ANTROPOMORFI o scimmie antropomorfe (dal gr. ἄνϑρωπος "uomo" e μορϕή "forma")
Famiglia di scimmie catarrine (Simiidae, Bonaparte 1838 e 1850), con due sottofamiglie: gli Oranghi (Simiidae, Pocock 1925, col genere Simia, Linneo 1758) e gli Scimpanzè (Anthropopithecinae, Pocock 1925, coi generi Anthropopithecus, Blainville 1838 e Gorilla, Geoffroy 1852). La voce antropomorfi significa "scimmie a forma umana", ma la somiglianza con l'uomo, che è assai evidente nei feti e negli individui giovanissimi, va via via attenuandosi con l'accrescimento, nell'età adulta ed in età avanzata, specialmente nei maschi. Più che nella forma d'insieme dell'animale intero, tale somiglianza risiede nei caratteri anatomici e fisiologici di parecchi organi e gruppi di organi interni, nell'espressione della faccia e nella mimica facciale, nell'ampio uso degli arti anteriori, anche in atti che non si riferiscono alla locomozione, e nelle disposizioni psichiche. Il piano comune all'uomo e agli Antropomorfi deve quindi avere origini assai remote, se nel risultato finale e complessivo dei singoli individui predominano le palesi e profonde modificazioni correlative agli speciali modi di vita dell'uomo e degli Antropomorfi. Per l'uomo lo speciale modo di vita risiede nel fatto che la locomozione è devoluta esclusivamente agli arti posteriori, il che implica per necessità meccaniche la stazione eretta ed abitudini prettamente terrestri, mentre l'arto anteriore acquista ampissima libertà e capacità d'azione non ambulacrale; per le scimmie antropomorfe lo speciale modo di vita sta invece nel movimento sugli alberi o nel fitto della foresta, ove arti anteriori e posteriori si suddividono il lavoro in parti pressoché uguali, poiché nessun antropomorfo è prettamente saltatore. Gli arti anteriori sono negli Antropomorfi sempre più lunghi e robusti dei posteriori, l'avambraccio è, relativamente al braccio, più lungo che nell'uomo, mano e piede sono di lunghezza pressochè uguale tra di loro. La mano è, nel suo insieme, più o meno inarcata in modo che è particolarmente atta all'agganciamento ai rami, mentre il pollice, che si rende libero dalla palma molto vicino alla radice della mano, è corto, piuttosto debole, poco opponibile. Il piede rappresenta dal più al meno una tanaglia atta a stringere i rami: ha quindi l'alluce sempre robusto e contrapposto alle altre dita più o meno inarcate, ed il calcagno meno largo e prominente che nell'uomo. Nell'incesso sul suolo la palma della mano non è mai posata sul medesimo, restando essa allineata con l'avambraccio mentre la superficie dorsale delle dita ripiegate aiuta a portare il peso del corpo; e nel piede, pur non essendo il calcagno mai sollevato da terra, il margine laterale della pianta poggia sul suolo con una prevalenza sul mediale molto maggiore che nell'uomo, prevalenza che può esagerarsi al punto da permettere il ripiegamento delle dita durante l'incesso stesso. Nell'uomo la netta separazione funzionale tra arti anteriori e posteriori presuppone l'esistenza d'un tratto di compensazione tra tronco superiore e tronco inferiore, tratto della regione lombare, ed il bacino è per così dire egato con particolare intimità agli arti posteriori, specialmente per mezzo della muscolatura gluteale, grandemente sviluppata e riccamente ricoperta di tessuti connettivali ed adiposi; negli Antropomorfi invece il tronco forma un insieme più omogeneo rispetto ai movimenti degli arti; la regione lombare è praticamente breve e la sacrale termina all'indietro poveramente ed a punta. Ma l'ampiezza e particolarmente la larghezza toracica, massima sulle spalle e sulle coste, sono molto maggiori negli Antropomorfi che nell'uomo. Il collo è robusto ma breve, dimodoché la testa, sempre assai poderosa, appare talvolta come incastrata tra le spalle ed appoggiata sul petto. La testa stessa, nell'insieme tondeggiante nei giovani, si fa, collo sviluppo progressivo della potenza morditiva, vieppiù sporgente nella porzione facciale, specialmente nei maschi. Il naso esterno non è affatto prominente; il margine molto sottile delle labbra non mostra la tumefazione e l'integumento modificato rosso caratteristici dell'uomo, ma le labbra hanno nel loro insieme dimensioni vastissime e sono estremamente mobili ed espressive. Come nell'uomo, manca ogni traccia esterna di coda. Il rivestimento peloso è fondamentalmente differente da quello umano: esso costituisce una densa copertura, che in nulla di sostanziale si differenzia da quella di altre scimmie; la testa non ha una capigliatura particolarmente abbondante; le regioni ascellare e pudenda sono poverissime di pelo, né sono esclusivi degli Antropomorfi, di fronte alle altre scimmie, quei pochi caratteri che hanno in comune, a questo riguardo, con l'uomo: la scarsità e brevità di pelo sulla faccia, la presenza tutt'altro che generale di baffi e barba, la ricorrenza del pelo sull'avambraccio. Le callosità ischiatiche mancano. Nei genitali maschili esterni colpisce la piccolezza delle dimensioni, vantaggiosa forse nell'esercizio dell'arrampicamento e movimento tra la densa vegetazione. La mestruazione delle femmine è accompagnata da notevoli gonfiori dei genitali esterni. L'amplesso si compie dal più al meno come nelle altre scimmie. La forte differenza di dimensioni, robustezza e capacità d'offesa e difesa tra maschi e femmine, ravvicina decisamente gli Antropomorfi alla grande maggioranza delle altre scimmie; la lentezza del loro sviluppo e forse anche la durata della vita sembrano essere pressoché le stesse che nell'uomo. Nella vita libera gli Antropomorfi sono prevalentemente vegetariani: ma all'occasione non disdegnano del tutto il nutrimento animale. Mostrano un indizio d'abitudini casalinghe, con la tendenza, che tutte hanno, a prepararsi un giaciglio morbido di fronde e foglie fresche, sul quale se è necessario si coprono con altre foglie e fronde; non tornano per altro al giaciglio già adoperato, preferendo costruirne sempre dei nuovi, indubbiamente perché le foglie rendono calore durante il primo disseccamento. Se catturati giovanissimi, allevati con cura nei paesi d'origine e trattati benevolmente nella destinazione definitiva, possono adattarsi alla prigionia, alla cucina e alle bevande abituali dell'uomo, e si cattivano la simpatia di quanti le praticano ed osservano, per le indubbie espressioni della loro affettività e le evidenti prove d'intelligenza. Vanno facilmente soggetti a disturbi intestinali, all'appendicite, al rachitismo e alla tisi, che ne troncano spesso l'esistenza. Catturati adulti, sono incapaci d'adattarsi al nuovo ambiente e di affezionarsi a chi li custodisce e muoiono lentamente di fame e di tristezza.
Morfologia e fisiologia, anatomia, sierologia ed endocrinologia ci dimostrano le strette affinità tra uomo e Antropomorfi.
I cosiddetti selvaggi li considerano generalmente come "uomini della foresta", coi quali vivono secondo i casi in pace o in guerra, e di fronte ai quali adottano talvolta perfino la legge della vendetta del sangue. L'uomo civile li riconosca quali "monumenti della natura", in sé stessi quanto mai perfetti e degni di scrupolosa conservazione e diligentissimo studio.
La sottofamiglia degli Oranghi abita, col solo genere omonimo, le due grandi isole di Borneo e Sumatra; la sottofamiglia degli Scimpanzè è distribuita coi due generi, Scimpanzè e Gorilla, in Africa, dalla costa della Guinea alla regione dei laghi centrali.
Orango (più completamente Orang-utan "uomo del bosco", dal malese [presso i Daiacchi di Borneo Majas]; lat. Simia auct. (Pongo Lacépède, 1799; fr. orang-outan; sp. orangután: ted. Orang-utan: ingl. orangutan). - I caratteri più spiccatamente distintivi dell'orango sono: la colorazione rosso-bruna del rivestimento peloso; la conformazione e le proporzioni degli arti; l'esagerato sviluppo dei sacchi laringei; l'eventuale presenza di singolari cuscini adiposi alle guancie. L'arto anteriore è, proporzionalmente al posteriore ed al tronco, assai più lungo che nella famiglia degli Scimpanzè; l'avambraccio è sensibilmente più lungo del braccio. La mano è lunga, le dita 2-5, libere d'ogni membrana interdigitale, sono particolarmente inarcate ed il primo dito, proporzionalmente assai lungo, costituisce parte attiva dell'apparecchio agganciatore dato dall'insieme della mano. Il pollice, assai sottile e debole, è invece tanto breve da non raggiungere colla sua punta la metà lunghezza della superficie palmare. L'arto posteriore è proporzionalmente assai corto anche rispetto al tronco. Il piede, molto lungo e stretto, con calcagno breve e debole, ha le dita 2-5 lunghe, robuste, inarcate, e l'alluce, nel quale può mancare l'unghia e può perfino verificarsi la fusione delle due falangi, assai breve; è nel suo insieme articolato obliquamente nella propria caviglia, dimodoché la sua superficie plantare guarda sempre medialmente in basso e non può essere poggiata su di un piano orizzontale che col proprio margine laterale, mentre il ginocchio deve girarsi all'infuori. È senz'altro evidente che l'orango è un eccellente arrampicatore, ma un camminatore poco abile. Sul suolo esso procede infatti in posizione semieretta, grazie alla lunghezza degli arti anteriori, ma adoperando questi quasi come grucce; e se qualche individuo giovane si adatta davvero a camminare per poco in posizione eretta, sforza visibilmente l'arto posteriore, il bacino e la regione lombare, adoperando per di più l'arto anteriore come bilanciere. I sacchi laringei sono nell'orango talmente voluminosi da plasmare la forma esterna della regione golare, ascellare e perfino nucale; particolarmente il sacco golare, già ben riconoscibile nel giovane, si modella nell'adulto all'esterno come un voluminoso cuscino sul quale poggia il mento, né meno marcato è, per l'aspetto d'insieme della testa, l'effetto prodotto dalle protuberanze adipose delle guance, singolari formazioni semilunari, che, inserite sui lati della testa tra orbita ed orecchio, allargano con la loro superficie anteriore la faccia dell'animale e ne nascondono con la posteriore l'orecchio. Esse sono esclusive del maschio, si trovano già accennate in alcuni giovani, ma non raggiungono il massimo sviluppo che in alcuni maschi adultissimi, mentre in altri maschi ben adulti della stessa regione possono completamente mancare. Le dimensioni massime, cui un orango maschio completamente sviluppato può giungere, non sono di molto inferiori ai 2 m. d'altezza dal vertice al calcagno ed ai 3 m. d'apertura di braccia, ed in tal caso ciò che più colpisce è il preponderante sviluppo di braccia e mani, spalle e testa. Quest'ultima ha la fronte relativamente alta ed angusta, le arcate sopracigliari poco prominenti, il muso poco largo, il naso schiacciato e stretto, gli occhi affondati e lucenti, l'orecchio piccolissimo, accollato alla testa e con dettaglio semplice. Il pene è singolarmente piccolo e breve ed ha il ghiande stretto, munito di ampia apertura terminale. Il rivestimento peloso non è molto fitto, specie nei giovani. È scarsissimo in ogni età sul petto, è poco abbondante sul dorso; può invece essere molto ricco e lungo sulle spalle e sulle braccia, sui lati del tronco e specialmente della groppa, ove può raggiungere 50 cm., sugli arti posteriori, compreso il piede. Sulla testa il pelo s'irradia in avanti dall'occipite formando una singolare pettinatura, e nei vecchi maschi esistono talvolta lunghi mustacchi. Le parti nude hanno in generale colore carnicino brunastro, ma specialmente nei vecchi maschi esse divengono grigie ardesia a riflessi bluastri. L'orango abita le due grandi isole di Borneo e Sumatra. A Borneo la sua distribuzione è nota per le regioni costiere settentrionali, occidentali e meridionali, e particolarmente per l'angolo nord-occidentale, che comprende le zone del Landak, Batangtu, Dadap, Genepai, Skalau, Rantau, Tuak e Sarawak. Per Sumatra è nota la distribuzione nelle parti settentrionali e nord-occidentali dell'isola. La sistematica dell'orango è chiara ed assai concorde solo nell'affermare che ne esiste una sola specie: Simia satyrus L. (Pongo pygmaeus Hoppius). Tutto il resto, e cioè la suddivisione in sottospecie e razze, è un problema quanto mai arduo e controverso, per la grande variabilità dell'orango rispetto alla lunghezza e colorazione del pelame, alla presenza o assenza delle protuberanze adipose alle guance, all'estensione dei sacchi laringei, alla grandezza relativa degli occhi, ed ancora più rispetto ai caratteri craniali e dentali. I nomi indigeni di Majas čappan, con protuberanze adipose, e Majas kèssar, come pure Majas ramèh, senza protuberanze adipose, non indicano che fasi estreme, e quindi apparentemente dimorfiche, d'un reale polimorfismo, anche localissimo, sia a Borneo che a Sumatra; le distinzioni che dal 1763 al 1895 furono fatte da Hoppius, Tiedemann, Clark, Owen, Is. Geoffroy e Blyth si basano tutte su caratteri poco sicuri; né maggiore fondatezza sembrano avere i 12 nomi scientifici creati o riesumati dal 1896 in poi per distinguere sei ipotetiche razze dimorfiche. Ciò non vuol dire che in seguito non si possa imparare a distinguere qualche buona forma locale, ma i relativi caratteri, sia morfologici sia zoogeografici, non sono ancora fissati. All'orango occorrono boschi estesi ed ininterrotti, fra i quali predilige quelli di bassura e paludosi. Rarissimamente scende al suolo; di consueto si muove con circospezione nel fitto delle fronde, arrampicandosi, o camminando su rami trasversi in guisa da agganciarsi con le mani e sostenersi con le braccia a rami più alti; nel passaggio da un albero all'altro non salta mai, ma si slancia talvolta cogli arti anteriori. Il giaciglio per la notte è preparato rapidamente con alcune decine di rami giustapposti e sovrapposti, spesso ripiegati ad angolo acuto, mai intrecciati tra di loro; è generalmente di forma ovale, di dimensioni modeste (circa m. 1,50 di diametro massimo) e situato di regola ad altezza di metri 8-16 dal suolo, perché sia meglio al riparo dai venti e dalla rugiada; esso non è abbandonato che quando il sole è già assai alto. Se l'orango è ferito, si costruisce pure rapidamente un giaciglio utile a celarlo e reggerlo. Se ferito assai gravemente e precipitato al suolo, ben di rado tenta una qualche resistenza contro il suo aggressore, forse anche perché non riconosce in lui la causa del proprio male. Quando è ferito meno gravemente, e causa ed effetto gli sono chiari, si difende bravamente, cercando d'afferrare con le mani e d'usare della bocca per mordere. Mai aggredisce non provocato; mai getta intenzionalmente rami sui suoi persecutori. Il suo nutrimento abituale consiste in frutta preferibilmente agre e talvolta amare, in germogli, bocci e foglie; fra le piante coltivate preferisce il Durio e le Garcinie. Se catturato giovane e trattato con cura ed amorevolezza, può sussistere nel nuovo ambiente anche per più di dieci anni, mostrandosi pacifico, generalmente assai flemmatico talvolta abbastanza vivace e divertente. Impara, come si è detto, a valersi del nutrimento misto abituale dell'uomo, comprese le bevande. Impara pure di propria iniziativa ad adoperare degl'istrumenti, come il bicchiere per bere, un bastone per raggiungere oggetti troppo lontani, una spranga per divaricare i ferri della gabbia. È molto taciturno; talvolta si odono dei suoni deboli, alti e piagnucolosi nei giovani, e pochi suoni gutturali negli adulti; talvolta fu udito una specie di brontolio e rarissimamente di ruggito nel maschio adulto. Ripetutamente furono mostrati oranghi catturati in età adultissima, ma vissero sempre pochi mesi; pare però che ai numerosi tentativi fatti nel 1927-29 sia riservato migliore successo. Già a Plinio l'orango era noto per fama; il primo che ne parlò con cognizione di causa fu un medico olandese residente a Giava attorno al 1650, e la prima buona descrizione di un esemplare vivo è di A. Vosmaer (1778), direttore del giardino zoologico del principe d'Oranien vicino a L'Aia.
Passiamo alla seconda sottofamiglia, agli Scimpanzè (Anthropopithecinae). I due generi Scimpanzè e Gorilla, che la costituiscono, hanno il piede relativamente largo, capace d'essere piantato pressoché piatto sul suolo, con calcagno assai ampio e tondeggiante e con alluce lungo, grosso e muscoloso. Le altre dita del piede appaiono, in carne, tutte più brevi e deboli dell'alluce e sono assai meno inarcate che nell'orango.
Scimpanzè (dal nome indigeno in una lingua del Golfo di Guinea; lat. scient. Anthropopithecus, Blainville 1838; dal greco ἄνθρωπος "uomo" e πίθηκος "scimmia" (Pan, Oken 1819; Chimpanse, Voigt 1831); fr. chimpanzé; sp. chimpancé; ted. Schimpanse; ingl. chimpanzee). - La lunghezza complessiva dell'arto anteriore supera di poco quella del posteriore; l'avambraccio non supera per lunghezza il braccio; la mano è relativamente lunga e stretta, con dita lunghe, libere da metà lunghezza della loro falange basale, con pollice debole, inserito molto posteriormente nella mano in carne, breve in modo da non raggiungere colla sua punta la base dell'indice e quindi scarsamente opponibile. Il piede è assai meno lungo che nell'orango, più largo che in questo, ma meno largo che nel gorilla; le dita 2-5 sono libere sin dalla porzione distale della loro falange basale; l'alluce è lungo, robusto, molto divaricabile; il calcagno è di larghezza e forma intermedie tra quelle dell'orango e quelle del gorilla. Nel tronco non vi è esagerata disproporzione fra treno anteriore e posteriore a favore del primo. La testa è tondeggiante, la fronte sempre bassa, ma il muso può essere molto prominente e le arcate sopraccigliari fortemente sporgenti. Il naso è piatto, l'orlo laterale delle narici non è spiccatamente rigonfio. Le labbra sono grandi, abbondanti, mobilissime; l'inferiore tende a sporgere lievemente. L'orecchio è sempre grande e con dettaglio ben marcato. Il pene è sottile ma assai lungo, con ghiande lungo. I gonfiori mestruali della femmina sono assai forti. Lo scimpanzè raggiunge dimensioni minori degli altri antropomorfi: per maschi ben adulti m. 1,40 d'altezza dal vertice al calcagno sono già una statura forte. Tra maschi e femmine non vi è una esagerata differenza. Il rivestimento peloso non è particolarmente denso ed è sempre scarso sul petto, ventre e parte mediale degli arti. Sulla fronte subentra spesso scarsità di peli o calvizie; sulle guance possono aversi fedine più o meno lunghe; il colore predominante è nero, ma si hanno anche toni bruni, rossastri, fulvi, grigi o biancastri. I peli della regione circumanale sono bianchi. Il colore della pelle può variare, a seconda delle regioni del corpo, dell'età o delle razze, da carnicino chiaro a nero intenso ed è talvolta chiazzato di chiaro e scuro. La sistematica dello scimpanzè è altrettanto conlusa quanto quella dell'orango, a causa della grandissima variabilità inerente alla specie. Ne furono via via descritte 28 specie e sottospecie, alle quali sono applicabili tra antichi e recenti 34 nomi. Comincia pertanto ad apparire ai più indubitabile, che tutti gli scimpanzè appartengono ad una specie unica, alla quale è, forse meglio che ogni altro, applicabile il nome di Anthropopithecus troglodytes, Gmelin. Come forma tipica va considerata, a nostro avviso, quella del Congo Francese e Camerun costiero, che come sottospecie va quindi chiamata A. tr. troglodytes, Gmelin. Questo scimpanzè è il Tschego, di statura grande, piuttosto slanciata, colla faccia tutta scura, fronte bassa, arcate sopraccigliari sporgenti, muso lungo, rivestimento peloso, nero in gioventù, ma più o meno chiaro, specialmente sulla groppa, nell'età adulta e nella vecchiaia. Sarebbero sinonimi di A. tr. tr. i nomi specifici e sottospecifici seguenti: satyrus L., niger E. Geoffr., tschego Duvernoy, vellerosus Gray, Aubryi Grat. Alix, fulipinosus Schaufuss, raripilosus Rothsch. e forse anche Ellioti Matsch., Oertzeni Matsch., Reuteri Matsch., ochroleucus Matsch., Schneideri Matsch., papio Matsch.
Nell'interno del Congo Francese e del Camerun vive uno scimpanzè che a noi appare solo dubbiamente distinguibile dal precedente, e che sarebbe caratterizzato dalla rotondezza della testa, brevità del muso, grandezza degli orecchi. A questo scimpanzè spetta il nome di A. tr. calvus Du Chaillu, in sinonimia del quale vorremmo mettere koolo-kamba Du Chaillu, e forse anche pygmaeus Rothschild. Nell'Africa equatoriale, e precisamente nel bacino dell'alto Congo e nei paesi dei grandi laghi, a sud fino al Tanganica, vive uno scimpanzè non molto grande, con faccia da bruno olivacea fino a nerastra, rivestimento peloso piuttosto lungo, fedine generalmente cospicue, fronte relativamente alta, cui spetta il nome di A. tr. Schweinfurti Giglioli. Sono semplici sinonimi: marungensis Noaek, ituricus De Pauw, nahami Matsch., Cottoni Matsch., ituricus Matseh., yambuyae Matsch., Graueri Matsch., calvescens Matsch., Schubotzi Matsch., Steindachneri Matsch., e forse anche Purschei Matsch., Pfeifferi Matsch., castanomale Matsch. Dal Gambia alla Liberia si estende infine probabilmente una sola sottospecie, A. tr. chimpanse Mayer, di cui sono sinonimi troglodytes Flower e Lyddekker, niger Brehm, di statura mediocre, con la pelle della faccia scura attorno agli occhi, chiara attorno alla bocca e sull'arcata sopraccigliare.
Lo scimpanzè, pur essendo un arrampicatore abilissimo, sia nel fitto delle fronde sia sugli alti tronchi nudi, è anche un assai buon camminatore. Ordinariamente poggia sui quattro arti, ripiegando le dita della mano incallite superiormente e tenendo anche le dita del piede ripiegate. Ma gli arti posteriori portano gran parte del peso del corpo, tantoché, all'occasione, lo scimpanzè è perfino capace di galoppare rapidamente. Se si alza sugli arti posteriori, posa la pianta abbastanza piatta sul suolo. Gli scimpanzè si trattengono abitualmente sul suolo, cercano la loro salvezza con la fuga nel fitto dei cespugli, ma salgono molto spesso sugli alberi per cercarvi il nutrimento, e regolarmente per dormire. Si preparano infatti a 8-12 m. al di sopra del suolo un giaciglio poco spazioso, ripiegando in generale più o meno concentricamente, o incrociando parecchi rami freschi e fronzuti. Spesso il giaciglio è occupato dalle femmine col loro piccolo, mentre il maschio riposa in una vicina biforcazione di rami. La famiglia è generalmente costituita di un maschio, che si tiene alquanto in disparte, ed alcune femmine con giovani e lattanti. S'incontrano anche dei vecchi maschi solitarî; ma i giovani d'ambo i sessi usano formare, per spirito di socievolezza, delle frotte più o meno numerose e sempre rumorose per frequenti urli di gioia, alte strida di protesta, grida lamentevoli di arrendimento; tra i loro passatempi occupa un certo posto la danza, consistente in battimani, battipiedi, salterelli e giravolte, apparentemente differenti nei maschi e nelle femmine. Anche le famiglie costituite eseguiscono, specie mattina e sera, dei brevi concerti con adagio, crescendo e decrescendo. Le abitudini degli scimpanzè sono indubbiamente vaganti, per quanto le famiglie sembrino tenere ad un dato territorio. La muta dei denti si inizia a 6 anni; i maschi sono sessualmente maturi a 11-12 anni e le femmine a 8. L'accoppiamento si compie in modo simile alle altre scimmie, ma la femmina si accovaccia molto bassa. Il neonato è scarsamente rivestito di pelo, resta con la madre probabilmente almeno 3 anni ed è difeso da ambo i genitori. Il nutrimento degli adulti è prevalentemente, se non esclusivamente, vegetale: frutta dolci o acidule, germogli di foglie e fiori, radici; sono spesso mentovati come preferiti i generi Amonium, Treculia, Musa e tra le piante coltivate Sorghum e Papaya. Per propria natura lo scimpanzè non è aggressivo; dopo dure esperienze può però in alcuni casi aggredire, anche se non provocato. Prima d'attaccare, il maschio minaccia, battendosi coi pugni. Combattendo cerca d'afferrare e mordere. Se giunto a destinazione sano, e se trattato molto bene, lo scimpanzè può resistere parecchi anni in prigionia. I giovani sono vivaci, divertentissimi e di disposizioni estremamente amichevoli verso chi li avvicina e verso i loro simili. Sembranoo intuire la loro inferiorità di fronte all'uomo e la loro superiorità di fronte ad altri animali. Mostrano ottima memoria fisionomica, imparano a distinguere parecchie parole, ad adoperare varî istrumenti, a valersi degli arti posteriori in modo notevolissimo, a pattinare, a montare in bicicletta, a mangiare e bere di tutto ed apparentemente anche a fumare. Sono estremamente espressivi nella mimica della faccia e degli atteggiamenti del tronco e degli arti. Gli adulti possono conservarsi mansueti e fidati, ma spesso, particolarmente i maschi, diventano ribelli, pericolosi e vanno soggetti ad esplosioni terribili di collera. I nemici più temibili dello scimpanzè in prigionia sono una certa forma d'alopecia, il rachitismo, l'anemia, lo scorbuto, la tisi, alcuni vermi intestinali, che tormentano anche l'uomo. Il primo viaggiatore che conobbe lo scimpanzè per propria esperienza al Congo fu il navigatore portoghese Lopez, verso la fine del 1500; il primo scimpanzè vivo fu portato in Europa dal Tulpius, nella prima metà del 1600. Per quanto lo scimpanzè sia ancora frequente in varie località, pure la caccia e cattura insensata a suo danno, e la sempre maggiore richiesta, che se ne fa da istituti scientifici, rendono lodevolissima l'iniziativa, presa da varie parti, di metterlo in determinate contrade sotto la protezione completa della legge.
Gorilla (da voce africana menzionata da Annone, navigatore cartaginese del quinto o sesto secolo a. C. nel suo Periplus; lat. scient. Gorilla Geoffroy; gr. forille; sp. gorila; ted. e ingl. Gorilla). - L'arto anteriore è relativamente più lungo che nello scimpanzè. Il braccio è assolutamente più lungo dell'avambraccio. La mano è relativamente corta, munita di palma ampia, con le dita 2-5 piuttosto corte e non adatte all'agganciamento ai rami, o allo slancio da ramo a ramo, e con pollice breve, ma assai robusto. Il piede ha la pianta larga ed abbastanza piatta, il tallone assai ben sviluppato, le dita 2-5 relativamente corte e riunite tra di loro fino all'estremo distale della falange basale, l'alluce grosso e robustissimo. Il margine laterale della narice, molto ampia, è fortemente rigonfio. Le orecchie sono piccole, ma provviste di complicato dettaglio. Il pene è corto, con ghiande grosso a forma di fungo. Vi può essere fortissima differenza di statura tra i due sessi, a favore del maschio. Questo raggiunge dimensioni talvolta gigantesche: m. 2,30 d'altezza,1, 10 m. di larghezza di spalla, quasi 3 m. d'ampiezza di braccia e fino a 300 kg. di peso; ma, accanto a maschi giganteschi, se ne trovano sempre anche di dimensioni mediocri o modeste. Il torace e la sua pesante muscolatura hanno uno sviluppo particolarmente esagerato. Nella testa le creste sopracigliari sono fortemente prominenti; le labbra sono meno mobili che nello scimpanzè. Il rivestimento peloso è denso, talvolta molto abbondante e lungo, fuorché sul petto, ove scarseggia specialmente nel maschio adulto; anche il dorso della mano e del piede sono riccamente rivestiti. Il colore predominante nel giovane e nella femmina è il nero, ma coll'avanzare dell'età, e specialmente nei maschi, ha di regola luogo un incanutimento progressivo, che interessa particolarmente il basso dorso e la coscia. La distribuzione geografica del gorilla va dal fiume Cross, fra Nigeria e Camerun, per tutto il Bacino del Congo fino al lago Kivu ed al Tanganica nell'Africa centro-orientale. Anche per questa scimmia viene vieppiù consolidandosi la convinzione dell'unità specifica. Tutti i gorilla devono quindi chiamarsi scientificamente Gorilla gorilla Wyman. Due sottospecie sono peraltro sicure e distinguibili: 1) il gorilla tipico del Gabun (G. g. gorilla Wyman), con pelame moderatamente lungo e complessivamente assai chiaro nel vecchio maschio, e coll'osso occipitale stretto; 2) il G. g. Beringei Matschie, di forma più pesante, con pelame molto lungo, fitto, prevalentemente nero anche nel maschio vecchio e coll'osso occipitale largo. Come terza razza probabilmente distinguibile va registrato il gorilla del Camerun, G. g. Diehli Matsch., esternamente simile al gorilla tipico, ma con osso occipitale largo. Una quarta razza distinguibile è forse anche il G. g. Graueri Matsch., della punta nord-ovest del Tanganica, il quale riunisce in sé i caratteri della lunghezza del pelo del Beringei con la colorazione chiara del maschio adulto del gorilla tipico. Delle altre razze finora descritte G. g. castaneiceps Lack, del Congo Francese, e G. g. manyema Al. Bouv. sono sinonimi di G. g. gorilla; Matschie Rotsch., Jakobi Matsch., Hansmayeri Matsch., Zenkeri Matsch., tutti del Camerun, e Halli Rothsch., della Guinea Spagnuola, sono indubbiamente sinonimi di G. g. Diehli Matsch.; G. g. mikenensis Lönnberg, del vulcano Mikeno a nord del lago Kivu, non resterà forse in definitiva distinguibile dal G. g. Beringei Matsch. L'esistenza del gorilla è legata alla foresta densa, fitta, quasi oscura; la sottospecie orientale vive tra il fitto dei bambù. Cammina generalmente sui quattlo arti, poggiando la pianta del posteriore e le nocche incallite dell'anteriore. Si arrampica spesso per cercare del cibo; sul suolo può correre con una certa rapidità. Le femmine dormono su giacigli provvisorî, fatti di pochi rami fronzuti ripiegati, alti da 5-6 m. dal suolo e talvolta poggiati anche sul suolo stesso. Il maschio riposa generalmente a terra, appoggiato ad un tronco. Le famiglie sono di regola costituite di un maschio ed alcune femmine, ciascuna delle quali può essere accompagnata da 2 piccoli di differenti parti. Probabilmente i giovani indipendenti formano piccole compagnie per proprio conto. Il gorilla è molto meno rumoroso dello scimpanzè, talvolta grugnisce e brontola, ma nel dolore rugge e strilla furiosamente; per avvertimento il maschio tambureggia sulla propria guancia a bocca aperta, per minaccia batte violentemente il proprio petto coi pugni. Nell'attacco avanza saltellando rapidamente sui quattro arti e cerca di afferrare colle mani e mordere. È generalmente d'indole tranquilla, riservata e poco aggressiva; anche se aggredito dall'uomo, preferisce talvolta la fuga alla difesa. Si nutre di frutta preferibilmente acidule, di piante odorose ed aromatiche e forse anche di radici. In prigionia si riuscì una sola volta (Breslavia 1897-1904) a conservare in vita per parecchi anni un gorilla femmina, che rimase sempre docilissimo. I piccoli, osservati in cattività, si mostrarono assai allegri e vivaci finché sani, ma caddero in un'apatia completa e mortale appena ammalati. Il primo europeo, che conobbe de visu il gorilla al Congo, fu l'inglese Battel nel 1590. I primi dati scientificamente sicuri sulla specie furono forniti dal Savage nel 1847. Il gorilla non fu certo mai comune in alcun luogo; oggi esso comincia a scarseggiare e a scomparire in varie contrade ed abbisogna quindi della protezione dell'uomo ancora più che lo scimpanzè e l'orango.
Bibl.: Sugli Antropomorfi in generale: R. Hartmann, Die menschenähnlichen Affen, Lipsia 1883 (trad. it. di G. Cattaneo, Milano 1884); H. O. Forbes, Handbook to Primates, Londra 1894; A. Sokolowsky, Beobachtungen über die Psyche Menschenaffen, Francoforte s. M. 1908; Rotschild, in Proc. Zool. Soc., Londra 1904, pp. 413-440; Elliot, in Review Primates, New York, III (1912); A. E. Brehm, Tierleben, 4ª ed., XIII, Lipsia 1916; Pocock, in Proc. Zool. Soc., Londra 1925, pp. 1479-1579.
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Gli antropomorfi fossili.
Gli ultimi tempi hanno visto il moltiplicarsi di scoperte di resti fossili di antropomorfi, in molti luoghi della Terra, in guisa che oggi si è in possesso di una numerosa serie di fatti, che permettono di trarre alcune conclusioni, interessanti circoli più vasti di quelli dei competenti. Passiamo innanzi tutto in breve rassegna il materiale più importante finora trovato, esponendolo sotto il nome del genere, nell'ordine temporale in cui questo fu stabilito, e con brevi cenni storici.
1° Pliopiteco (Pliopithecus). Lartet trovò, nel 1836, una mandibola quasi completa a Sansan (Gers), e la metà destra incompleta di un'altra mandibola. Successivamente furono trovati altri scarsi resti. Materiale invece assai più vasto è quello illustrato dall'Hofmann nel 1893, e trovato a Göriach, nella Stiria. Esso consta soprattutto di un ramo sinistro di mandibola, di altri 8 frammenti di mandibola e denti inferiori sciolti, due mascellari superiori e due dentature da latte inferiori.
2° Driopiteco (Dryopithecus). La prima descrizione organica e il nome di questo genere furono dati, nel 1856, dal Lartet. Si trattava di una mandibola quasi completa, ma rotta, e di una diafisi omerale trovata a Saint-Gaudens. Nella stessa località furono scoperte altre due mandibole e una quarta in Ispagna a Seo de Urgel (Lérida). Il Branco illustrava poi molti denti trovati in Germania anche prima del 1856 e li assegnava a questo genere. Nel 1918 il Pilgrim trovava ed illustrava, in terreni dei colli Siwālik, in India, altro materiale, che assegnava a questo stesso genere, suddividendolo in tre specie.
Furono attribuite ancora a questo genere, nel 1920, dal Fourteau, due mandibole frammentarie, cui accenneremo presto.
Infine, nel 1922, l'americano Barnum Brown trovava nei Siwāli tre mandibole incomplete, assegnate dal Gregory a tre nuove specie (e provenienti da orizzonti disposti dal Miocene medio al Pliocene inferiore).
3° Oreopiteco (Oreopithecus). Dalle ligniti mioceniche della Toscana (Monte Bamboli, Casteani), a partire dal 1870, furono scavati parecchi resti di un antropomorfo, che si riferiscono però tutti alla dentatura.
4° Paleopiteco (Palaeopithecus). Stabilito, nel 1879, dal Lydekker, basandosi sul ritrovamento di una mascella superiore incompleta e di alcuni denti molto consumati. Nel 1886 il Lydekker stesso assegnava tali resti al genere vivente Scimpanzè, ma il Dubois poi ripristinava il genere Palaeopithecus.
5° Anthropodus. Lapouge fondava questo genere, nel 1901, sopra un secondo incisivo superiore sinistro ed un osso mascellare, trovati a Montpellier.
6° Neopiteco (Neopithecus). Nel 1901 lo Schlosser, ristudiando i denti trovati in Germania e illustrati, come abbiamo visto, dal Branco, ne separò un dente chiamato da lui Anthropodus, ma che, essendo questo nome già stato assunto per altro genere, fu ribattezzato dall'Abel col nome di Neopithecus.
7° Grifopiteco (Griphopithecus). Fondato dall'Abel nel 1902, sopra un dente trovato nei calcari della Leitha, nel bacino di Vienna.
8° Propliopiteco (Propliopithecus). Questo reperto, forse il più importante fra tutti, consta di una mandibola rotta, ma quasi completa. Alla serie dentaria mancano solo gli incisivi e un canino. Questo pezzo appartiene ad un terreno molto antico, l'Oligocene basale, e fu trovato in Egitto. Ne diede un'ampia illustrazione lo Schlosser nel 1911.
9° Palaeosimia. È un ultimo molare superiore destro, trovato negli strati di Siwālik e descritto dal Pilgrim nel 1915.
10° Sivapiteco (Sivapithecus). Questo fossile suscitò molto scalpore, giacché fu presentato come un uomo del Miocene, vale a dire di un tempo di cui non avremmo finora, secondo i più, resti sicuri. Si tratta principalmente di due frammenti di mandibola, che presentano porzione di superficie prossima al piano mediano della sinfisi e che portano molti denti. Vi sono inoltre denti sciolti. Questi resti furono trovati nei colli di Siwālik.
11° Prohylobates. Negli ultimi anni della guerra mondiale, furono trovati a Moghārah, località dell'Egitto di NO., prossima alla frontiera, in strati fluvio-marini appartenenti al Miocene inferiore, dei resti fossili, che furono dal Fourtau attribuiti in parte ad un genere nuovo, da lui creato: Prohylobates, e in parte giudicati appartenenti ad una piccola specie di Dryopithecus.
12° Esperopiteco (Hesperopithecus). In terreni del Pliocene inferiore (Snake Creek) degli Stati Uniti furono trovati, intorno al 1920, successivamente, due denti, probabilmente un secondo e terzo molare superiore, di una forma che l'Osborn credette di poter diagnosticare appartenente al gruppo degli Antropomorfi e che egli battezzò col nome suddetto.
In questa esposizione non si trova un genere, che qualche lettore vi potrà cercare, cioè il Pitecantropo (Pithecanthropus). Ad esso, per più motivi, è riservato un articolo speciale.
Come si vede, la maggioranza di questi resti consta di denti. Questa circostanza implica due conseguenze di ordine diverso: 1°. l'interpretazione dei detti resti è suscettibile di divergenze non trascurabili, dipendenti dall'assunzione dell'una o dell'altra teoria dentaria; 2°. l'esposizione dei fatti e della loro interpretazione, a persone che non siano di stretta competenza, deve risultare piuttosto difficile.
Riguardo al primo punto, cercheremo di riferire le conclusioni più accettabili allo stato attuale della scienza o più largamente ammesse; riguardo al secondo, cercheremo di alleggerire il più possibile l'aridità dell'esposizione.
Nel dente molare degli Antropomorfi (come del resto in generale in quello dei Mammiferi) si distinguono diverse parti. Abbiamo cioè una radice ed una corona: intercalato fra le quali, alcuni distinguono un colletto. La corona, la parte di gran lunga più importante, presenta delle "cuspidi" in numero variabile. Nel molare superiore (A, fig. 4), esse sono ordinariamente quattro: protocono, metacono, paracono, ipocono; la prima è unita alle due seguenti ordinariamente con due creste, delle quali la seconda (che unisce protocono a paracono) si chiama cresta obliqua. La unione delle tre punte si chiama trigono.
Nel molare inferiore si possono distinguere 6 cuspidi, ma non tutte sono sempre presenti (B, fig. 4). I loro nomi sono: protoconide, metaconide, paraconide, ipoconide, entoconide e mesoconide (chiamato anche ipoconulide). Il protoconide è quasi sempre unito al metaconide da una cresta. La unione delle prime tre punte, spesso sopraelevata, si chiama trigonide. La corona del dente è circondata talvolta da un ispessimento, che non è però mai continuo, chiamato cingulum o cintura. Le cuspidi sono diversamente alte nelle diverse forme, ed anche assai diversamente individuate, essendo separate da forti solcature là dove sono smilze, essendo più o meno incorporate fra loro là dove sono massiccie. Anche la superficie della corona, ricoperta dallo smalto, è di assai diverso aspetto, potendo essere molto liscia o ricoperta di striature, più o meno grossolane o fini.
Per dare un'idea delle dimensioni della forma relativa, daremo le dimensioni del secondo molare, là dove esiste, essendo quello che più fedelmente offre le dimensioni medie della categoria. Daremo le dimensioni nell'ordine lunghezza, larghezza, altezza. Dalle dimensioni di larghezza e di lunghezza viene spesso calcolato un rapporto (indice), che ci dà un'idea della forma della corona, vista dalla superficie masticatoria. Useremo anche delle notazioni più comuni, come P per premolare, e M per molare, apponendo l'esponente numerico1, 2, 3, per indicare il posto ordinale del dente considerato.
Pliopiteco: da strati miocenici basali di Francia e Stiria. Il ramo orizzontale della mandibola non è più così sottile e slanciato come nei Primati più primitivi, e quindi implica una differenziazione iniziata nel senso degli Antropomorfi che hanno rami orizzontali alti e spessi. Per questo carattere il Pliopiteco è già oltre il Gibbone, cui spesso è stato avvicinato, secondo noi, oltre il legittimo. Le dimensioni dei molari sono press'a poco quelle dei molari dei Gibboni.
Il tipo dei molari inferiori è il più antico che si riscontri in tutto il gruppo di Anthropoidea (secondo il Sera: Uomini, Antropomorfi, Gibboni), e cioè: cuspidi basse, di forma subconica, a base larga, distanziate fra loro, assenza di striatura (crenazione) dello smalto dentario, resti assai forti di cingulum e serie esterna delle cuspidi, nel molare inferiore, posta quasi sulla linea assiale del dente, cioè vicina all'interna (D, fig. 5). La presenza di resti di paraconide (cuspide non rappresentata nello schema, perché presente di rado nel gruppo e sita sul margine anteriore del dente, fra proto- e metaconide) rende questa forma estremamente arcaica. Questi caratteri del molare allontanano assai il Pliopiteco dal Gibbone. Il primo premolare è assai corto e largo, il secondo lungo, il canino assai basso. Questi caratteri, certamente primitivi, allontanano il Pliopiteco anche dagli antropomorfi attuali. Riguardo alla riduzione dell'ipocono nel molare superiore, ammessa dal Hofmann, essa non ci pare evidente.
È difficile farci un'idea della forma esterna del Pliopiteco, soprattutto dovendo abbandonare l'idea, come pare si debba, della sua stretta affinità col Gibbone. Qui occorre ricordare che, se il frammento superiore di omero, attribuito a questo genere, gli appartiene, esso non doveva affatto essere affine al Gibbone.
Riguardo alle dimensioni, esse dovevano essere quelle di un Macaco delle specie medie.
Driopiteco: dal Miocene medio-superiore. Un femore trovato ad Eppelsheim fu giudicato da Dubois appartenente ad un genere a sé, Pliohylobates, una sorta di grosso Gibbone. Per ragioni strutturali generali, è però poco probabile che si siano potute sviluppare forme gigantesche di Gibboni, o anche forme a grosse dimensioni. La meccanica speciale di questi animali, per slanci presi con un'oscillazione pendolare sulle lunghe braccia, esclude che le dimensioni possano divenire molto grosse. Non è naturalmente escluso che un simile animale possa sussistere, cambiando le abitudini; ma in tal caso cambieranno anche le disposizioni strutturali del femore, cioè la forma relativa perderà le affinità dirette col Gibbone.
Le misure e i rapporti stabiliti dal Dubois, per dimostrare la somiglianza col Gibbone, non sono senza obiezioni, come persuade poco il suo argomento, che il femore non corrisponde per le sue dimensioni ad una mandibola, come quella di Driopiteco. Il femore degli Antropomorfi viventi presenta forti differenze da genere a genere, ed è assai corto in Orango. Lo Schlosser perciò attribuisce questo femore al Driopiteco, secondo noi, con fondamento. Esso, per quanto poco differenziato in genere, pure presenta note sicure di un'avviata specificazione antropoidica. Tale è, ad esempio, la distanza che passa fra le due linee longitudinali che si riscontrano nel suo aspetto posteriore e che corrispondono alle due labbra della linea aspera del femore umano, come è noto, assai ravvicinate nell'uomo. Queste linee, nel femore di Eppelsheim, nel punto del loro massimo riavvicinamento, sono sempre distanti i cm. Questo carattere è certo antropoidico.
Depone poi poco in favore dell'affinità col Gibbone, l'aspetto indifferenziato delle superficie articolari inferiori, che, secondo il Bumüller, uno dei migliori conoscitori del femore, escludono la possibilità di stazione eretta. Questo carattere perciò ci fa ritenere essere stato il Driopiteco prevalentemente, se non esclusivamente, arboreo, e poco adatto alla vita terrestre. È questa una nota di somiglianza con l'Orango. Le misure e i rapporti che più comunemente si determinano nel femore (v. Scheletro) parlano anche poco in favore del diretto ramicinamento col Gibbone.
Per quanto riguarda l'affermazione dello Schlosser, che un femore simile potrebbe aver dato luogo ad un femore umano, ora che sappiamo come le forme primitive hanno nell'aspetto posteriore del femore un cercine longitudinale pilastriforme, di cui la cresta aspra, propria dell'uomo, può dirsi solo un perfezionamento, essa appare dubbia. Ed è anche poco probabile una derivazione diretta del femore degli Antropomorfi da questo, come sostiene do Schlosser, essendo la lunghezza di esso troppo accentuata e già troppo diversi i caratteri cui la lunghezza stessa è associata.
Le numerose mandibole di Driopiteco, che ormai abbiamo, dimostrano un ramo orizzontale alto e spesso: anche la regione mediana e anteriore della mandibola (sinfisi) è assai spessa. Lo spazio anteriore fra i due rami orizzontali destinato alla lingua è piuttosto stretto. In complesso, il Driopiteco appare una forma piuttosto bestializzata, specialmente nelle specie (o razze?) tardive.
Le dimensioni dei molari sono in genere un po' più forti di quelle dell'uomo. Richiamando i caratteri della corona del molare inferiore. si può dire che le cuspidi hanno una spiccata tendenza a trasformarsi in creste a direzione parallela al contorno della corona, pur essendo però sempre abbastanza individualizzate. Ciò indica probabilmente un crescente adattamento ad una dieta di frutta (carpofaga) (E, F, fig. 5:3, 6, fig. 6).
Per i caratteri dentarî però, i Driopiteci europei si differenziano dai Driopiteci asiatici, onde appare probabile una loro separazione sistematica; i Driopiteci asiatici, per la pieghettatura dello smalto, per le cuspidi più basse e per la riduzione delle creste, si avvicinano di più all'Orango, in cui la superficie masticatoria è trasformata in una sorta di scodelletta, a superficie finissimamente rugosa.
Dal punto, di vista morfologico, è interessante ricordare che la serie dei Driopiteci costituisce una prova del fatto che riduzione di altezza delle cuspidi e formazione progressiva di pieghettature dello smalto (crenazione) sono fenomeni strettamente connessi.
I Driopiteci europei, tutto sommato, sono i più prossimi all'uomo fra tutte le forme fossili e viventi. Infatti, dalla maggior parte dei denti attribuiti a Driopiteco, si staccano alcuni denti che assumono, per questo, grande importanza. Sono in primo luogo due denti sciolti trovati insieme alla seconda mandibola: si tratta di un terzo e di un secondo molare inferiore. Il primo ha forma quadratico-rotondeggiante, con un rapporto centesimale, fra la larghezza e la lunghezza, di 91, che è un valore umano e che non esiste in nessun altro fossile di antropomorfo (meno Sivapiteco). L'incorporazione delle cuspidi è forte: ipoconide e protoconide sono distanti dalla serie interna. Caratteri simili ha il secondo dente e tali da dimostrare un marcato avvicinamento all'uomo.
Un altro dente, cioè un molare superiore della serie renana, dimostra caratteri per cui probabilmente deve essere ravvicinato all'uomo. Esso ha forma romboide a lati retti, è molto alto nella corona, malgrado sia consumato, largo più che lungo, e a cuspidi piuttosto grosse. Il dente ha una evidente forma a bocciuolo, propria dell'uomo (1, fig. 6).
Il materiale di Driopiteco autorizza a sospettare, non solo di trovarsi innanzi a generi diversi, ma che in esso siano comprese forme assai prossime all'uomo, se non l'uomo stesso. Ciò è assai importante, risalendo i resti relativi a tempi assai remoti, come il Miocene superiore e medio. I reperti di Driopiteco europei sembrano più omogenei degli asiatici. È opportuno accennare che la mandibola trovata per la prima in Europa, e che presenta non forti caratteri di bestializzazione e, nei molari, caratteri alquanto più primitivi (forti residui di cingulum, minore lunghezza del dente) di quello che si riscontri nelle successive, appartiene ad un'orizzonte del Miocene un po' più antico degli altri, in cui furono trovate le altre mandibole.
Oreopiteco. Lo scarso sviluppo dei canini e la mancanza di differenziazione caniniforme dei premolari, caratteri uniti alle dimensioni piuttosto notevoli del genere, dànno a questa forma un aspetto particolare. Pur essendo oramai fuori di questione, per merito soprattutto del Ristori, la sua natura di antropomorfo, che fu negata da più di un osservatore (Schlosser), si può dire che non possediamo uno studio recente ed esauriente di questa forma, essendo lo studio del Ristori ormai, invecchiato (1890), ed essendo stato quello dello Schwalbe condotto sopra modelli. Ora noi pensiamo che non è possibile compiere un profondo studio di denti sopra dei modelli, essendo a questi preferibili anche delle buone fotografie. Noi crediamo che un nuovo studio di questo genere, alla luce soprattutto delle scoperte paleontologiche africane, avrebbe un grande interesse. Ad ogni modo, con riserva, riferiamo l'opinione dello Schwalbe, per il quale l'Oreopiteco andrebbe elevato a una famiglia, che egli porrebbe dopo quella degli Antropomorfi e dopo quella dei Gibboni.
Inoltre l'Oreopiteco introdurrebbe in certa guisa alle Catarrine, senza però esserne il progenitore, per le sue dimensioni già troppo forti, mentre d'altra parte si avvicinerebbe al Gorilla.
Paleopiteco: dal Miocene superiore dell'India. Questo mascellare superiore è stato descritto piuttosto sommariamente, ed oltre a ciò i denti che esso porta sono assai consumati. Il Lydekker, in un secondo tempo, lo aveva attribuito a Scimpanzé, ma il Dubois, riunendo i due pezzi di cui consta in una guisa più conforme al vero, ebbe per risultato un palato troppo stretto. In realtà è difficile arrivare ad una conclusione positiva. Alcuni caratteri presumibili dei molari, e cioè cuspidi alte, liscie, poco fuse, con distanza sensibile fra la serie esterna e l'interna, fanno pensare ad una relazione con Gibbone (7, fig. 6).
Anthropodus. Il materiale non permette nessuna conclusione di qualche consistenza.
Neopiteco: dal Pliocene superiore. Dimensioni 10,3 × 7, × 5,3. È un terzo molare inferiore sinistro. Ha forma subbiloba e subtriangolare. L'altezza delle cuspidi è mediocre. Lo smalto è solcato fortemente, ma con aspetto diverso da quello della solcatura dell'uomo. La forma delle cuspidi è regolare, con uno spigolo che guarda verso il centro della superficie di masticazione. La cuspide è piuttosto smilza. La serie esterna non è lateralizzata. Il mesoconide è grosso e non molto spostato all'indietro. La radice posteriore è compressa bilateralmente, come nel Pliopiteco. L'escavazione centrale della corona è più bassa di quella umana. È possibile che ciò derivi dalla riduzione dell'altezza delle cuspidi, alla quale si collega anche la solcatura dello smalto (4, fig. 6).
Lo Schlosser farebbe derivare il Pitecantropo e l'uomo da questa forma, a cui darebbe perciò grande importanza. Egli però è quasi solo in tale opinione.
Per l'altezza delle cuspidi, per la profondità della fossa, per la solcatura dello smalto, questa forma indica chiaramente di aver seguito da lungo un cammino divergente da quello dell'uomo. Oltre a ciò, l'apparizione di questo fossile nel Pliocene superiore è troppo tardiva, per dargli una simile importanza filogenetica.
È probabile che il Neopiteco, corne il Driopiteco, sia un ramo che da forme ancestrali comuni con l'uomo abbia fatto cammino divergente e parallelo a quella del Driopiteco, da cui è separato soprattutto per le dimensioni assai più piccole.
Grifopiteco. Questo unico molare superiore riunisce insieme caratteristiche singolari. Dimensioni 8,5 × 10,0 × 3,5. Forma presso a poco rettangolare, con angolo esterno posteriore smusso, come nel Cebo (2, fig. 6). Cuspidi assai basse, mammellonate, con fusione discreta. La superficie di masticazione ha perciò un aspetto simile a quella del Cebo. Assenza di crenazione. Forte distanza fra la serie esterna e l'interna. Non pare verosimile l'attribuzione di questo genere alla linea di Driopiteco, da cui differisce fortemente per la sensibile larghezza, o per dir meglio per la piccola lunghezza. Rilevando le caratteristiche ceboidi di questa forma, si deve rimanere incerti per la sua collocazione.
Propliopiteco. Il corpo e la branca mandibolare, piuttosto alti, fanno attribuire a questa forma un'evoluzione sotto certi rispetti già avanzata, avendo le piccole specie di Gibbone, sotto questo rispetto, caratteri più antichi. Primitiva invece è probabilmente la sinfisi verticale. Le dimensioni dei molari inferiori sono: M3 5,3 × 4,2 × 2,8; M2 5,5 × 5 × 3; M1 5,2 × 5 × 3,2. La forma è quadratico-rotonda. Le cuspidi sono poco alte, lo smalto è liscio; le esterne sono coniche a base larga, le interne alquanto compresse. Fusione scarsa. Serie esterna sempre più spostata verso l'esterno, andando dal terzo al primo (C, fig. 5).
Le dimensioni dei premolari, rispetto a quelle dei molari nel piano orizzontale, sono assai più forti che nell'uomo. Ciò è tanto più notevole, in quanto il primo premolare non ha le trasformazioni di tipo antropoidico, principale fra le quali è lo sviluppo forte della radice anteriore. Il canino è assai piccolo e disposto verticalmente. Confrontando Propliopiteco con Pliopiteco, si vede che pochi sono in realtà i caratteri per cui quello si può dire antecedente di questo, nel senso assoluto in cui vuole lo Schlosser.
Palaeosimia: dal Miocene medio-superiore. Le dimensioni sono: 10,8 × 11,9 × 6,9. Cuspidi di mediocre altezza, poco distinte, con smalto a crenazione simile a quella dell'Orango, della quale però non raggiunge la finezza. Si vede già alquanto quell'apparenza di scodelletta propria della superficie masticatoria della corona dell'Orango (5, fig. 6).
È attendibile l'opinione del Pilgrim che vuol fare di questa forma un progenitore dell'Orango. Per la sua comparsa tardiva e per le dimensioni forti, meglio si può giudicarlo una forma collaterale.
Sivapiteco. Il ramo orizzontale della mandibola doveva essere assai alto, e più alto all'innanzi che all'indietro (10, fig. 6). Lo stato del pezzo però non concede di potere accettare la ricostruzione della mandibola tentata dal Pilgrim, in cui i due rami convergono in forte misura verso l'innanzi, e in guisa simile all'uomo. Anzi l'altro pezzo osseo (che porta il canino), trovato poi, è piuttosto contrario all'esistenza di questa convergenza.
Il secondo frammento di mandibola è anche più importante. La orientazione data dal Pilgrim farebbe dedurre una superficie anteriore della sinfisi verticale o quasi. Ma in questa orientazione, la radice anteriore, spezzata, del primo premolare, incorporata ancora al frammento, assume una disposizione quasi orizzontale, e la posteriore una direzione verso l'innanzi. Ciò è affatto innaturale. Orientando convenientemente il frammento (anche rispetto al piano mediano) si constata come il canino sia diretto verso l'innanzi e l'esterno, come negli antropomorfi.
Completamente antropoidico è lo spessore della sinfisi e lo spessore del ramo, fatti che rendono assai piccola la larghezza trasversale dello spazio destinato alla base della lingua.
Nel terzo molare inferiore staccato (8, fig. 6), il Pilgrim trovò un indice umano. Ma indici umani si trovano anche nel Gibbone, e, in complesso, la riduzione che in tutti gli Anthropoidea ha colpito il terzo molare inferiore e superiore è responsabile del fatto, che non ha perciò molta importanza. I valori assoluti però delle dimensioni di questo dente, 14,5 × 13,4, lo pongono fuori della variazione umana.
La serie esterna è spostata verso l'esterno, specie riguardo all'ipoconide, ma questo non è un carattere esclusivamente umano, come crede il Pilgrim.
Anche le dimensioni di M2 sono alquauto superiori ai limiti umani (13 × 12,3). Sono contenuti invece entro questi limiti i caratteri di M1. Questi denti presentano, a primo aspetto, un'apparenza umana notevole, ma un esame più attento dimostra differenze (9, 10, 11, 12, fig. 6). Essi mancano affatto di cingulum. L'altezza della cuspide è piccola, più piccola che nell'uomo, onde il loro aspetto, più che globuloso, può dirsi mammellonato: le cuspidi sono massiccie e fuse. Esse, più che a quelle dell'uomo, somigliano a quelle del Cebo, anche per l'aspetto assai liscio dello smalto. La divergenza della serie esterna dall'interna è più forte di quella che si osserva nell'uomo.
Le dimensioni di P2 sono 8,5 × 10,4. Da ciò un indice che distanzia Sivapiteco dagli antropomorfi, per avvicinarlo all'uomo (9, 10, 11, fig. 6). In realtà l'osservazione largamente compiuta su materiale di antropomorfi dice che le due dimensioni di questo dente sono assai diverse nei diversi antropomorfi: e che coincidenze nell'indice possono accompagnarsi con differenze assai notevoli di grandezza del dente. Così p. es. il Gorilla, con l'indice più prossimo, a quanto pare, all'umano, ha una larghezza di P2 quasi uguale a quella del molare. Ora, quello che più conta è proprio la dimensione assoluta, essendo gli antropomorfi caratterizzati dalla persistenza di forti dimensioni nei premolari, gli uomini da riduzione.
Le forti dimensioni, se non fortissime, dovevano essere un canttere primitivo: ma, così essendo, queste forti dimensioni nel Sivapiteco neppure assicurano che si tratti di un antropomorfo, potendo, anzi forse dovendo essere in un precursore umano.
Il primo premolare ha una radice anteriore enormemente sviluppata. Presentando detto dente una grande area anteroesterna di usura, dobbiamo pensare ch'esso avesse una funzione di opposizione al canino superiore, come è negli antropomorfi. Il primo premolare, già aveva osservato Topinard, è il dente per cui esistono le più grosse differenze fra uomo e antropomorfi. Ora, anche per lo sviluppo della cuspide esterna anteriore, il Sivapiteco è perfettamente nei limiti del concetto morfologico di un antropomorfo (13, 14, 15, fig. 6).
Anche i due canini, superiore ed inferiore, sono troppo sviluppati per essere conciliabili con l'ipotesi che si tratti di un uomo. anche primitivo. Beninteso, la distinzione fra antropomorfo e uomo in un esame di fossili presuppone la validità del criterio dato dai caratteri dell'apparato di masticazione. Questa validità potrà essere ammessa fino al giorno in cui sia dimostrato veramente, che un essere dotato di un cervello di dimensione umana abbia avuto insieme un apparato dentario di sviluppo antropoidico; il che ancora non è stato dimostrato.
La dimrgenza di uomini e antropomorfi, da forme primitive comuni, per ciò che riguarda l'apparato dentario, si verifica soprattutto nel comportamento dei premolari e dei canini.
Il gruppo antropoidico segnò la sua specializzazione con la persistenza, parziale almeno, delle singole dimensioni dei premolari; riduzione della cuspide interna anteriore (metaconide) e sviluppo della esterna anteriore (protoconide) nel primo premolare; persistenza in misura maggiore dell'aspetto molariforme nel secondo premolare, con medio sviluppo di mesoconide, scarso di protoconide, oltre la misura dei molari; infine sviluppo più o meno grande del canino.
Il gruppo umano segnò la sua specializzazione con riduzione delle dimensioni dei premolari, specie per quanto ne riguarda la lunghezza, permanenza dell'altezza piccola di metaconide e lieve aumento di protoconide, specie nel primo premolare: scarso sviluppo del canino.
Concludendo, contro una quantità di caratteri certamente antropoidici, non si riscontra con sicurezza un solo carattere esclusivamente e sicuramente umano, onde è da ritenere che il Sivapiteco sia stato un grosso antropomorfo, forse con note platirriniche.
Prohylobates. Il frammento di mandibola in questione, che porta il secondo premolare e i tre molari, presenta, per quello che si può desumere, caratteri poco diversi da quelli del Pliopiteco, in guisa che può apparire dubbia l'opportunità dell'assunzione di un nuovo genere. È difficile una decisione in proposito, data la brevità della descrizione offerta dall'autore e la scarsa chiarezza delle illustrazioni che accompagnano il lavoro. Invece gli altri due frammenti di mandibola, con denti più consumati, e che il Fourtau attribuisce a Dryopithecus, suscitano in realtà il sospetto che si tratti di un nuovo genere.
Esperopiteco. Il Gregory e il Hellmann credono che i due denti in questione appartengano ad un antropomorfo, più prossimo al gorilla e allo scimpanzé che all'orango. Tuttavia osservatori e paleontologi di valore, come lo Smith-Woodward, pensano che si tratti di un carnivoro. E in una lista di opinioni emesse da diverse persone, compilata dai due autori anzidetti prevale l'idea che si tratti di un carnivoro di tipo orsino o affine. Noi crediamo poco probabile che si tratti di un antropomorfo e perciò questo documento rimane di valore assai dubbio.
Una parte importante, nella discussione delle conseguenze generali da trarre, si deve fare alla questione del Propliopiteco. Nei primi tempi dopo la sua scoperta, la sua importanza parve grandissima e l'opinione dello Schlosser, di farne derivare senz'altro Uomini e Antropomorfi, non trovò opposizione. Negli ultimi tempi però, il Pilgrim, dopo una disamina piuttosto sommaria dei caratteri di questa forma, emise l'opinione che essa costituisca un ramo antropoidico in precoce sviluppo e che non possa dirsi in linea diretta di Uomo e Antropomorfi.
Questa opinione pare eccessiva. Giacché occorre in primo luogo tener presente, che veramente il Propliopiteco presenta gli stadî più primitivi dei due caratteri che sono realmente fondamentali nella struttura dei molari, e cioè l'altezza della cuspide e il suo volume: esso presenta appunto le cuspidi più basse e più smilze di tutta la serie. Questi due fatti pongono fuori di ogni dubbio la sua massima antichità morfologica, in confronto di tutte le altre forme finora trovate.
Accanto però a questi due caratteri, esistono numerosi caratteri di sviluppo, che a volta a volta escludono che questa forma sia sulla diretta ascendenza dei singoli generi viventi e fossili. Così, ad es., per la divaricazione delle due serie di cuspidi, essa non può considerarsi nell'ascendenza diretta dello Scimpanzé; per la diminuita lunghezza del 2° premolare, per la divaricazione delle cuspidi, non può essere considerata ascendente diretta del Gorilla.
Per ciò che riguarda l'uomo, la stessa forte divaricazione è poco favorevole ad un'ascendenza diretta.
Solo il Gibbone Siamang presenta caratteri, ai quali, con sufficiente rigore, si può assegnare un antecedente in quelli del Propliopiteco. Ma, per questo rispetto, deve dirsi che il Propliopiteco si comporta non molto diversamente da tutti gli altri fossili, che sono assunti a progenitori di gruppi interi. Per lo più questi fossili sono rappresentativi di un certo stadio morfologico, che indicano solamente con una certa approssimazione.
Ciò non deve affatto meravigliare. Il maggior numero di probabilità che si presentano, allorquando si scoprono forme nuove di fossili, è che si tratti di forme collaterali, e, riflettendo bene, nulla è meno ragionevole che aspettarsi di trovare dappertutto dei termini di transizione immediata. Il paleontologo deve vedere in una forma quanto vi sia che si può supporre fosse nelle vere forme progenitrici e quanto sia prodotto di specializzazione: le forme progenitrici così non sono e non possono essere, tranne che in casi fortunati ed eccezionali, che ricostruzioni teoriche.
Concludendo, perciò, il Propliopiteco resta un formidabile fatto paleontologico, col quale ogni sistema di discendenza occorre faccia bene i conti, sia per il significato morfologico, sia per quello cronologico, sia per quello geografico ed è la forma che sinora meglio corrisponde alle esigenze di un progenitore di tutto il gruppo di Anthropoidea.
Una delle conclusioni generali di quanto si è esposto, è quella che riguarda l'abbondanza delle forme fossili di antropomorfi. Ciò, se si pensa alla difficoltà di conservazione dei resti animali, fa legittimamente indurre l'esistenza di una pleiade di forme antropoidiche nel Miocene e Pliocene.
Questa induzione è di una singolare portata nei riguardi delle origini umane. Se nel gruppo degli antropomorfi è constatata una grande abbondanza di forme genericamente separate, non deve apparire più tanto inverosimile che gli uomini non solo appartengano a generi diversi, ma abbiano origini diverse. Vale a dire che la suddetta abbondanza di forme fossili è piuttosto favorevole che contraria alla teoria dell'origine multipla dell'umanità. La presenza di resti nel Miocene superiore europeo, che presentano almeno forte approssimazione all'uomo, come abbiamo visto, ci fa ritenere assai probabile che l'uomo in Europa possa, più o meno presto, venire fuori da terreni del tardo Miocene o del primo Pliocene. Non crediamo che si possa risalire oltre tali epoche.
La presenza precoce del Propliopiteco in Africa, potrebbe far pensare che ivi l'uomo possa essersi formato prima, ma certo l'intervallo morfologico da quella forma (o, per dir meglio, da una forma simile, che meglio corrisponda ai desiderata di un essere sulla linea dell'ascendenza umana) all'uomo è molto grande e richiede un lungo intervallo di tempo per essere superato. Quest'altissima antichità dell'uomo è ormai ritenuta probabile da paleontologi di grandissima esperienza, come Branca, Volz, Abel, Pilgrim.
Ma lo studio dei resti degli antropomorfi consente conclusioni morfologiche generali assai importanti, e tanto più importanti in quanto esse possiedono un forte grado di probabilità, per la abbondanza del materiale su cui sono ormai fondate.
Gli scarsi caratteri di bestializzazione delle forme più primitive, cronologicamente parlando, del ciclo di forme che siamo venuti studiando, del Pliopiteco soprattutto e subordinatamente del Propliopiteco, ci obbligano a concludere in un senso assai interessante: e cioè, che gli Antropomorfi e l'uomo non provengono da forme bestializzate, ma da forme in cui, pur non verificandosi il fatto centrale dell'antropogenesi, cioè il prevalere di massa e di funzione del sistema nervoso centrale (fenomeno che teneva sotto di sé tutte le trasformazioni morfologiche del gruppo degli uomini), non si era neppure verificato il fatto dell'acquisizione di forti armi di difesa, soprattutto con la trasformazione teroide dell'apparato dentale.
Certamente possiamo ritenere che queste forme fossero più prossime alle Platirrine, cioè alle Scimmie americane, sebbene non identificabili senz'altro con queste, giacché esse sono anche il risultato attuale di una lunga evoluzione.
Ma, se il possesso di tali caratteri di bestializzazione non è un antecedente filetico necessario neppure per gli Antropomorfi, ne risulta una conseguenza assai interessante: che cioè, laddove questi caratteri si riscontrano, più o meno attenuati, negli Hominidae fossili, essi non sono sicuramente prove di una più stretta parentela con gli Antropomorfi, ma risultati del processo di bestializzazione, che può bene aver colpito dei rami umani, per ragioni speciali: non prove, cioè, di una parentela più stretta con gli Antropomorfi, ma risultato di convergenza nella bestializzazione. Alludiamo ai resti così detti neandertaloidi. I resti fossili di questo tipo, cioè, potrebbero non dimostrare la presenza di caratteri antropoidici, in ascendenti dell'uomo attuale, ma essere delle forme bestializzate, in grado minore degli Antropomorfi, ma sempre bestializzate; l'ambiente del glaciale, in cui visse la razza in questione, avendo aggiunto, forse, un fattore nuovo di bestializzazione, in quanto costituì una nuova difficoltà della natura che si andò ad aggiungere alle altre, peggiorando il tipo.
Già in terreni assai antichi si presentano antropomorfi a statura notevole (Dryopithecus Darwini) e in terreni meno antichi, ma pur tuttavia non recenti, esistettero forme gigantesche maggiori delle attuali (D. giganteus). Dobbiamo perciò pensare, da una parte, che il raggiungimento di proporzioni gigantesche sia stata una cosa facile a verificarsi nel gruppo e, dall'altra, che esse costituissero una caratteristica legata alla biologia generale di queste forme, come lo sviluppo della dentatura, in quanto assicuravano loro una difesa efficace nella lotta naturale.
Ora è legittimo pensare che, una volta iniziata, questa duplice differenziazione dovesse facilmente arrivare al suo massimo, perché gli esseri che la presentavano avevano in essa un mezzo più facile, una via di minore resistenza alla conservazione della loro stirpe. Da questa considerazione perciò, consegue che non è probabile che l'uomo sia derivato da forme antropoidiche già fortemente avviate in quella differenziazione.
Certo la differenziazione umana dovette aver vantaggio di potersi iniziare in qualche forma ad alta statura e con armi di difesa, che meglio garantimno la vita sul terreno libero, insidiata soprattutto dai grossi carnivori: ma l'inerzia, per dir così, biologica delle forme troppo differenziate in senso animalesco a prendere l'abbrivo alla direzione umana ci appare quasi insormontabile.
Noi pensiamo perciò che buona parte delle forme qui studiate non abbiano un'importanza diretta per la dottrina della discendenza umana, sotto il punto di vista morfologico stretto.
I più importanti risultati che il materiale fossile degli Antropomorfi ci fornisce sono quelli relativi all'origine geografica del gruppo. Date le innegabili relazioni fra gli Antropomorfi e gli Uomini, e dato che noi abbiamo finora degli uomini fossili un materiale meno importante, quei risultati ci offrono un buon argomento per inferirne le origini geografiche del gruppo umano.
Sopra questo soggetto sono state emesse teorie più o meno giustificate, fra le quali una, che gode larga cittadinanza, secondo la quale gli Uomini proverrebbero dall'Asia Meridionale (precisamente da una zona intorno all'Himālaya), non è delle meno infondate a un esame obiettivo e spassionato.
A mano a mano che entrerà nei ricercatori la convinzione della alta antichità dell'uomo, si deve pensare che l'applicabilità delle risultanze per gli Antropomorfi fossili al gruppo umano diverrà sempre maggiore. Il più antico fossile del gruppo (Propliopiteco) è una forma africana. Questo fatto è tanto più considerevole, quando si pensi che l'esplorazione paleontologica dell'Africa è tanto meno avanzata di quella dell'Europa e dell'Asia peninsulare. Considerando in sé stesso questo fatto, all'infuori di preconcetti di scuola o di tradizioni, esso è un forte argomento in favore della teoria che fa dell'Africa il territorio di origine del gruppo di Anthropoidea.
La presenza di Propliopiteco, con più di un carattere di evoluzione, in Africa, nell'Oligocene basale, e di Pliopiteco a caratteri primitivi, frequente nel Miocene basso di Europa, rende più probabile l'origine dall'Africa e il passaggio consecutivo in Europa, che non viceversa, dato che l'Oligocene e l'Eocene europei sono paleontologicamente abbastanza conosciuti, e non appare molto probabile che una forma simile possa essere sinora sfuggita. Inoltre i diversi Antropomorfi asiatici fossili, che abbiamo visto, oltre ad essere, senza eccezione, tutti più tardivi degli Antropomorfi europei, hanno grandi dimensioni, maggiori anche delle più forti europee.
Tale ordinazione morfologica, cronologica e geografica, per cui le prime forme europee seguono nel tempo il Propliopiteco africano ed hanno più forti dimensioni, le prime forme asiatiche seguono le prime forme europee, raggiungendo le più grandi dimensioni del gruppo, è un forte argomento per ritenere che la direzione generale del movimento biologico del gruppo sia stata dall'Africa verso il nord e l'oriente.
Bibl.: La sola trattazione comparativa estesa a tutti gli Antropomorfi fossili è: G. L. Sera, La testimonianza dei fossili di antropomorfi per la questione dell'origine dell'Uomo, in Atti Soc. ital. Sc. Nat., LVI (1917); ivi si troverà la bibliografia completa sino al 1917. Per le scoperte posteriori, v.: R. Fourtau, Contribution à l'étude des vertébrés miocènes de l'Égypte, Cairo 1920; W. K. Gregory e M. Hellmann, Further notes on the molars of Hesperopithecus and Pithecanthropus, in Bull. Amer. Mus. Nat. Hist., XLVIII (1923).