VILLA, Antonio Francesco
– Nacque a Fratta Polesine (Rovigo), il 1° settembre 1786 da Guido e da Maria Giulianati.
All’epoca dell’arresto del figlio Antonio, nel 1818, Guido era impiegato in qualità di notaio presso l’Imperial Regia Intendenza di Rovigo.
Dopo aver frequentato il ginnasio e il liceo a Ferrara, Antonio si laureò con tutta probabilità in giurisprudenza. Conseguita la laurea intorno al 1810 fu assunto come cancelliere presso la Giudicatura di pace di Fratta, impiego che mantenne anche dopo la fine del napoleonico Regno d’Italia e precisamente fino al febbraio del 1818. Fu in questo arco di tempo che ebbe luogo il suo matrimonio con Teresa Cecchetti, appartenente a una facoltosa famiglia di Rovigo. Dopo che nel febbraio del 1818 entrò in vigore nel Regno Lombardo-Veneto il nuovo sistema per l’amministrazione della giustizia presso le prime istanze, Villa fu destinato in qualità di primo attuario presso la pretura di Castelmassa, ma rifiutò l’incarico per non lasciare Fratta, e per le medesime ragioni rinunciò poi all’incarico di giudice politico provvisorio presso il tribunale di Rovigo per il quale era stato proposto dal governo di Venezia. A queste risoluzioni Villa fu indotto soprattutto dalla sua spiccata vocazione all’attività agricola.
Al commissario di polizia Carlo Lancetti, che fu il primo a interrogarlo dopo l’arresto del 16 dicembre 1818, dichiarò che viveva delle sue possidenze «dirigendo gli affari di famiglia» (Archivio di Stato di Milano, Processi politici, I, cart. 3, pezza C II 2, costituto del 28 dicembre 1818). Nella Difesa scritta che il 7 luglio 1820 rassegnò ai giudici al termine del suo esame, ricordò i «sacrifizj immensi» che nel 1817 aveva compiuto per riscattare i suoi beni da una locazione e potersi così dedicare interamente «alla vita campestre» (cart. 23, pezza CCCCXCIII, costituto del 7 luglio 1820). Detenuto allo Spielberg dal 1822, allorché nel tardo inverno di due anni dopo gli fu per la prima volta concesso di scrivere ai suoi cari, chiese che gli spedissero alcuni trattati di agricoltura (Brno, Archivio della Regione di Moravia, fondo B95, cart. 946, f. 170, lettera ai genitori e alla moglie, Spielberg, 16 marzo 1824). Si consideri che l’interesse per l’applicazione in campo agricolo dei ritrovati della scienza e della tecnica costituì, non meno della convinta adesione all’idea nazionale, una delle espressioni dello spiritò di novità che, incoraggiato dalle trasformazioni del periodo napoleonico, caratterizzò anche ampi strati della borghesia rurale padana dell’Ottocento.
Nel luglio del 1817 Villa fu affiliato alla carboneria da Felice Eleuterio Foresti, pretore di Crespino. Il 2 agosto, alla cerimonia della sua «recezione», al termine della quale fu proclamato apprendista maestro, erano presenti Ferdinando Landi, impiegato del Comune di Rovigo; Giovanni Bacchiega, ex ufficiale murattiano allora collaboratore di Foresti presso la pretura di Crespino; Benvenuto Tisi, usciere nel medesimo ufficio; il ferrarese Domenico Armari, che aveva militato nelle armate napoleoniche e murattiane, e Giuseppe Delfini, che a Ferrara era stato segretario della cessata prefettura; infine, Luigi Antonio Viviani, pretore a Malcesine.
Il gruppo rispecchiava abbastanza fedelmente la composizione sociale e professionale della carboneria del Polesine, dell’Emilia e delle Romagne: ai veterani dell’esercito e ai pubblici funzionari accomunati dalla nostalgia dell’epopea napoleonica si aggiungeva un discreto numero di possidenti il cui arricchimento nel periodo della dominazione francese era stato reso possibile anche dall’assunzione di esattorie e di appalti pubblici.
Subito dopo la «recezione» Villa si diede a un’intensa attività di reclutamento; affiliò Antonio Fortunato Oroboni, Vincenzo Zerbini, Giovanni e Federico Monti, Antonio e Carlo Poli, tutti appartenenti a più o meno facoltose famiglie di possidenti, e inoltre il prete don Marco Fortini e l’impiegato Domenico Grindati. In ottobre, al tempo della fiera, partecipò a un’importante adunanza carbonica che si tenne alla trattoria Ponzetti di Rovigo e alla quale intervenne anche l’avvocato Tommaso Tommasi, gran maestro della vendita di Ferrara, di cui le vendite polesane costituivano una sorta di filiazione. Tra le figure più eminenti della società segreta, Foresti e Landi gli fornirono «discipline», «catechismi», statuti e altri scritti carbonici; da Tommasi, tra i massimi esponenti della Società guelfa oltre che della carboneria, ricevette «emblemi» da distribuire ai suoi affiliati (cappucci, grembialetti, chantillons); l’avvocato Costantino Munari, ricco possidente di Calto, gli fece avere una copia del proprio progetto noto come Costituzione latina, in cui si prevedeva la nascita, in luogo della Società guelfa, di una Società latina che avrebbe dovuto svolgere la funzione di mente direttiva della carboneria.
L’esperienza latomica di Villa era peraltro iniziata ben prima che Foresti lo affiliasse alla carboneria. Da tempo era in contatto con Cecilia Monti, moglie del generale napoleonico Jean Baptiste d’Arnaud, alla quale faceva capo la Società della spilla nera che si adoperava per riportare un Bonaparte sul trono di Francia e per conferire alla duchessa Maria Luigia o a suo figlio la Corona d’Italia.
L’11 novembre 1818 nella villa dei d’Arnaud ebbe luogo una cena a cui parteciparono anche Villa, Fortini, Sebastiano Monti, Angelo Gambato (il caffettiere di Fratta), l’avvocato Antonio Molin, il conte Pacifico Camerata di Ancona e il suo segretario l’avvocato Filippo Passerini. Si inneggiò all’indipendenza d’Italia e con gesticolazioni previste dal cerimoniale della setta si fecero brindisi a Napoleone, a Maria Luigia e al re di Roma. Era presente anche un giovane nipote di Cecilia, spia della polizia. In seguito alla sua delazione furono arrestati dapprima Molin, Camerata, Passerini e i coniugi d’Arnaud; il 16 dicembre fu la volta di Villa che come gli altri fu tradotto a Venezia e carcerato ai Piombi. Dopo avere inizialmente negato il suo coinvolgimento, il 30 dicembre rilasciò un’ampia confessione spontanea: disse dei rapporti della Monti con Napoleone e Gioacchino Murat, ma sostenne di non essere mai stato affiliato alla Società della spilla nera; raccontò quindi della propria associazione alla carboneria e della cerimonia della propria «recezione», facendo i nomi dei presenti; rivelò parimenti i nomi di quanti lui e Foresti avevano reclutato e di quanti erano intervenuti alle adunanze di cui era informato. Nella seconda parte del costituto e nei successivi del 31 dicembre e del 1° gennaio 1819 fece i nomi di molti altri che sapeva affiliati; parlò di Foresti, Munari, Tommasi e Landi come di capi della Società; illustrò segni, emblemi e catechismi in uso nella carboneria e le forme del suo finanziamento. Ammise inoltre che suo fine era l’indipendenza dell’Italia. Richiamò d’altra parte alcune circostanze che supponeva avrebbero potuto attenuare le proprie responsabilità: sostenne in particolare che una vendita a Fratta non era mai stata formalmente istituita perché egli vi si era opposto; aggiunse che sin dall’agosto precedente aveva bruciato carte e oggetti in suo possesso «determinato di non volerne più sapere di Società» (Archivio di Stato di Milano, Processi politici, I, cart. 3, pezza C II 2, costituto del 30 dicembre 1818).
A indurre Villa a confessare furono con tutta probabilità decisive le promesse che Lancetti dovette fargli sulla scorta del paragrafo 56 del codice penale austriaco che assicurava la piena impunità a chi, associato a «combriccole tendenti all’alto tradimento» ne rivelasse alla magistratura «i membri, gli statuti, le mire, gli attentati» (Codice penale universale austriaco, coll’appendice delle più recenti norme generali, I, Dei Delitti, II ed. Milano 1815, p. 24) quando questi erano ancora occulti. Non è da escludere che Lancetti avesse fatto leva anche sulla gelosia di Villa prospettandogli il rischio che la moglie cedesse alle tentazioni che una prolungata solitudine avrebbe potuto suscitare; l’ipotesi è suffragata dalla citata lettera dallo Spielberg del 16 marzo 1824, nelle cui righe finali Villa con accorati accenti richiamava la moglie al dovere della fedeltà. Delle promesse di Lancetti non vi è traccia nei verbali, ma Villa vi fece ripetutamente riferimento nei successivi costituti davanti alla Commissione di prima istanza presieduta dal giudice Antonio Salvotti.
La confessione di Villa fu risolutiva ai fini dello sviluppo dell’inchiesta. Tra gennaio e febbraio più di venti arresti colpirono i carbonari polesani. Altri seguirono nei mesi successivi. Gli arrestati, rinchiusi dapprima ai Piombi, furono in seguito trasferiti al carcere sull’isola di San Michele in attesa del processo. Qui Foresti poté avere ampia cognizione delle deposizioni rilasciate dai compagni e mettere a punto una linea di condotta a cui tutti si sarebbero dovuti attenere nel processo a venire. Come egli stesso spiegò nei suoi Ricordi, ognuno avrebbe dovuto ritrattare e sostenere con fermezza che in Polesine la carboneria non era stata organizzata regolarmente, ma se n’era soltanto abbozzato il progetto e che mai si era parlato di «scopo politico» (I Ricordi di Felice Foresti..., 1872, p. 540).
Allorché alla fine del 1819 cominciarono i costituti Salvotti si accorse immediatamente che le uniformi deposizioni degli imputati erano il frutto di un ‘concerto’. Incalzati dall’abile magistrato, quasi tutti finirono per ammetterlo. Fra il 13 dicembre 1819 e il 7 luglio 1820 Villa fu sottoposto a diciassette interrogatori. Egli pure cedette.
In particolare, finì con l’ammettere che sin dall’inizio aveva saputo, non soltanto supposto, che la finalità della associazione carbonica era l’indipendenza dell’Italia e che come lui lo avevano appreso quasi tutti i «cugini» che conosceva. Continuò tuttavia a insistere sulle attenuanti che già aveva sottoposto a Lancetti. Soprattutto fu fermo nell’escludere che la società avesse messo a punto piani d’azione e che gli affiliati avessero tra loro parlato di armi. Come ripeté nella già citata Difesa conclusiva, amore per la patria sì, ma nessun proposito di sovversione dell’ordine costituito. Ciò era vero, aggiungeva, per tutti gli affiliati, capi compresi, come provava il fatto che l’attività della Società era stata quasi nulla. L’indipendenza d’Italia era un fine che ci si doveva al momento accontentare di perseguire «coll’opinione». Che questa rappresentazione della carboneria polesana ed emiliana offrisse un quadro per molti aspetti veridico della realtà lo confermano le note con cui Salvotti accompagnò la proposta di sentenza nell’intento di suggerire all’imperatore una mitigazione della pena di morte che attendeva gli otto imputati riconosciuti rei di alto tradimento dalla Commissione di prima istanza (le note sono riprodotte in Luzio, 1903, pp. 273 s.). Salvotti osservò infatti che la Commissione non aveva potuto intravedere che un «remotissimo conato» dell’alto tradimento, essendole stato impossibile provare l’esistenza di un «piano di rivoluzione»; per non dire, aggiunse, che «lo stesso spirito della società cominciava ad illanguidirsi verso il finire del 1818» (ibid.).
Villa fu tra gli otto condannati a morte e la Commissione non volle riconoscergli, sulla base di speciose argomentazioni (ibid., p. 41, nota 2), quel diritto all’impunità che l’imputato aveva rivendicato con calore nella sua Difesa appellandosi al paragrafo 56 del codice penale. La Commissione di seconda istanza portò a tredici il numero dei condannati a morte. Con due successive risoluzioni del 29 ottobre e dell’11 dicembre 1821 l’imperatore commutò le pene di morte in pesanti pene detentive che i condannati a una più lunga carcerazione avrebbero dovuto scontare nella fortezza dello Spielberg. Il 22 dicembre fu pubblicata la sentenza. A Villa toccarono vent’anni. Il 10 gennaio 1822, insieme a Bacchiega, Fortini, Oroboni, Antonio Solera, Foresti e Munari, fu consegnato alla polizia per la traduzione allo Spielberg.
Nei primi due anni di detenzione, confortato da alcune lettere dei genitori che lo esortavano a confidare in Dio e in Maria Addolorata, non smise di sperare in un atto di clemenza dell’imperatore, tanto che nel 1822 o nel 1824 (Brno, Archivio della Regione di Moravia, fondo B95, cart. 946, f. 167, lettera di supplica al governatore della Moravia non datata) chiese di poter pubblicare a proprie spese, a scopo di mettere in guardia «l’incauta gioventù», una ritrattazione dei suoi errori in forma di lettera alla famiglia. Documento principale della sua condizione e del suo stato d’animo a quest’epoca è la citata lettera ai genitori e alla moglie del 16 marzo 1824, in cui chiedeva perdono dei dolori loro arrecati, li incoraggiava a «tentare tutto» per la sua liberazione e, come si è ricordato, esortava la moglie a una condotta virtuosa. Di sé scriveva di essere «dimagrato ed invecchiato» e di avere la digestione «mezzo rovinata». Temeva il peggio, ma ancora resisteva in virtù della forza che gli somministrava la «santa religione».
Il duro regime carcerario dello Spielberg – il vitto scadente da un lato, l’isolamento dall’altro – ebbe ragione nel giro di qualche anno della pur forte fibra del prigioniero. Nel 1826 si infittirono i consulti del protomedico Joseph Pfungen che riscontrò nel paziente gravi disturbi digestivi e un progressivo deperimento. Poco tempo prima di morire Villa indirizzò al sovrano una supplica in cui chiedeva di godere della compagnia dell’amico Solera qualche ora al giorno e dello stesso vitto che era stato concesso a Oroboni nell’imminenza della fine, di poter scrivere ai genitori per ottenere il loro perdono e di essere infine assistito in punto di morte dal sacerdote delle carceri ma, precisava, «all’uso di Chiesa nostra», cioè «fino all’ultimo respiro» (ibid., f. 51, lettera all’imperatore, giugno 1827).
Si spense a Brno il 23 giugno 1827.
Fonti e Bibl.: Importanti notizie biografiche si ricavano dai costituti di Villa, i cui verbali sono conservati presso l’Archivio di Stato di Milano, Processi politici, I. La documentazione relativa alla detenzione di Villa allo Spielberg è conservata a Brno, Archivio della Regione di Moravia; si veda Spielberg. Documentazione sui detenuti politici italiani. Inventario 1822-1859, a cura di L. Contegiacomo, con la collaborazione di H. Gasser - H. Toniatti - S. Visciola, Rovigo 2010. Di questa documentazione, così come dei verbali dei costituti, si possono consultare le copie presso l’Archivio di Stato di Rovigo. Preziosa, sebbene sia da vagliare criticamente, la testimonianza fornita da I Ricordi di Felice Foresti sui carbonari, sui processi del Veneto nel 1821 e sulle vittime dello Spielbergo, pubblicati in appendice a I Martiri della libertà Italiana dal 1794 al 1848. Memorie raccolte da Atto Vannucci, Milano 1872 (1ª ed. 1850), pp. 528-560 (questo volume contiene i profili di numerosi carbonari polesani: il profilo di Villa alle pp. 194-201).
Sulle vicende della carboneria in Polesine: Contributi del Polesine al Risorgimento italiano. Antologia di scritti sui patrioti polesani e un saggio sulla cospirazione antiaustriaca in Polesine e il processo di Venezia del 1821, a cura di G. Ceruti, Padova 1966, ad indicem. Sull’ambiente sociale in cui maturò la cospirazione è da vedere il pregevole saggio di L. Contegiacomo, Il microcosmo della Carboneria nel Polesine. Legami familiari, sociali e culturali, in La nascita della nazione. La Carboneria. Intrecci veneti, nazionali e internazionali, a cura di G. Berti - F. Della Peruta, Rovigo 2004, pp. 355-377. Sulla Società della spilla nera: G. Livi, La società della «Spilla nera», in L’illustrazione Italiana, XVII (1890), 45, pp. 299-302; 46, pp. 315-318; L. Lugaresi, La «Spilla nera». Mito e realtà di una setta. Il ruolo di Cecilia Monti di Arnaud, in La nascita della nazione, cit., 2004, pp. 379-389. Sul processo di Venezia: A. Luzio, Antonio Salvotti e i processi del Ventuno, Roma 1901, ad ind.; Id., Il processo Pellico-Maroncelli secondo gli atti officiali segreti, Milano 1903, ad ind.; A. Sandonà, Contributo alla storia dei processi del Ventuno e dello Spielberg. Dagli atti officiali segreti degli archivi di Stato di Vienna e dal carteggio dell’imperatore Francesco I co’ suoi ministri e col presidente del Senato Lombardo-Veneto del tribunale supremo di giustizia 1821-1838, Milano-Torino-Roma 1911, ad indicem.