ANTONIO da Legnago
Nacque intorno al 1350, certamente non prima del 1345. Nonostante fosse, probabilmente, di origine contadina, A., entrato assai giovane presso la corte scaligera, vi percorse una carriera rapidissima. Nel 1369 (poco più che ventenne) lo troviamo già notaio della corte in una procura che Cansignorio signore di Verona fa a un Domenico de Agrapati di Padova. Nello stesso anno, sempre come notaio, stende l'atto che sancisce i patti fra Verona e Venezia. Appena sette anni dopo, nel 1376, egli è già consigliere dei fratelli Bartolomeo e Antonio della Scala, è, cioè, salito alle più alte e delicate cariche della signoria veronese. A. mantenne fino alla morte la carica di consigliere. Quali fossero i meriti politici che gli permisero un così rapido successo ignoriamo. Sappiamo, però, dai documenti che testimoniano i suoi rapporti con i letterati contemporanei, che fu uomo colto, di animo elevato e assai stimato. Particolarmente importante appare una lettera a Pietro da Ravenna, professore a Ferrara, nella quale A. narra una sua visita a Ravenna e al sepolcro di Dante, manifestando ammirazione per i Ravennati che avevano rifiutato di cederlo per denaro ai Fiorentini. Nella stessa lettera descrive le condizioni in cui ha trovato Roma "lugubrem, squalidam viduamque, non solum libertatis, verum etiam cuiuscumque boni vacuam". Unica speranza in tanta desolazione è l'elezione di papa Urbano VI, che A. si augura sappia nello stesso tempo riformare la Chiesa e restaurare i monumenti dell'antica gloria. Non meno importante di questa lettera (che è del 5 dic. 1378), è quella scritta quattro anni dopo a Venceslao di Lussemburgo, figlio e successore di Carlo IV, discendente di Arrigo VII. In essa A. riprende le tesi dantesche della Monarchia,invitando Venceslao a far valere in Italia la sua autorità imperiale. Fu amico di Francesco di Vannozzo, con il quale ebbe anche una corrispondenza poetica; a lui si rivolgeva l'umanista Anastagio da Ravenna per ottenere un posto adatto a Verona, essendo stanco dell'insegnamento. Morì assassinato nel 1385, per ragioni che rimangono ignote, lasciando un unico figlio di nome Federico.
Questa singolare figura di letterato e di uomo politico meriterebbe di essere conosciuta più a fondo: non solo un uomo pubblico fortunato, che riuscì a raggiungere giovanissimo la massima carica della signoria al cui servizio era, ma un uomo politico imbevuto di umanesimo, che soccorreva poeti e grammatici, si commuoveva dinanzi al sepolcro di Dante, s'indignava per l'abbandono in cui erano tenuti i monumenti dell'antica Roma e riprendeva il filo del pensiero ghibellino e dell'utopia imperiale.
Bibl.: G. Biadego, Un maestro di grammatica amico del Petrarca, in Atti d. R. Ist. veneto di scienze, lettere ed arti, LVIII, 2 (1898-99), pp. 262-265; Id., Per la storia della cultura veronese nel XIV secolo. A. da Legnano e Rinaldo da Villafranca, ibidem, LXII (1903), pp. 583-621.