CARAFA, Antonio
Il C., che avrà la ventura d'essere cantato in morte da Giovan Battista Vico, il quale gli dedicherà inoltre un'impegnata biografia in latino, nacque il 12 ag. 1642 a Torrepadula presso Ugento in Puglia.
Alla sua nascita, la famiglia attraversava un momento di particolare difficoltà: da poco era scomparso il padre, Marcantonio (1609-1642) del ramo di Forlì, lasciando in una situazione economicamente precaria la moglie, Maria Tommasina Carafa (una sua cugina, sposata attorno al 1630) e i figli piccoli. Delle tre femmine, una, Margherita Lucrezia, si farà monaca, e le altre due, Vittoria Antonia ed Eleonora, verranno maritate rispettivamente a Domenico Caracciolo e a Tommaso Filangieri; e dei due fratelli del C., il più anziano, Carlo (1632-1695), dapprima s'accasa, quindi, rimasto vedovo e senza figli, si dà alla vita ecclesiastica divenendo - per quanto in fama d'uomo sciocco - rettore e abate di S. Maria della Neve a Napoli, mentre l'altro, Adriano (1635-1696), sposa nel 1678, in prime nozze, pur di sottrarsi alle ristrettezze, Lucrezia Caracciolo, una ricca vedova di lui più anziana che si rivelerà compagna fastidiosissima.
Nel corso della fanciullezza e dell'adolescenza trascorse a Napoli, il C. dimostrò una spiccata propensione per gli esercizi ginnici, non dilettandosi altrettanto "literis... ingenuis"; sicché il suo latino sarà sempre rozzo, la sua cultura approssimativa, come osserva il Vico. Che peraltro gli fa in seguito egualmente credito di approfondite letture, nelle pause delle fatiche militari, d'autori "de re civili" e gli mette sovente in bocca qualche solenne "sententia", acuto "iudicium", forbito "dictum" e "sapiens coniectura". Iscritto, il 23 dic. 1660, all'Ordine dei cavalieri di Malta, s'imbarcò alla volta di questa, nell'aprile del 1664, su un naviglio genovese assalito al largo dai pirati; riscattatosi o fuggito, il C. riuscì a raggiungere egualmente l'isola donde partecipò a varie operazioni navali, tra cui a quella vittoriosa su Gigeri.
A detta del suo biografo il C. avrebbe lasciato precipitosamente Napoli per sottrarsi alla punizione d'un atroce delitto: un omicidio compiuto, sotto gli occhi del viceré, "per iuvenilem ferociam". Ma l'assenza d'una pur minima eco d'un fatto così clamoroso nelle dettagliate fonti del tempo, puntuali registratrici di episodi di violenza anche assai meno gravi, fa dubitare della versione vichiana, dovuta, probabilmente, a confusione con un duello (concluso, forse, con la morte dell'avversario) effettivamente sostenuto dal C. a Malta, in seguito al quale abbandonò in tutta fretta l'isola per Vienna. Così, almeno, riferisce, in un dispaccio dell'8 agosto 1691, Bernardino Gallignani, agente di Francesco II d'Este a Milano. Pel Vico invece preferì recarsi alla corte imperiale - preceduto dalle autorevoli raccomandazioni di Carlo Carafa, il suo illustre parente nunzio a Vienna dal 1658 al 1664 - perché la milizia terrestre più si prestava a far apprezzare le sue qualità, altrimenti costrette "intra angustos unius navis cancellos".
Sia stato spinto dall'opportunità d'un rapido allontanamento o dalle migliori prospettive o lo abbiano indotto entrambi i motivi, il C. nel 1665 si trova nella capitale imperiale ad offrire i propri servigi a Leopoldo I; ambiziosissimo (volle, annota il Vico, "magna sibi ab initio proponere") inizia così, in qualità di semplice "venturiero", una carriera che lo porterà "ab imis militiae ordinibus ad summa armorum imperia", in una partecipazione senza soste alle guerre d'Occidente e, più ancora, d'Oriente. "Miles assiduus", precisa il Vico, si forma, al pari d'altri italiani militanti sotto le insegne imperiali, alla scuola di Raimondo Montecuccoli e combatte "contra perduelles" ungheresi agli ordini di Enea Silvio Caprara, che gli affida la custodia di Kalau. Il nunzio a Colonia Francesco Buonvisi (che gli diverrà amico e lo appoggerà, nel 1686 e nel 1689, in due tappe decisive della sua affermazione) informa, in una lettera del 10 apr. 1672, che Maastricht, nelle Fiandre, viene "rinforzato con 1.000 cavalli spagnoli sotto il mastro di campo" Carafa. Nominato, il 6 dic. 1672, colonnello proprietario d'un reggimento di corazzieri (che ne assume il nome di "Carafa" serbandolo sino al 1918), il suo prestigio aumenta quando, deposto l'abito gerosolimitano, si sposa, nel 1673, con una gentildonna spagnola, Caterina Cardona, figlia del marchese Alfonso di Castronuevo e della contessa Margherita Teresa d'Eryl; unione non solo conveniente, ma anche - per quanto non allietata da figli -felice, ché il C. "uxoris diligentissimus fuit". Di nuovo in Ungheria "sedulo invigilabat fines", costringendo inoltre alla difensiva gli insorti, che batté duramente quando tentarono d'irrompere nella zona di Szepes. Sergente generale di battaglia dal 21 giugno 1682, nel 1683 è incaricato dal duca Carlo di Lorena di sorvegliare - sì da prevenire eventuali tentativi per ritardarne l'arrivo - il tratto finale del cammino dell'esercito polacco che sta accorrendo alla difesa di Vienna.
Destituita però di fondamento la notizia dell'Aldimari ingigantita poi dal Vico (che già nei versi in morte del C. attribuisce alla sua eloquenza la spinta decisiva che e mosse "il re di Polonia" a liberar Vienna oppressa), secondo la quale il C. sarebbe stato precedentemente inviato ambasciatore straordinario a Giovanni III Sobieski "ut quam primum auxilium maturaret"; e la sua commossa perorazione - un capolavoro di suasoria nel testo vichiano - avrebbe stimolato "proceres cunctantes" e vieppiù infiammato "regem, sua sponte cupientem". Quanto meno esagerato, se non inesatto, è ancora l'Aldimari quando assegna al C. "la gloria d'haver", durante l'assedio della capitale, "col primo squadrone rotta l'audacia dell'ottomana potenza"; ché il particolare non ha alcun riscontro nelle fonti e nelle cronache coeve.
Di indubbio rilievo invece l'attività del C. successiva alla liberazione di Vienna, premiata da avanzamenti di grado - è tenente maresciallo di campo nel settembre del 1685, feldmaresciallo, austriaco il 1º dic. 1688 - abbelliti dal titolo onorifico di conte dell'Impero nel 1686 e dal prestigioso Toson d'oro concessogli, su istanza di Leopoldo I, da Carlo II di Spagna nel 1687. Nel 1684 batte ad Ungvar i ribelli, quindi è inviato "ad bellum rhenanum", donde, sopraggiunta la tregua franco-imperiale, è richiamato, "cum suo et bavaro equite", a concorrere al primo e sfortunato assedio di Buda; nel 1685 sbarra la via ai tentativi turchi di soccorrere le piazze assalite e partecipa, tra l'altro, all'assedio di Beszterazbánya (o Neuháusel); nel 1686 prende Szent Job, fa trucidare buona parte del presidio di Erlau (o Eger) attirato fuori dalle mura con un ingegnoso stratagemma, si unisce nell'agosto, con 5.000 uomini, all'esercito assediante Buda che cade il 2 settembre, ordina a Giorgio Ernesto Wallis di spingere a fondo l'assedio di Szeged; nel 1687 conquista, dopo averla fatta assediare per sette mesi, Erlau; quindi gli si arrende, il 15 genn. 1688, la munitissima fortezza di Munkács, tra i cui difensori è riuscito, con "arte scaltra", ad introdurre - informa l'ambasciatore veneto Federico Corner - "la disunione e la discordia", sì che Veronica Zrínyi, l'eroica moglie di Imre Thököly che ne animava la resistenza, è costretta ad una capitolazione umiliante. Nel giugno dello stesso anno conquista Lippa, Salmos, Lugos e - occupata per via Titel, l'unica posizione rimasta ai Turchi sulla destra del Tibisco - si congiunge, alla fine di luglio, colle truppe impegnate nell'assedio di Belgrado. Caduta questa in mano cesarea, si occupa dello stanziamento del presidio, dell'ospedale da campo, e delle fortificazioni e ne parte poi per Vienna ove giunge alla fine di settembre. Qui l'esperienza acquisita in colloqui da lui avuti in precedenza in più occasioni con emissari turchi lo fa apparire il più indicato a sondare, a Pottendorf, le proposte di pace ottomane e a far parte - con Ernst Rüdiger Starhemberg e Francesco Udalrico Kinsky - della commissione ristretta che poi ne discute, peraltro senza esito, a Vienna.
Ma, più ancora che l'erosione di tante posizioni turche prese per lo più per farne dopo averne bloccati, con un rigido accerchiamento, i rifornimenti, il dato caratterizzante dell'azione del C., specie negli anni 1684-1687, è rappresentato dalla più spietata e sistematica repressione della guerriglia antiasburgica capeggiata dal Thököly.
Questi, appoggiato dalla Porta, aveva raccolto attorno a sé gli elementi più disparati (disertori, nobili spossessati dei loro beni, dissidenti religiosi, proprietari esasperati dalle vessazioni delle truppe imperiali; "gente tumultuaria e disperata" - insistono i "giornali" veneziani del tempo - incapace di costituirsi a "milizia stabile", il cui capo "non tiene luogo permanente, ma qua e là va per lo più vagando"), accomunati però dall'avversione per la politica d'accentuata tedeschizzazione promossa da Vienna. Ribellione, a detta del Vico (che, se non tace gli eccessi sanguinari del C., si preoccupa tuttavia di conferire un significato progressivo al ruolo da lui svolto), marcata dagli interessi magnatizi e quindi dalla gretta difesa d'anacronistici privilegi signorili; ma in realtà non priva d'implicanze nazionalpopolari, quanto meno sul piano della propaganda, ché il Thököly si presenta non come "ribelle" ma come difensore della "libertà" della sua terra. È certo in grado di connotarsi patriotticamente laddove appare disperata unanime reazione contro il C. - questi colpiva tutti, tant'è vero che nessuno poteva vantarsi, ricorda il Thököly nei suoi "manifesti", di non aver perso, per colpa sua, qualche persona cara -, dei cui metodi un documento relativo a una "laniena et varii cruciatus", da lui, "bestiali crudelitate", perpetrati a Debréczen nel 1685, costituisce un'agghiacciante testimonianza.
Uomini e donne - ne risulta - furono fatti morire sotto le torture: fustigazioni ai piedi, "pruna corpori apposita", unghie strappate, prolungate sospensioni "in trabes", "inaudita tormenta" dai quali "innumeri non fuerunt immunes, et etiam sunt mortui; sed quis eos enumerare posset?". Nel 1687, emersa la trama d'un'estesa e variamente ramificata congiura facente capo, al solito, al Thököly, che andava - così il Corner del tutto prono alla versione ufficiale in una lettera del 9 marzo - "infettando quasi universalmente tutti quegli habitanti nella perfidia dell'ostinata avversione al dominio cesareo", il C. riempie di presunti complici e di semplici sospetti di connivenza le prigioni di vari centri dell'Ungheria Superiore e instaura ad Eperjes un autentico clima di terrore. Proclamatosi giudice criminale, accoglie disinvolto le denunce specie se contro i benestanti, cui estorce e lascia estorcere denaro, autorizza torture indiscriminate, fa giustiziare pubblicamente in più riprese - senza attendere l'esito dei ricorsi alla grazia imperiale - i principali indiziati; e, a mo' di macabro ammonimento, lascia campeggiare per mesi nella piazza principale il palco delle esecuzioni.
Complementare al C. specialista nello schiacciare minacce di sollevazioni di cui sa gonfiare ad arte la pericolosità, il C. maestro nell'addossare a popolazioni immiserite tutto il peso dello stanziamento delle truppe senza ricorso all'erario imperiale: "promette - sta scritto in un dispaccio del Comer del 22 sett. 1686 - d'acquartierare la militia e ricavare dalle contributioni il mantenimento senz'alcun aggravio di Cesare", coll'intenzione di sottoporre pure la contigua Transilvania "alla forza et agl'arbitrii dell'armi imperiali", come aveva già fatto gli anni precedenti.
Con tono imperioso era infatti solito ingiungere al principe Mihály Apaffy che era suo dovere "nostris necessitatibus fervide subvenire... ut militia sine altercatione commode alatur", assicurando, in caso di rifiuto, che avrebbe saputo andare "omni resistentiae obviam" e "vim vi repellere". E questi doveva sottostare, colla magra consolazione di lamentare, in accorati appelli al re di Francia (allora accusata dalla pubblicistica imperiale di connivenza colla Porta e presentata da vari libelli come "turbantizzata") e al re di Polonia, l'"horrendam et vix ulterius tolerabilem regni mei Transylvaniae a Germanis oppressionem". Il principe temeva inoltre, non a torto, che - come aveva denunciato il 27 febbr. 1687 a Luigi XIV - si mirasse anche "ut omnibus libertatibus evellamur, libera principum electione ac peculiari principatu destituamur, coronac hungaricae conglutinamur eorumque superioratui ignominioso subijciamur vasallatu".
Difatti il C. - coadiuvato dal suo onnipotente primo ministro Michele Téleki - approfittando del timore d'una rappresaglia tartara per l'ospitalità alle truppe imperiali, indusse gli "stati" a riunirsi, nel maggio del 1688, a Fǎgǎraş per scegliere, definitivamente, tra Costantinopoli e Vienna; naturalmente - informa esultante un "giornale" veneziano - la Dieta si concluse coll'impegno scritto "di darsi intieramente sotto il dominio e soave protezzione dell'augustissimo Cesare e rinuntiare ... alla barbara degli ottomani, ricevendo, per contrasegno della loro divotione, la guarniggione cesarea anco nelle più considerabili et importanti fortezze... del paese".
Il rafforzamento del dominio asburgico in Ungheria, la Transilvania sottratta al larvato controllo ottomano e sottoposta al ben più vincolante protettorato imperiale, le contribuzioni estorte e gli acquartieramenti imposti senza riguardo alle condizioni delle popolazioni, l'abilità manovriera - sapeva orientarsi, riconoscevano i contemporanei, "in un mare di negozi" utilizzando accorto gli autorevoli appoggi di cui godeva contro gli ostacoli frappostigli dall'invidia e dall'emulazione dei rivali - e la simpatia di Leopoldo I valsero al C., nel 1689, il commissariato generale dell'esercito a condizioni, finanziarie e di prestigio, di particolare favore. Garantitigli ingenti proventi ordinari e straordinari e il comando supremo d'una annata in guerra, l'ufficio, esentato di fatto, se non formalmente, dal controllo delle presidenze del Consiglio di guerra e della Camera imperiale (ove più forti s'annidavano le resistenze alla condotta del C. accusata d'eccessive esorbitanze), comportava un'amplissima sfera d'azione.
Secondo l'istruzione del 19 luglio 1689 le competenze del C. andavano infatti dalla sorveglianza sul servizio farmaceutico e il personale medico al controllo su eventuali abusi dei colonnelli "nel conferire i posti vacanti d'ufficiale", da compiti giudiziari alla custodia della "cassa di campagna" e alla contabilità relativa all'"impiego del denaro", dal magazzinaggio e vettovagliamento alla direzione d'un "numero stragrande" d'"impiegati ... cioè ... i commissari in servizio nei paesi e coll'armata, i commissari... d'artiglieria, i pagatori degli arsenali, gli impiegati degli uffici di provianda e del naviglio militare", tutto il "personale d'ufficio e di cancelleria".
Il C. - che ha, come scrive, il 24 maggio 1619, al duca di Savoia, "sulle spalle tutto il peso d'ambe le guerre", riuscendo tuttavia a fornire, così ribadisce a Cosimo III il 17 giugno 1691, "tutto il bisognevole" a Luigi di Baden preposto alla lotta contro i Turchi e alle truppe operanti sul fronte renano, dove ha contribuito, in particolare, nel 1689, alla presa di Magonza e Bonn - veniva così ad avere la piena disponibilità di decine di migliaia di uomini e decine di milioni di fiorini.
A lui - osserva il Corner nella relazione del 16 marzo 1690 - "subordinata resta la militia, la dispositione de' quartieri d'inverno e delle paghe, la provisione de viveri e di guerra et ogn'altra necessaria occorrenza, tutto passando per sua mano"; incarico, precisa Girolamo Venier, successo al Comer, nella relazione dell'11 dic. 1692, "partecipante d'economico e di militare", che non poteva essere affidato - così ancora il Corner nella sua relazione - a "soggetto" più indicato del C. che lo assolve "con admirabile direttione, profittando notabilmente con il risparmio, con dispositione aveduta di tutte le cose necessarie, rintracciando i mezi con ripieghi adattati al bisogno. Giustamente però gl'è dovuto il merito dell'ottime direttioni dell'ultime due passate campagne e di non essersi arenata l'una o l'altra guerra".
Nel 1691, sempre conservando la qualifica - lucrosissima per lui e odiosissima agli occhi delle popolazioni - di commissario generale, il C. venne nomina o comandante in seconda (il comando supremo, di fatto meramente nominale, andò al duca di Baviera Massimiliano Emanuele II di Wittelsbach che peraltro lasciò l'Italia nel dicembre del 1691 pel governo dei Paesi Bassi spagnoli) delle truppe destinate all'aiuto di Vittorio Amedeo II, con, in più, le credenziali di plenipotenziario presso Genova, Lucca, Mantova, Novellara, Firenze, Parma, Torino e Venezia; sì che, ancora una volta - lo faceva notare compiaciuto al granduca di Toscana - veniva "appoggiato" alla sua "debolezza il peso così del militare come del politico". Fissata la residenza abituale a Milano, ove giunge il 23 luglio 1691, nel settembre-novembre è al campo cesareo - sabaudo in Piemonte, senza tuttavia impegnarsi completamente nel conflitto e, in specie, senza inviare tempestivi rinforzi a Montmélian assediata; per cui la caduta, di questa (22 dicembre), non sufficientemente compensata dal precedente ricupero di Carmagnola (8 novembre), venne addebitata alla sua riluttanza a mettere a repentaglio i propri uomini, ché la sua prevalente preoccupazione pei "quartieri d'inverno", per la predisposizione dei quali sfoggia un'energia marcatissima palesemente contrastante colla passività dimostrata nella campagna del 1691, provoca - come avverte più volte il residente veneto a Milano Pietro Busenello - ben presto "dissapore" tra il C. e il Savoia che lo accusa, appunto, d'essersi "mostrato... tardo e avverso a tutte le operazioni" da lui "proposte". E le giustificazioni del C., che più volte replica di non aver voluto "seguire i consigli troppo caldi di quel giovane principe che credeva una stessa cosa il mestiere della guerra e quello di correre il cervo", non suonavano abbastanza convincenti; si rafforzava, nel frattempo, il sospetto che egli, col tacito consenso di Leopoldo I, più che impegnare i 40.000 uomini di cui disponeva nella liberazione dei territori sabaudi occupati dai Francesi, mirasse a porre le premesse d'un saldo insediamento imperiale in Italia di cui valersi - in occasione della morte, sin d'allora attesa, di Carlo II - per impadronirsi del Milanese e del Napoletano. Donde l'accusa, riportata in una lettera, del 2 genn. 1692, del Busenello, che il C. fosse, tutto sommato, lieto delle "maggiori angustie" del duca. Ad incrinare i rapporti tra i due, s'aggiungevano le contribuzioni forzate che rendevano impopolare la stessa causa sabauda presso i principi neutrali.
Ma era un punto sul quale il C. non intendeva transigere e, disponendo della forza, poteva permetterselo: "se le cose non vanno a seconda de' suoi voleri, si versa senza moderazione, perde ogni rispetto, non attende ragione e si regola con il proprio capriccio, perché, trovandosi con la forza, riduce la ragione al suo semplice capriccio", osserva Pietro De Angelis, inviato presso di lui dal granduca di Toscana nella speranza d'ammorbidirlo. Pel C. invece le pretese, lungi dall'essere arbitrarie - in realtà furono così esose che dieci anni dopo, mentre la propaganda francese le ricorderà con insistenza, la diplomazia asburgica s'affannerà ad assicurare che non sarebbero state assolutamente riesumate -, erano giustificatissime: non è giusto - affermava in una lettera del 24 nov. 1691 - ricada sull'erario "esausto dalle spese di due guerre" il mantenimento di truppe assoldate "a difesa dell'Italia". Impossibile - proseguiva - spremere "l'ultima goccia" dalle casse imperiali per provvedere al costo di migliaia di soldati che Leopoldo I, lasciando "sforniti ed esposti... a grave pericolo li stati hereditari", ha avuto la bontà d'inviare a salvaguardia del "paese altrui"; i beneficati perciò, proporzionatamente alle entrate, dovevano assumersene le spese.
Di qui l'imposizione di contributi anzitutto ai feudatari imperiali, il cui elenco fu steso dal dotto conte milanese Francesco Mezzabarba Birago, creato dal C. uditore fiscale. Sin dall'inizio il C. non cela la durezza dei propri propositi dichiarando che - diversamente dal marchese Ferdinando degli Obizzi che l'aveva preceduto nella richiesta di sussidi ottenendo 200.000 lire milanesi - egli, usando il guanto di ferro non di velluto come quello, avrebbe ricavato anche cinquanta volte di più: 2 milioni di scudi! Chi avesse rifiutato di pagare, avrebbe dovuto ospitare nelle sue terre migliaia di soldati, dal robusto appetito e dalle prevedibili intemperanze, coi loro cavalli e i loro ingombranti carriaggi.
L'ingiunzione ebbe ben presto effetto: Ranuccio II Farnese, malgrado non fosse contemplato, in quanto feudatario papale, nella lista del Mezzabarba, dovette sborsare circa 280.000 scudi e alloggiare 4.000 cavalli; Francesco II d'Este, ricattato collo spettro del saccheggio, si indebitò per versare i quasi 423.000 scudi fissati; 40.000 gli scudi pagati da Lucca, nei cui confronti il C. fu convinto dall'intervento del vescovo, il card. Buonvisi, ad alleggerire un po' le sue iniziali pretese; oltre 500.000 gli scudi estorti a Ferdinando Carlo Gonzaga, che pure aveva offerto alloggiamenti nel Mantovano e nel Monferrato; tassatissimi anche i principi di staterelli minuscoli, quali quelli di Bozzolo.Ne nacque un coro di proteste e lamentele o direttamente rivolte all'imperatore o a lui trasmesse dal pontefice; e il diffuso rancore pel C. divenendo protesta antiaustriaca provocò un sommovimento popolare a Castiglione delle Stiviere. Solo Genova e la Toscana seppero schivare le somme loro addebitate. La prima, comunicando a Vienna la ferma intenzione di rifiutare con le armi ulteriori aggravi, riuscì a limitare il contributo, con grande ira del C., a 188.000 scudi; Cosimo III, da cui il C. voleva almeno 500.000 scudi, ricorrendo ad un'abile tattica temporeggiatrice, usando i nemici del C. a Vienna, facendo presente che un esborso troppo vistoso gli avrebbe fatto perdere agli occhi della Francia la veste di neutrale, versò, in sei rate, appena 150.000 scudi, forte delle assicurazioni viennesi che si sarebbe impedita l'invasione a più riprese minacciata dal Carafa.
Questi, amareggiato dalla clamorosa riduzione, "ingiusto e sleale fatto" che suonava implicita sconfessione del suo rigore, scriveva, il 26 marzo 1692, all'amico card. Buonvisi per deprecare che, "a suggestione d'alcuni ministri" anteponenti "il proprio interesse a quello del padrone", Leopoldo I avesse accondisceso a ricevere dal granduca una somma così "inferiore al presente bisogno ed a quella" ch'egli "avrebbe potuto e dovuto" corrispondere "Dal che nasce - continuava - che, non avendosi dinaro per fare i magazzini, l'armata non avrà di che vivere nella prossima campagna e conseguentemente resterà indebolita all'operazioni. Io, sicome nell'intimo del cuore compiango questi inconvenienti, così mi consolo che non potrà né da Dio, né dagl'uomini esserne attribuita la colpa a mia negligenza, mentre non ho mancato di rappresentare tempestivamente il tutto a Sua Maestà con quella candidezza che si conviene ad un fedel vassallo ed ad un onorato ministro. Nel rimanente al padrone tocca il comandare ed al servo l'eseguire; né so che farmi quando si vuole andar spontaneamente in rovina.
A corte in effetti si diffida ormai della utilità della permanenza del C. in Italia, il quale di lì a poco deve abbandonare Milano perché richiamato a Vienna, dove giunge il 27 aprile. Successo questo della lotta implacabile mossagli, sin dall'ottobre del 1691, da Vittorio Amedeo II (ricambiato peraltro dal C. che l'aveva circondato di spie per coglierlo in flagrante nelle sue avances colla Francia e, quanto meno, per screditarlo con dettagliate dicerie sulle sue intemperanze erotiche), il quale era riuscito a renderlo sgradito al re di Spagna e a Guglielmo d'Orange, e a mobilitare a suo danno, tramite il proprio rappresentante a Vienna, il marchese di Prié, i suoi nemici più influenti, Teodoro Strattmann, lo Starhemberg e il card. Leopoldo von Kollonich. Questi ultimi, assecondati dalla diplomazia sabauda e spagnola, insistono, tra la fine del 1692 e i primi giorni del 1693, perché il C. sia privato del commissariato e della "cesarea plenipotenza" in Italia, dove, in un primo tempo, s'era illuso di poter tornare. Prevenendo il provvedimento, il C. si dimette con lettera dell'11 genn. 1693, nella quale si dice impossibilitato a svolgere l'incarico essendo suo dichiarato "nemico" il Kollonich (dalla fine del 1692 presidente della Camera imperiale) e con lui "disgustato" il Savoia; chiedeva, in compenso, l'ambasciata romana rimasta vacante. Leopoldo I, con rescritto del 4 febbraio acconsente.
Parzialmente soddisfatto, il C. dava inizio ai preparativi pel trasferimento, ma la morte lo colse improvvisa il 6 marzo: "una febre acutissima - informa, con maligno compiacimento, il giorno dopo il rappresentante sabaudo - ...in cinque giorni l'ha spedito non già per la sua ambasciata di Roma, ma per l'altro mondo". Più pietoso l'ambasciatore veneto Alessandro Zen scriveva, anch'egli il 7 marzo, che il C., "caduto infermo", malgrado la "complessione robusta" e la vita regolata, "convenne... cedere all'ultimo fato". Anche le emozioni dovettero contribuire ad una fine tanto repentina, "volendosi derivata" la morte "da mal di cuore, particolarmente dopo la rassegna del commissariato e le gagliarde contrapositioni dell'ambasciatore di Spagna alla intrapresa della conseguita ambasciata di Roma". Sincero il dolore di Leopoldo I, il quale ebbe a scrivere al re di Spagna che col C. perdeva uno dei suoi uomini migliori, che "sarebbe stato ministro incomparabile" solo che fosse stato più malleabile e meno emotivo.
Giunta la notizia a Napoli, ove il suo nome era in grande fama essendo stati i parenti solerti banditori dei suoi successi, ci furono "alcuni" - riferisce il Confuorto, un cronista del tempo - che dissero la sua morte "procurata da' suoi emuli, vedendo che questo personaggio troppo grande era fatto". Si parlò d'avvelenamento e si sospettò nel duca di Mantova il mandante. Dopo quasi tre mesi di lutto il fratello Adriano, maestro di campo del re cattolico, volle si svolgessero esequie solenni: il 5 giugno, nella chiesa teatina di S. Paolo, ci furono - narra il Confuorto - "con molta pompa" i funerali, con un'orazione funebre del teatino Francesco Maria Muscettola. Si tenne pure, alla presenza della più scelta nobiltà, un'"accademia", nella quale la lettura di troppi "sonetti e composizioni", per lo più d'infelice fattura, finì col tediare il pubblico sino a suscitarne proteste e zittii.
Anche il Vico ebbe modo d'esprimere il suo cordoglio per la scomparsa del C. - "onore e lume della nostra patria" scriveva al Magliabechi - con una canzone, stampata a Venezia nel 1693, ove cerca di fondere l'occasione celebrativa in un contesto di speculazione teorica. E sulla figura del C. tornava ampiamente, dietro richiesta di Adriano Antonio Carafa (1695-1763, figlio del fratello del C. Adriano, che metteva a sua disposizione una "sformata copia di buone e sincere notizie", vale a dire il ricco archivio privato del defunto, in seguito andato disperso.
Dopo due anni di lavoro uscivano a Napoli, nel 1716, in un'edizione d'un certo lusso tipografico, i De rebus gestis A.C. libri quatuor, scritti, secondo il censore civile Domenico Aulisio, "summa rerum prudentia, ipsoque linguae latinae genio". Presenti i toni esaltatori - il C., "uomo non degno", l'osservazione è del Tommaseo, "è dipinto non qual era, ma qual doveva essere" -, più controllati comunque di quelli usuali nella letteratura encomiastica fiorente a Napoli e già prodiga d'elogi col C., rispetto alla cui acritica celebrazione la biografia vichiana, poggiante su di un robusto fondamento documentario, rappresenta un deciso passo innanzi. Tanto più che l'autore, se valuta positivamente l'assieme dell'operato del protagonista, riporta le pesantissime accuse contro di lui ricorrenti impegnandolo in un'argomentata confutazione sostenuta in prima persona. E la narrazione acquista un'apertura problematica laddove il Vico è indotto a meditare sui rapporti tra cultura e politica: non è forse il C., sprovvisto del tutto della prima, fornito in sommo grado di capacità politico-militari? E non sono forse queste attitudini naturali caratterizzate come sono da una sorta di percezione intuitiva ben più utili d'un pesante bagaglio dottrinale? Ché si procede più speditamente quando la condotta è fissata, volta per volta, d'istinto "quam ex abdita... doctrina subtilibusque rationibus". Il Vico non ha dubbi: "interiorum literarum ignari reipublicae administrandae meliores".
Se non altro per la suggestione delle pagine vichiane, conviene approfondire i tratti della figura del C., partendo dalle impressioni di prima mano degli ambasciatori veneti Corner e Venier, concordi nel raffigurarlo, volitivamente ambizioso: s'è "fatto, col elevato talento, fabro della propria fortuna"; "ardito intraprendente perspicace giuditioso", assai "esperto nella condotta de' maneggi e de' negotii... sarebbe capace" - osservazione questa quasi presaga della disavventura finale - "di salir a maggior grado di fortuna", se, "lasciandosi ben spesso trasportar dall'ardenza della natura e regolandosi in tutto con le proprie opinioni, non fosse altretanto facile ch'improvisamente patisse qualche scossa nella gratia del sovrano o nella confidenza".
Quanto al ruolo repressivo svolto in Ungheria, culminato nel criminale episodio d'Eperies, fino a che punto si trattò di ferocia individuale? Il Filamondo pensa si tratti di un'operazione necessaria delegata al C., prestatosi così a stornare l'odiosità dall'imperatore: l'esaltatore tardo seicentesco della bellicosa indole dell'aristocrazia partenopea trova infatti ammirevole la "strage", ché il C. - senza coinvolgere il sovrano nello "spargimento di sangue", di cui si assunse ogni responsabilità, conservando così intatta la fama dell'"innata benignità di Leopoldo" - interpretò, incrudelendo - i più reconditi pensieri dell'imperatore, dal momento che, in tal modo, gli salvava "il regno... dell'Ungheria". Non diversamente il Vico nello specificare i suoi "vicia" ("in maiestatis rebus suspiciones habere pro crimine; rigore nimio ad saevitiam inclinare; acerrimus tributa conradere; infensus inimicorum persecutor"), osserva come, di fatto, "haec ipsa Leopoldi virtutibus altius eminendi opportunitatem dedere". A proposito del fermo controllo che aveva della Transilvania, il Sanvitale rileva come sapesse "non solo... espugnare le città ma ancora... conquistare e conservarsi fedeli i nuovi sudditi"; e, lui morto, si ricordava ancora un suo illuminato "consiglio" - riportato da Carlo Ruzzini nella sua relazione del 19 dic. 1699 - secondo il quale, per "provedere... alla... quiete et ubertà del paese", si sarebbe dovuto dapprima, "con disarmar gl'hungari, disunir la militia nationale", per poi "insensibilmente ridurla, dalla licenza in cui vive, alla patienza dell'economia e dell'agricoltura". Le stesse contribuzioni imposte in Italia, che valsero al C., colla comprensibile avversione delle vittime, il duro giudizio muratoriano ("uomo pieno di boria, di crudeltà, di puntigli", giunto a "far da bravo con gli altri sovrani d'Italia" e a fondare "la sua gloria nell'assassinar gl'italiani" collo spropositato pedaggio), appaiono sotto una luce diversa se si considera, ad esempio, che - così nella lettera del 13 febbr. 1692 del residente toscano a Milano Francesco Bondicchi - le "truppe alemane" della Lombardia erano in fermento perché da tre mesi non percepivano "le solite paghe"; e le diserzioni cominciavano a farsi numerose. Pesanti le ironie dei contemporanei sul suo preoccupato indaffararsi per le scorte di viveri e munizioni, lo stato dei magazzini, il foraggio dei cavalli: "generale da quartieri d'inverno" si diceva di lui.
Ma fu realmente un difetto? O non si trattò piuttosto di consapevolezza della complessità sempre maggiore della guerra, della importanza sempre crescente degli aspetti logistico-organizzativi? Non valeva forse più d'una vittoria il poter disporre di truppe convenientemente nutrite ed alloggiate? Di qui il suo occuparsi, tra l'altro, del pane biscottato dei soldati, il volerne esaminare più campioni prima di farlo confezionare in grande quantità. Tipico altresì del C. l'insistito presentarsi come funzionario ligio e fedele, il sentirsi anzitutto e soprattutto "fedel vassallo" e "pontual ministro di Cesare", i cui ordini vanno eseguiti e non discussi. Niente di avventuroso e d'individualistico, sotto tale punto di vista, nel suo servizio; ma non per questo è accostabile alle figure volutamente e artificiosamente austere e tutte risolte, ufficialmente, nel lavoro dei grands commis dello Stato. Quella del C. resta vivacemente colorita da accese tinte secentesche esuberanti talvolta sino alla truculenza.
Personalità rozza e straripante, sa essere rumorosamente cordiale specie coi conterranei, che favorisce smaccatamente, come quando ottiene per l'avventuriero Rocco Stella il sospirato grado di sottotenente; se contrastato, trascende in escandescenze e improperi. Avidissimo di danaro, ne guadagnò in gran quantità investendolo parzialmente in cospicui acquisti fondiari nel Napoletano; nel 1689-1692 è uno dei privati più ricchi dell'Impero, corteggiato e invidiato da principi e sovrani, in grado d'offrire prestiti allo stesso Leopoldo I per far fronte alle spese di guerra. Accusato, non sempre infondatamente, di scarsa correttezza amministrativa e di peculato vero e proprio, fu sensibile alle adulazioni e sollecitò e accettò i più svariati tipi d'omaggio: vini e formaggi da Cosimo III, 600 "braccia di damasco" per la consorte da Lucca. Né ci fu conquista senza che arraffasse qualcosa: presa Munkács, s'appropria di vari oggetti preziosi, tra cui "unum sceptrum argenteum deauratum, türkes et cristallo ornatum", una sella d'argento dorato costellata di pietre preziose e rubini ed un'altra sella, di minor valore, dalle "extremitates argento obductae". Enormi dunque e non tutti leciti i guadagni, ma enormi anche le spese d'un tenor di vita improntato a sontuosità e fasto principeschi: splendide le vesti della moglie, sempre sovraccarica di gioie; piene di cavalli e di carrozze tutte rifinite le sue scuderie; sin urtante il lusso della sua residenza viennese e di quelle temporanee. A Milano, ad esempio, affitta il grande e bel palazzo del conte Annone e altri due contigui venendo a disporre - annota il Bondicchi l'8 ag. 1691 - d'"un corpo di abitazione abile ad alloggiare la casa di qualsivoglia gran principe"; e l'arreda, senza risparmio, "con ricchi addobbi e riguardevoli suppellettili", sì che - così il Bondicchi il 5 marzo 1692 - i visitatori restavano "meravigliati nell'osservare tanto superbamente parato il suo palazzo, essendovi addobbi e mobili da gran principe e superiori assai alla sua sfera". Si esprimeva in siffatta provocatoria e profusa esibizione di ricchezza una smania d'autoaffermazione riscontrabile anche nel puntiglioso orgoglio col quale il C., appena giunto in Italia, s'intestardì a pretendere - senza molta fortuna, però, ché Vittorio Amedeo II e Cosimo III evitarono di dargli soddisfazione - che i principi italiani gli "cedessero la mano"; in quanto plenipotenziario esigeva da loro lo stesso riconoscimento degli elettori dell'Impero agli ambasciatori dell'imperatore.
Fonti e Bibl.: La biogr. del C. è nota soprattutto grazie a sette saggi ad essa dedicati da F. Nicolini, pubbl. prima in periodici e poi riuniti nella raccolta postuma Vico storico, a cura di F. Tessitore, Napoli 1967, pp. 1-336, uno dei quali ristampato anche nella successiva silloge Scritti di archivist. e di ricerca stor., a cura di B. Nicolini, Roma 1971, pp. 150-163. A questa indicazione essenziale va aggiunto: Arch. di Stato di Venezia, Senato, Dispacci Germania. lett. dell'8 apr., 9, 16 e 23 dic. 1685, 27 genn. 1685 m.v., 3 marzo, 9 giugno, 22 sett., 20 ott., 15 dic. 1686, 19 genn. 1686 m.v., 16 e 30 marzo, 6 e 20 apr., 13 luglio, 2, 7, 15 nov., 6, 13, 20 e 27 dic. 1687, 3 febbr. 1687 m.v., 11 sett. 1689, 14 e 21 maggio, 24 giugno 1690 in filze 160-163, 165 (distrutte, purtroppo, le filze 164, 168-171, certo ricche di notizie sul C., utilizzate peraltro ampiamente dal Nicolini); F. Buonvisi, Nunziatura a Colonia, a cura di F. Diaz, II, Roma 1959, p. 162; Inventario del R. 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