Conti, Antonio
, Filosofo e letterato padovano (1677-1749), di formazione assai complessa, a mezza strada tra l'Arcadia e gli sviluppi neoclassicistici e sensistici del secolo XVIII, tra un gusto di rappresentazione tipica legato al " particolareggiamento " delle cose e un'esigenza di poesia-filosofia ereditata dal Gravina, con slanci verso concezioni platoniche della bellezza, intesa come rivelazione di un mondo ideale e archetipo. Solo raramente e di passaggio ha occasione di toccare in sede teorico-critica il tema della poesia e della personalità dantesche. A parte l'accenno della lettera a Madame Ferrant (" J'admire infiniment Dante, Boccace, et Petrarque. Dante a la sublimité, et la force dans ses inventions, et ses expressions ", 1719), nel Discorso sopra la italiana poesia egli riconosce a D. il merito d'aver sentito la forza e la bellezza di una lingua ancor rozza, applicandola " a spiegare nel modo più poetico quanto v'era di più sublime e nascosto nella Teologia rivelata e nella Filosofia Scolastica " e compie osservazioni di buon rilievo sulla grandiosità del quadro strutturale proprio del poema, sulla " verosimiglianza del fantasma poetico ", sull'architettura tanto più mirabile, quanto più orrida, dei tre regni ultra-terreni (ma è evidente il peso preponderante che nel suo interesse assume l'Inferno).
Una maggiore acutezza e puntualità di giudizio il C. dimostra tuttavia nel considerare, sulla linea del Gravina, la vastità dei motivi, l'intreccio dei temi e dei sensi, l'immenso e vario contesto, la grandiosità dell'impostazione culturale, per i quali elementi la Commedia si pone a un livello indubbiamente più alto del Paradiso perduto miltoniano.
Inoltre, nota il C., mentre il Milton ha elaborato tradizioni presenti, D. " tutto ha risolto nella propria idea, creando il luogo, il tempo, le azioni; e quel ch'è prodigioso, laddove leggendo Milton tutta la meraviglia termina con la lettura, perché tutto si confina all'intelligenza dei fatti della Scrittura, i quali seco non portano che le allegorie loro connaturali; all'incontro più che s'interna a svelare i sensi della Commedia di Dante, più questi multiplicano, e tutto ciò che ne ha detto il Mazzoni e i commentatori, non basta per discoprire né le allusioni satiriche, né le politiche, né le mistiche, e molto meno le profondità dell'arte poetica ".
Comprensibili sono dunque le riserve da lui manifestate nei riguardi del Petrarca che restrinse l'oggetto poetico a un certo genere: vero poeta è chi, come D., imita tutto l'universo, l'interno e l'esterno dell'uomo.
D. ottenne la sua originalità resistendo alla tentazione d'imitare i provenzali (semmai il suo poema s'ispira ai libri poetici della Bibbia); Petrarca invece a tale tentazione cedette. Di conseguenza il C. si sente indotto a ripetere il noto giudizio graviniano secondo cui, se si fosse seguito l'ampio campo aperto da D. ai suoi successori, " la poesia italiana avrebbe più sublimità della poesia Egizia, Greca e Latina, senza aver alcun di que' difetti che necessariamente v'introduceva la superstizione e l'interesse ".
Notevoli imitazioni dantesche sono ravvisabili nel poemetto filosofico del C., Il Globo di Venere.
Bibl. - A.C., Prose e poesie, Venezia 1756, tomo II; A. Bobbio, Il pensiero estetico di A. Conti, Roma 1941, 50-51.