkarte von Aquileia, Gorizia 1883; id., Guida dell'imperiale r. Museo dello stato in Aquileia, Vienna 1911; C. Costantini, Aquileia e Grado, Milano 1916; Archeografo Triestino, passim; Notizie degli scavi, dal 1919 in poi, passim; M. Rostovtzeff, The social and economic history of the Roman empire, Oxford 1926, passim; G. D. Bertoli, Le antichità di Aquileja profane e sacre, Venezia 1736, I (voll. II e III mss.); B. M. De Rubeis, Monumenta Ecclesiae Aquileiensis, Strasburgo 1740; G. D. Della Bona, Strenna storica per l'antica storia del Friuli, ecc., sino all'anno 1500, Gorizia 1856; G. Cappelletti, Le chiese d'Italia, Venezia 1844-1870; B. Benussi, La Regione Giulia, Parenzo 1903; K. Lanckoronski, Der Dom von Aquileia, Vienna 1906; P. Paschini, La chiesa Aquileiese ed il periodo delle origini, Udine 1909; L. Planiscig, La Basilica d'Aquileja, in Emporium, XXIII (1911), pp. 274-293; A. Gnirs, Die christliche Kultanlage aus konstantinischer Zzeit am Platze des Domes in Aquileia, in Jahrb. d. kunsthist. Instit., 1915, pp. 140-172; P. S. Leicht, Breve storia del Friuli, Udine 1923; A. Morassi, Il restauro dell'abside della Basilica di Aquileia, in Boll. d'arte, 1923; pp. 75-94; P. F. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum, VII, Venetia et Histria, Berlino 1923; P. Toesca, Gli affreschi del duomo di Aquileia, in Dedalo, VI (1925-26), pp. 32-57; id., Storia dell'arte ital., I (Il Medioevo), Torino 1927; C. Cecchelli, Litostrati d'Aquileia, in Memorie storiche Forogiuliesi, XVIII (1922), p. 1-25; F. Lanzoni, Le diocesi d'Italia, Faenza 1927, II, pp. 866-896.
Patriarcato di Aquileia. - Per le continue relazioni che Aquileia mantenne con le città dell'Oriente, ma soprattutto con Roma, il cristianesimo dovette penetrarvi di buon'ora, sì che la sede vescovile vi fu stabilmente organizzata verso la metà del sec. III, o poco prima (un Ermagora ci si presenta come il primo vescovo). Passata la terribile prova della persecuzione dioclezianea, la chiesa aquileiese ci compare rappresentata al concilio di Arles (314) da quel vescovo Teodoro, che è ricordato nei magnifici musaici come costruttore e dedicatore del monumentale complesso di edifici nei quali si svolse la vita liturgica della comunità. Da Aquileia, il cristianesimo deve essersi allargato e diffuso in tutte le città circostanti dell'Istria, della Venezia, del Norico, della Pannonia superiore e persino della Rezia orientale.
La controversia ariana ebbe larga ripercussione in Aquileia, specie quando il vescovo Fortunaziano, che aveva goduta la fiducia di papa Liberio, si piegò in Milano, nel 355, al volere dell'imperatore Costanzo, pur esso seguace di quell'eresia, e fu causa delle disgrazie dello stesso pontefice. Il suo successore, Valeriano, fu invece uno dei campioni dell'ortodossia ed intervenne ai concilî che papa Damaso radunò per ridare pace e concordia alla chiesa. Nel 381 Sant'Ambrogio presiedeva insieme con lui ad un concilio, tenuto in Aquileia, per mettere fine alle discordie provocate dagli Ariani. Dopo la morte di Ambrogio, Cromazio, il grande amico di S. Girolamo e successore di Valeriano, ci si presenta come metropolita, cioè superiore immediato di tutti i vescovi della Venezia, dell'Istria, del Norico, della Rezia seconda e forse anche di quelli della Pannonia superiore più vicini all'Italia: così, accanto alla provincia ecclesiastica di Milano, s'era costituita anche quella di Aquileia. L'occupazione fatta dai barbari delle provincie transalpine e i disastri provocati dall'invasione di Attila (451-452) danneggiarono assai la prosperità commerciale d'Aquileia e furono causa del suo progressivo decadere; tuttavia, sotto il dominio ostrogoto e poi durante la riconquista bizantina, la città godette un periodo di pace, turbata solo, verso la fine, da una questione teologica che si fece sempre più aspra. Sotto la pressione dell'imperatore Giustiniano, che s'illudeva di ristabilire la pace religiosa nell'Impero, papa Vigilio, nel 554, condannò a Costantinopoli i Tre Capitoli (v. capitoli) provocando una ribellione aperta e ostinata soprattutto nell'Italia settentrionale. Il metropolita d'Aquileia, coi suoi vescovi suffraganei, rifiutò di accettare la condanna: da questo tempo all'incirca, anzi, egli cominciò ad assumere il titolo di patriarca.
Quando, nel 568-569, i Longobardi penetrarono, attraverso le Alpi Giulie, nella Venezia e costituirono a Cividale il primo loro ducato, Paolino 1, metropolita di Aquileia, cercò un rifugio nell'isola di Grado, trasportando colà i tesori, i libri, le reliquie della sua chiesa. Il rifugio, che si prevedeva temporaneo, rimase invece stabile, ed Elia, che successe a Paolino come patriarca, costruì a Grado una basilica in onore di S. Eufemia e vi radunò un concilio, per stringere intorno a sé i suoi suffraganei e per coonestare il suo scisma, nel quale persistette, nonostante le pressioni del pontefice romano e dell'esarca di Ravenna. Dopo la morte di Severo (606), successore di Elia, grazie all'intervento dell'esarca fu possibile eleggere a Grado un patriarca cattolico, Candidiano, che si accordò col papa e con l'arcivescovo di Ravenna; ma gli scismatici della Venezia soggetta ai Longobardi non lo vollero riconoscere, e, raccoltisi in Aquileia, sotto la protezione del re Agilulfo e di Gisulfo, duca del Friuli, elessero l'abate Giovanni a loro patriarca. Così cominciarono ad esservi due patriarchi: quello di Grado (detta poi Nuova Aquileia), cattolico, che ebbe la preminenza sull'Istria e sul litorale veneto soggetto ai Bizantini; quello di Aquileia, che governò le sedi della Venezia soggetta ai Longobardi, comprese Trento, Sabiona (poi Bressanone) e persino Como. Nonostante i tentativi dei Longobardi per impadronirsene, Grado poté conservare a lungo una certa floridezza; mentre, in potere dei Longobardi, ariani o pagani, Aquileia decadde rapidamente, sì che il suo patriarca dovette trasferire la sede nel castello di Cormons, dove si ritenne più sicuro che non sul lido adriatico, esposto a colpi di mano da parte dei Bizantini. Per opera del re Cuniberto e di papa Sergio I, verso il 698, tutto il patriarcato aquileiese abiurò finalmente lo scisma; ma, non essendo più possibile la riunione col patriarcato di Grado, il papato riconobbe ambedue le sedi, circoscritte secondo il diverso dominio politico: il regno longobardo, cioè, quanto alla Venezia terrestre o ducato del Friùli; l'impero bizantino, quanto all'Istria e all'estuario, cioè alla Venezia marittima. Intorno al 735, il patriarca Callisto, lasciata Cormons, trasportò la sua sede a Cividale, centro del ducato del Friuli, che cominciò tosto ad abbellirsi di nuove fabbriche e monumenti sacri.
Successi ai Longobardi i Franchi (774), il patriarca Sigualdo fu coinvolto nella ribellione longobarda del 776 e nella repressione che ne seguì. Tuttavia, gli ordinamenti non mutarono: al duca successe il marchese del Friuli, e i due patriarcati, nonostante un effimero tentativo di riunione fatto nel concilio di Mantova dell'827, continuarono a sussistere. Sotto il patriarca Paolino 11, illustre per la sua scienza e per l'amicizia dimostratagli da Carlo Magno, al patriarcato d'Aquileia s'aggiunsero le diocesi dell'Istria, che Carlo aveva unita al regno longobardo; mentre le missioni fra gli Avari e gli Slavi allargarono considerevolmente il territorio del patriarcato stesso ad oriente e a settentrione. Un diploma di Carlo Magno, del 14 giugno 811, poneva a confine della diocesi patriarcale verso il nord, dove si estendeva il nuovo arcivescovato di Salisburgo, la Drava, che rimase come limite sino alla soppressione del patriarcato. Ai monti che sono poco al di sotto di Pettau (che rimane però sulla riva sinistra), la Drava cessava di essere il confine del patriarcato: da quel punto, la diocesi d'Aquileia, ritornando verso Occidente, confinava con la Croazia e con la Liburnia e, passando al di sopra dell'Istria, giungeva all'Adriatico nei pressi di Duino. Giustamente si poté dire alla fine del sec. XVI che il patriarcato di Aquileia era una delle più grandi diocesi della cristianità. Quello che abbiano fatto gli ultimi re longobardi per accrescerne i redditi e la grandezza temporale, non sappiamo; certo, Carlo Magno iniziò la serie delle donazioni, e queste continuarono poi sotto i suoi successori e sotto i re italici: sicché larghi territorî, zone incastellate, fornite d'immunità sempre più ampie, passarono sotto i patriarchi d'Aquileia, specialmente quando fu necessario riparare ai malanni provocati dalle invasioni ungare che desolarono il Friuli durante tutta la prima metà del secolo decimo. Abbazie e persino vescovadi (come Concordia nel 928, Cittanova d'Istria e Pedena) furono assoggettati feudalmente al patriarca.
Quando il 7 agosto 952 Ottone I, re di Germania, costrinse Berengario II, re d'Italia, a ricevere da lui l'investitura feudale del regno italico, fu staccata dal regno la Marca Friulana, detta anche Veronese, con l'Istria, e fu unita col ducato di Baviera-Carinzia, che stava nelle mani di Enrico, fratello di Ottone. Certo, comincia in questo momento la distribuzione di terre friulane a famiglie signorili germaniche. Di queste, alcune vennero a stabilirsi entro il patriarcato, altre unirono questi nuovi possessi a quelli che tenevano oltr'alpe. L'atto feroce di Enrico, che fece evirare il patriarca d'Aquileia (Lupo probabilmente) ed accecare l'arcivescovo di Salisburgo, ci dimostra che Enrico intendeva fiaccare la potenza ecclesiastica che controbilanciava la sua. La toponomastica friulana ci ha conservato qua e là indizî anche di abitatori sloveni nel Friuli (Belgrado, Gorizzo, Gorizizza, Sulacnicco, Pasian Schiavonesco, ecc.). Si tratta probabilmente di agricoltori trasportati a colonizzare la pianura friulana, forse dopo le invasioni ungare. Ma che formassero una parte ben piccola dell'intera popolazione friulana, lo dimostra il fatto che quegli sloveni furono prontamente assorbiti senza lasciare altra traccia, mentre conservarono la loro lingua quelli che sino dall'età longobarda s'erano stabiliti sul Carso, nella valle dell'Isonzo a monte di Salcano e Gorizia, nell'alta valle del Natisone, a monte di Cividale, nell'alta valle del Torre, a monte di Tarcento, e nell'alta valle del Fella. Quando nel 961 Ottone I intraprese una nuova spedizione in Italia, i patriarchi Engelfredo (morto nel 963) e poi Rodoaldo (morto nel 983 circa), furono al suo fianco; si spiega quindi com'egli e poi i suoi successori largheggiassero di donazioni verso la chiesa d'Aquileia; p. es., l'importante abbazia di Sesto, il castello di Farra (967), i castelli di Buia, Fagagna, Udine, Gruagno, Brazzacco con tre miglia di territorio all'intorno (983), S. Daniele, metà del castello di Salcano e della villa di Gorizia (1001), Pisino in Istria col porto di Fianona (1012), oltre molti altri territorî con pieni diritti immunitarî. Cresceva così l'importanza politica del patriarcato. Poppone, che fu eletto patriarca nel 1019 e godette il favore di Enrico II e di Corrado II imperatori, non fu fortunato, è vero, nel tentativo d'impadronirsi di Grado con la forza; e neppure gli riuscì l'altro di farsi aggiudicare dal papa quel patriarcato. Ma gli riuscì di fare risorgere la sua sede di Aquileia, fortificandola di mura, scavandovi un porto, ottenendo da Corrado II il diritto di battervi moneta (sebbene ne facesse un uso molto limitato) e nuovi larghi possessi nella pianura friulana. Sul posto dove una volta sorgevano gli edifici di Teodoro, egli eresse poi una nuova cattedrale, che fu consacrata con grande solennità nel 1031; riordinò e dotò largamente il capitolo cattedrale e il grande monastero delle monache di Santa Maria, che fu uno degl'istituti più cospicui, per possessi, feudi e giurisdizioni, di tutto il Friuli. Gl'imperatori della casa di Franconia continuarono il loro favore ai patriarchi, che essi scelsero di preferenza fra i chierici della loro corte. Enrico IV, poi, per avere l'aiuto del patriarca Sigeardo, all'inizio della lotta delle investiture, concesse alla chiesa di Aquileia la contea del Friuli coi diritti ducali (1077). La contea, che comprendeva anche il Cadore, aveva per confine le Alpi Carniche e Giulie a settentrione e ad oriente, il mare a mezzodì, giungeva sino al Livenza ad occidente, comprendendo per conseguenza tutto il territorio del vescovado di Concordia e dell'abbazia di Sesto; Sacile divenne ben presto il castello fortificato che difendeva i possessi patriarcali da quella parte. Oltre la contea del Friuli, Enrico IV donò allora anche la marca di Carniola e quella d'Istria. Con ciò, ebbe principio il vero potere temporale del patriarca. Enrico, che successe a Sigeardo, ebbe nel 1081 i vescovadi di Parenzo e di Trieste; poi Ulrico 1, nel 1094, ebbe anche quello di Pola, di guisa che il patriarca divenne signore feudale di tutti i vescovadi dell'Istria. Nessuna meraviglia quindi, se vediamo Vodolrico I (morto nel 1121) sempre ligio alla politica di Enrico V; di lui è detto espressamente, che condusse seco nel patriarcato molti di coloro che lo avevano precedentemente aiutato in Germania e che li colmò di onori e di beni. Cosi pure Pellegrino 1 (morto nel 1161) fu tra i più fedeli sostenitori di Corrado III e di Federico Barbarossa. I rapporti fra la chiesa d'Aquileia e l'impero mutarono sotto Ulrico 11, il successore di Pellegrino, il quale, sconfitto una volta sul mare dai Veneziani, si accostò ad Alessandro III e alla lega lombarda, molto cooperando alla conclusione della pace di Venezia del 1177. Comunque, i patriarchi d'Aquileia, quale si fosse il loro atteggiamento politico di fronte all'Impero e al Papato, si ritenevano sempre principi italiani e non germanici, tanto che Wolfger, nel 1206, sostenne che per questo motivo non poteva essere citato a ricevere l'investitura feudale in Germania, ma doveva riceverla solo in Italia. Lo stesso Wolfger, nel 1209, ottenne di nuovo da Ottone IV, alla dieta d'Augusta, le marche dell'Istria e della Carniola inferiore, il cui possesso si dimostra così non essere stato effettivo sino a quel momento.
L'avvocazia feudale del patriarcato fu affidata da principio, per qualche tempo, al duca di Carinzia; passò verso il 1125 nella famiglia del conte palatino di Carinzia, la quale, da uno dei suoi possessi patriarcali, fu chiamata dei conti di Gorizia. Mainardo I può considerarsi il capostipite di questi conti, i quali, coi loro possessi originarî e coi feudi che ebbero dai patriarchi, andarono formando nel Friuli orientale e nella vicina Istria uno stato che tennero unito con i possessi transalpini e che servì loro di fondamento a maggiori fortune. Essi riuscirono infatti ad acquistare, nel secolo XIII, la contea del Tirolo e, temporaneamente, anche il ducato di Carinzia. Furono però i Goriziani avvocati molto turbolenti: più volte scesero a guerra aperta contro i patriarchi, e questi, a loro volta, cercarono di limitare il più possibile i diritti di avvocazia dei conti e di ridurli a semplici feudatarî.
Il 30 luglio 1180, Alessandro III, con una bolla, dava finalmente un assestamento definitivo ai rapporti fra Grado e Aquileia. Il patriarcato di Grado, che andava sempre più decadendo per effetto del crescere di Venezia, in grazia di alcuni compensi che gli furono accordati, rinunciò a diritti che sino allora aveva sempre continuato a rivendicare; Aquileia conservò i diritti patriarcali sulle diocesi dell'Istria (Trieste, Pedena, Pola, Parenzo, Cittanova, alle quali si aggiunse poco dopo anche la nuova diocesi di Capodistria), e su quelle della Venezia (Concordia, Treviso, Ceneda, Belluno, Feltre, Padova, Vicenza, Verona, Trento, Mantova, Como), che da lungo tempo non erano più contestate. E poiché assai importanti erano diventati i rapporti commerciali che Venezia manteneva con tutti i porti dell'Istria, ben presto anche il patriarcato di Aquileia scese a speciali accordi con essa. Il 21 dicembre 1206, fra il patriarca Wolfger e i rappresentanti del doge Pietro Ziani fu stretto in Aquileia un vero trattato che assicurava libertà e protezione ai mercanti veneziani che commerciavano in Aquileia e nei porti fluviali del patriarcato: trattato che fu rinnovato ed accresciuto poi dai patriarchi susseguenti. Assai burrascose furono invece le relazioni fra il patriarcato e il comune di Treviso, nell'ultimo decennio del sec. XII e nei primi decennî del XIII. Esse si complicarono anche con una questione di politica interna. In contrasto con la nobiltà "libera", che aveva, cioè, i suoi feudi dal patriarca senza alcuna obbligazione oltre quelle inerenti al patto feudale, si erano formati i "ministeriali". Di origine quasi sempre servile, essi ricevevano beni dal patriarca, con l'onere di prestare servizî che potevano anche essere ignobili. Ma, assai legati alla persona del patriarca, furono da lui favoriti sino ad ottenere veri feudi e a costituire una nobiltà di rango inferiore, messasi presto a gareggiare in ricchezza e in potenza con la nobiltà libera. Questa invece a mano a mano decadde, per numero e per ricchezza; tanto che uomini liberi si piegarono a contrarre legami matrimoniali con ministeriali, e viceversa. Primi fra i ministeriali furono coloro che esercitavano un ministero intorno alla persona stessa del patriarca: i signori di Cucagna, Partistagno e Valvasone, che furono i camerarii dei patriarchi ed ebbero la custodia della "camera"; i signori di Spilimbergo, che furono i pincernae o caniparii; i signori di Moruzzo e Tricano, che furono i marschalchi o vexilliferi; i signori di Prampero, che furono i magistri coquinae. Fra i ministeriali, il patriarca sceglieva le sue persone di fiducia e specialmente i gastaldi deputati al governo dei beni patriarcali nei diversi punti della regione. Liberi e ministeriali vennero a lotta aperta fra loro, tanto che i primi si ribellarono nel 1219 contro il patriarca Bertoldo di Andechs, che proteggeva i secondi, e si fecero cittadini di Treviso, provocando una guerra. Solo una sentenza arbitrale del cardinale Ugolino d'Ostia, il 30 agosto 1221, pose termine alle liti; ma i liberi non ne ricavarono vantaggio.
Il patriarca Bertoldo fu fedele partigiano di Federico II imperatore, sino al momento del concilio di Lione (1245); passò allora dalla parte d'Innocenzo IV, mettendosi così in aperta guerra con Ezzelino da Romano, con Guecello di Prata e con Mainardo, conte di Gorizia. Bertoldo morì (1251) prima che il patriarcato potesse riavere la pace; ma Gregorio di Montelongo, suo successore, ch'era stato legato papale nell'Italia settentrionale, continuò la lotta contro il partito ghibellino, lotta che terminò con la morte di Ezzelino, il 27 settembre 1259.
Sotto il governo di Gregorio (morto nel 1269), il Friuli, incamminatosi sotto i patriarchi precedenti verso un progressivo sviluppo economico-sociale, si trova sempre più a contatto con tutto il complesso movimento che fiorisce nel resto d'Italia. Le classi rurali si elevano, liberandosi un po' alla volta da ogni vestigio di servitù; il feudalismo si trasforma; i piccoli centri rustici si governano con particolari libertà sotto i loro decani o merighi, i centri maggiori hanno il loro consiglio e un gastaldo, podestà o capitano, che rappresenta il principe-patriarca; il parlamento del Friuli, composto delle tre classi, prelati, nobiltà e borghesia comunale, allarga subito il suo controllo, dapprima quasi unicamente finanziario, poi anche giuridico e politico, sugli atti più importanti del patriarca. Al progresso agricolo del paese corrisponde anche una maggiore attività commerciale, che si svolge soprattutto sulla via che, attraverso la valle del Fella, metteva in comunicazione Aquileia, Latisana, Portogruaro, Sacile, con la valle della Drava da cui s'importava il ferro. A Gemona e alla Chiusa prima, poi a Venzone, il patriarca percepisce la muta per mezzo dei suoi mutarii. Alla moneta veneziana e veronese e ai frisacensi, che l'arcivescovo di Salisburgo coniava a Friesach, il patriarca sostituisce sul volgere del sec. XII i denarî proprî, con propria immagine, che egli fa coniare in Aquileia; ha poi il diritto di raccogliere la pegola che si cava dalle conifere dei monti della Carnia, e tenta di tenere attive, colà, le miniere d'oro e d'argento, come c'informa un documento del 1259, e quelle d'argento, di piombo e di qualunque altro metallo nella valle del Degano, affidandone nel 1292 l'escavazione ad un boemo e ad un tedesco con patti speciali. Ma non pare che quelle miniere fossero sufficientemente redditizie, in confronto di quelle della Carinzia e della Stiria. Anche tentativi posteriori non diedero il risultato sperato. Agli antichi mercati di Aquileia e Cividale, a quelli un poco posteriori di San Daniele e Gemona, si aggiungono quello di Udine e, nel 1258 circa, quelli di Tolmezzo e di Monfalcone e poi quello di Venzone, con danno di Gemona; oltre, naturalmente, quelli dei porti fluviali. Tutto questo provocò un poco alla volta un movimento di popolazione ed anche di capitali; e poiché non si presta se non a chi ha, si vede in questo una prova maggiore della floridezza che il patriarcato riuscì a raggiungere in questo tempo. Sin dal 1183, il patriarca Godofredo contrasse un prestito a vantaggio del Barbarossa con gl'Isembardi di Pavia, intermediario un Barozzi di Venezia e un orefice di Treviso; nel 1196, il patriarca Pellegrino II contrasse un prestito a forte interesse con alcuni cittadini di Piacenza; nel 1226, il patriarca Bertoldo contrasse un grosso prestito coi Grimani di Venezia; nel 1231, un altro con una compagnia di mercanti bolognesi e senesi; nel 1249 e nel 1250, un terzo con un'altra società di Senesi. Asceso poi il patriarca Gregorio di Montelongo, egli concesse in affitto ai Senesi, nel 1253, le sue mute della Chiusa e di Tolmezzo: contratti che rinnovò anche negli anni susseguenti. Col Montelongo erano venuti nel Friuli parecchi meridionali suoi parenti e aderenti; non appare tuttavia che vi rimanessero a lungo, dopo la morte di lui avvenuta nel 1269. Col suo successore Raimondo della Torre, vennero invece molti milanesi, soprattutto dopo il disgraziato esito delle imprese condotte dallo stesso patriarca a favore della sua famiglia contro i Visconti. Numerosi furono i Torriani e i Lombardi che, trapiantatisi nel Friuli, vi acquistarono favore e potenza, ponendovi stabile dimora. Ma se costoro vi vennero da esuli, i Fiorentini vi vennero da mercanti e da prestatori di denaro, soppiantando i Senesi; presero in affitto le mute patriarcali, prestarono denaro ai patriarchi e ai Friulani, presero stabile sede nelle cittadine del Friuli, come a Udine e a Gemona, coniarono la moneta per il patriarca, e non diminuirono la loro attività se non quando Venezia, resasi padrona del patriarcato, fu in grado di sostituirsi in tutto ad essi. Con loro entrò un elemento nuovo nella borghesia friulana, più colto, più intraprendente, che certo dovette anche influire sullo sviluppo della cultura. Anzi, alcune famiglie toscane entrarono a far parte di quella nobiltà cittadina, che gareggiò con la nobiltà ministeriale dei villaggi.
Le ultime imprese patriarcali ben riuscite furono quelle di Gregorio e poi, soprattutto, di Raimondo (morto nel 1299), allo scopo di rassodare la loro potenza sull'Istria. Non riuscirono tuttavia ad eliminare la potenza veneziana, che, oltre a rendersi arbitra della vita marittima delle città costiere (esclusa Trieste), era riuscita a conquistare anche parte dei castelli dell'interno. I patriarchi del sec. XIV dovettero invece rivolgere la loro attività all'interno del Friuli, dove le trasformazioni a cui andò soggetto, e le cupidigie dalle quali era circondato d'ogni parte, prepararono la rovina del patriarcato temporale. Le contese dei feudatarî incastellati con le comunità, fra cui emersero quelle di Udine e Cividale, di Portogruaro e Sacile, si fecero sempre più aspre, rivolgendosi ad ora ad ora contro lo stesso patriarca; mentre, d'altra parte, i principi transalpini volgevano le loro bramosie sullo stato patriarcale, per conseguire lo sbocco sul mare, e Venezia vigilava per non perdere il raggiunto monopolio del commercio. Per mettere un principe energico alla testa del patriarcato, come successore di Bertrando di San Genesio, francese, ucciso da una fazione ribelle (1350), il pontefice scelse Nicolò di Lussemburgo, fratello naturale di Carlo IV imperatore (morto nel 1358); poi, a Lodovico della Torre (morto nel 1365), che non era riuscito a tenere in freno le ambizioni di Rodolfo di Asburgo, duca d'Austria, diede come successore un bavarese: Marquardo di Randeck (morto nel 1381), il quale, primo, pubblicò ufficialmente le costituzioni della Patria del Friuli e cominciò a dare nuovo ordine alle finanze patriarcali. Disgraziatamente, Urbano VI diede poi in commenda il patriarcato a Filippo d'Alençon, che dovette rinunciarvi verso il 1384, in seguito al malcontento di gran parte dei Friulani ed alle gelosie sorte fra i Carraresi di Padova e i Veneziani per il predominio che gli uni e gli altri volevano accaparrarsi nel Friuli. Dopo Filippo, fu patriarca il fratello naturale dell'imperatore Venceslao, Giovanni di Moravia, Che fu ucciso nel 1394, per vendetta, da Tristano di Savorgnano. Antonio Caetani, della storica famiglia romana, tenne dopo di lui il patriarcato solo sino al 1402, quando fu fatto cardinale. Scompigli si ebbero nel patriarcato durante gli anni susseguenti, a causa del grande scisma d'occidente; nel 1412, il capitolo d'Aquileia scelse a patriarca Lodovico di Teck, candidato dell'imperatore Sigismondo, il quale volle approfittare di queste lotte ed inviò i suoi Ungheresi per domare il Friuli. Ma Venezia, vedendo per sé un pericolo prossimo in siffatto allargarsi della potenza imperiale di qua dalle Alpi, occupò nel 1420 tutto lo stato patriarcale e costrinse nel 1424 il conte di Gorizia a riconoscere da lei l'investitura dei suoi feudi friulani. Lodovico di Teck, protestando contro la spogliazione, che del resto era stata provocata dalla sua politica, si ritirò in Germania e morì al concilio scismatico di Basilea, nel 1439. Venezia pose un luogotenente a Udine per il governo della Patria del Friuli, rispettò gli ordinamenti esistenti, cioè i diritti signorili della nobiltà, del clero e delle comunità; lasciò che il parlamento continuasse a radunarsi, sebbene perdesse di fatto gran parte della sua importanza, riservò a sé tutti i diritti sovrani di guerra e di pace, di battere moneta, d'imporre tasse, di fare leggi, di ricevere appelli. Dovette però cercare una composizione con Eugenio IV, che sorse a difendere i diritti del patriarcato, al quale aveva nominato il suo camerlengo, Lodovico Trevisan veneziano. Questi però, dopo lunghi negoziati, scese a patti con la signoria di S. Marco, il 10 giugno 1445, cedendo definitivamente ad essa lo stato, ma conservando la signoria feudale su Aquileia e sui due castelli di S. Daniele e di S. Vito al Tagliamento, con una annua pensione. Né il Trevisan, diventato cardinale nel 1440 (morto nel 1465), né il cardinale Marco Barbo, che fu creato patriarca nel 1470 e che morì nel 1491, risiedettero nel patriarcato. Intanto, nel 1453, la diocesi di Mantova era stata sottratta alla giurisdizione metropolitica del patriarca e resa indipendente; nel 1461 Pio II, su preghiera dell'imperatore Federico III, erigeva la nuova diocesi di Lubiana, togliendo così al patriarcato una parte dei suoi territorî transalpini, e la dotava con la ricca abbazia di Obernburg, situata pure nel patriarcato. D'altra parte, la curia patriarcale, che da secoli non aveva sede fissa ma seguiva il patriarca dove questi dimorava, si stabilì di fatto ad Udine, come in luogo più opportuno.
Il patriarcato, che aveva perduta oramai ogni importanza politica, fu duramente provato durante il sec. XV dalle invasioni turche e poi nel XVI dalle guerre della lega di Cambrai, che permisero a casa d'Austria, signora sin dal 1500 della contea di Gorizia, di occupare anche Aquileia e gran parte del Friuli orientale. Tale occupazione, oltre ad essere di grave danno, servì anche di pretesto agli Asburgo per lamentare che il patriarca fosse sempre un veneziano (durante tutto il sec. XVI la sede patriarcale fu costantemente in mano di prelati di casa Grimani), e per impedirgli perciò l'accesso in Aquileia e negli altri loro territorî. E poiché tutto ciò non approdava ancora a nulla, cominciarono a metter innanzi l'idea di costituire uno o anche più vescovadi con quei territorî del patriarcato (Carinzia meridionale, Carniola superiore ed inferiore, contea di Gorizia) che erano sotto il loro dominio; ma, opponendosi Venezia con tutta l'influenza che poteva esercitare sulla Curia romana, e non trovandosi la dotazione necessaria, non si giunse per lungo tempo a pratica conclusione. La costruzione della fortezza di Palmanova nel 1593, fatta allo scopo di provvedere a nuove possibili invasioni turche, poi la guerra di Gradisca del 1616, combattutasi fra Venezia e l'Impero, non modificarono di molto le condizioni del Friuli. Da quel tempo in poi molto si lottò diplomaticamente riguardo ai confini lungo il versante del confine orientale; ma, poiché Venezia non intendeva rompere le relazioni con l'Impero, si trovò sempre il modo di giungere ad un accomodamento; e si comprende quindi come nel 1750 Benedetto XIV poté cominciare ad introdurre un nuovo ordinamento ecclesiastico riguardo al patriarcato, col costituire un vicario apostolico per i paesi soggetti all'Impero: primo passo alla risoluzione definitiva. Con la bolla Iniuncta nobis, del 6 luglio 1751, il patriarcato fu soppresso: la città di Aquileia assoggettata alla S. Sede, costituito l'arcivescovado di Gorizia in luogo del vicariato apostolico, e quello di Udine per tutti i territorî patriarcali soggetti alla repubblica di Venezia. L'archidiocesi di Udine fu perciò metropoli per le diocesi istriane (meno Trieste e Pedena ch'erano soggette all'Impero), e per le diocesi venete di Concordia, Ceneda, Feltre-Belluno, Padova, Vicenza, Verona. E così, col patriarca Daniele Delfin, diventato arcivescovo di Udine il 19 gennaio 1753, dopo tanti secoli di gloriosa e multiforme esistenza, cessava il patriarcato di Aquileia.
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