Alighieri, Antonia (suor Beatrice)
Figlia di D. e di Gemma Donati, nata presumibilmente a Firenze tra gli ultimi anni del sec. XIII e i primissimi del XIV, quasi certamente minore di Pietro e Iacopo. Poiché le figlie non erano giuridicamente coinvolte nella condanna del padre, è da ritenere che restasse con la madre a Firenze anche dopo l'estensione del bando ai fratelli; ma non mancano autorevoli studiosi, come il Barbi, che ritengono probabile che Gemma seguisse in un secondo momento la sorte del marito, e quindi è altrettanto plausibile l'ipotesi che prima del 1315 A. fosse già presso il padre.
Della sua esistenza abbiamo conferma in un documento del 3 e 6 novembre 1332, stilato dal notaio ser Salvi di Dino, nel quale Iacopo s'impegna, anche a nome di Pietro, a far avere entro due mesi il consenso della madre e della sorella A. a una vendita.
Per antica tradizione s'identifica A. con la suor Beatrice, monaca nel monastero di Santo Stefano degli Ulivi a Ravenna, a cui il Boccaccio avrebbe dovuto recare nel 1350 dieci fiorini d'oro da parte dei capitani della compagnia di Orsanmichele. Il documento relativo era in un libro di entrata e uscita ora perduto, ma esaminato nel sec. XVIII da Domenico Maria Manni, un secolo dopo da Giuseppe Pelli. L'esistenza del documento era stata fortemente messa in dubbio, ad es. dall'Imbriani, che negò l'esistenza di una Beatrice Alighieri, ma a fine secolo il Bernicoli pubblicava un documento tratto dai memoriali dell'archivio notarile di Ravenna; in esso era detto che il 21 settembre 1371 maestro Donato (degli Albanzani), casentinese ma dimorante a Ravenna, consegnava, da parte di un amico che desiderava restare sconosciuto, tre ducati al monastero di Santo Stefano, in qualità (il monastero) di erede " sororis Beatrisiae f. cd. Dandi Aldegerii et ol. sororis monasterii antedicti ".
Il Ricci ha avanzato l'ipotesi che l'amico sconosciuto fosse lo stesso Boccaccio, che vent'anni prima non avrebbe adempiuto all'incarico assunto presso la compagnia di Orsanmichele; ma l'ambasceria ravennate del Boccaccio oggi non viene messa in discussione. Per poter identificare suor Beatrice con A. non desta eccessiva perplessità la circostanza che nel documento del 1332 non si faccia allusione alla condizione religiosa di A., essendo questa un'obbligazione all'interno della famiglia; anzi la proroga di due mesi si giustifica proprio con la necessità di provvedersi di un'autorizzazione da parte di persona lontana da Firenze. Né è pensabile che D. potesse avere due figliuole, anche perché nel citato documento si allude solo ad Antonia. Del resto suor Beatrice, benché religiosa, doveva possedere ancora beni se il monastero sarà designato suo erede. E il nome scelto nell'entrare nella vita monastica chiaramente attesta il riconoscimento di A. per il simbolo fondamentale dell'opera paterna.
La figura di suor Beatrice è stata nel sec. XIX tema di romanzi, come la Beatrice Alighieri di Ifigenia Zauli Saiani (Torino 1853), e di drammi, come quelli di Luigi Biondi (ibid. 1837) e di Tito Mammoli (Rocca San Casciano 1883), oltre a comparire in tutte le opere romanzesche e teatrali che hanno come argomento gli ultimi anni di vita di Dante. Nel muro esterno del monastero ravennate (che fu soppresso nel 1882) si legge una lapide, dettata da Filippo Mordani.
Bibl. - D. M. Manni, Storia del Decamerone, Firenze 1742, 3; I. Del Lungo, Dell'esilio di D., ibid. 1881, 161; V. Imbriani, La B. A., in " Giornale napoletano della domenica " I (1882) n. 1; S. Bernicoli, La figliuola di D.A., in "Giorn. d." VII (1899) 337-340; N. Zingarelli, I figli di D., Firenze 1923; Barbi, Problemi II 357; Piattoli, Codice 153, 196, 230; C. Ricci, L'ultimo rifugio di D., nuova ediz. a c. di E. Chiarini, Ravenna 1965, 165, 236-238.