DANDINI (Dandino), Anselmo
Nacque a Cesena (Forlì) verso il 1546 dal conte Pompeo, fratello del cardinal Girolamo. Nel 1557 iniziò gli studi di diritto a Bologna, dove ebbe tra i suoi maestri Sebastiano Regoli.
Agli anni dei suoi studi bolognesi risalgono le lettere scrittegli in latino dallo zio cardinale per mano dei letterato Giulio Poggiani; vero e proprio manuale di educazione destinato ad un successore alla porpora, le lettere seguono il giovanissimo D. nei suoi progressi nel latino, nella piena adesione alla pedagogia del tempo, esortandolo a mantenersi degno dei suo futuro stato ecclesiastico.
Lo zio Girolamo aveva provveduto anche materialmente alla sua carriera, assicurandogli il reddito di una prebenda canonicale ad Imola e, soprattutto, rinunziando in suo favore il beneficio di S. Bartolomeo di Ferrara, commenda cardinalizia che gli era stata conferita nel 1522, e di cui nel 1560, a tredici anni, il D. fu nominato abate commendatario perpetuo. La morte, nel dicembre 1559, del cardinal Girolamo non interruppela carriera dei giovane. Laureato in utroque iure, divenne sotto Pio V protonotario apostolico de numero participantium e referendario utriusque signaturae. Sotto Gregorio XIII, dopo un incarico di governatore ad Orvieto, iniziò la carriera diplomatica: si pensò dapprima a lui per la nunziatura dei Portogallo, ma la cosa non si realizzò; in compenso nel 1578 divenne nunzio ordinario in Francia.
È difficile, forse impossibile, spiegare la scelta, per la prestigiosa nunziatura di Francia, di un personaggio come il D., un semplice protonotario, che fino a quel momento non aveva dato particolare prova di sé ed era privo di qualunque esperienza diplomatica. Si trattava, inoltre, di cosa anomala e contraria al corso della carriera diplomatica quale si era ormai codificato sotto Gregorio XIII. La sua candidatura potrebbe essere stata favorita dalla necessità di dare al nunzio Antonio Maria Salviati, cugino di Caterina de' Medici, un successore gradito alla corte, e questo poteva essere il caso del D., legato al partito filofrancese in Curia e protetto dal cardinal d'Este e dai cardinali Farnese, Orsini e Commendone. Quel che è certo è che il Salviati fece di tutto per rendergli assai difficile la successione, giungendo a negargli i nomi dei suoi contatti a corte; "et è andato con me tanto à la larga, che ha fatto stupire ogni uno et gli altri ambasciatori particolarmente" si lamentava il D. (Parigi , Bibl. nat., Fonds it. 1676, 9r).Partito da Roma nel marzo 1578, il D. giungeva a Parigi il 21 aprile, installandosi nel lussuoso Hatel de Sens. Nei tre anni della sua nunziatura, il suo train de vie fu sempre assai sfarzoso, conformemente al suo ruolo. Le spese, altissime, erano solo per la metà coperte dal suo appannaggio di nunzio e provenivano per il resto dalle sue rendite italiane, il che non impediva che egli si trovasse spesso a corto di liquido e costretto a ricorrere a prestiti. Gran parte della sua corrispondenza privata è dedicata a seguire i suoi affari italiani e a procurarsi anticipi sulle su e rendite.
Non possediamo il testo delle istruzioni al D., ma possiamo agevolmente ricavarle dal resoconto della sua prima udienza a corte: egli doveva in particolare curare la restituzione a Roma di Ménerbes, piazzaforte del Contado Venosino, l'applicazione del concordato di Bologna del 1515 e la pubblicazione dei decreti tridentini in Francia. Più in generale, il D. doveva costantemente adoperarsi al mantenimento della pace tra Francia e Spagna, come richiedeva la politica di Roma e, su ogni questione, doveva trattare sia con il re Enrico III, sia con la regina madre, "non trattando mai con l'uno che non trattasse ancor con l'altra et mostrando a lei di conoscere et credere che ogni cosa dipendesse dal volere et auttorità sua" (Correspondance ..., p. 837).
La situazione politica della Francia all'inizio della sua nunziatura era in effettì assai delicata. Nel settembre dell'anno precedente la pace di Bergerac aveva chiuso la sesta guerra di religione, non senza destare le più vive preoccupazioni di Gregorio XIII. Nella primavera dell'80 sarebbe scoppiata la settima guerra di religione che il D. descriverà nei suoi rapporti a Roma e durante la quale eserciterà costanti pressioni sulla corte per una più decisa gestione della lotta antiereticale. Molto attivo fu sempre il nunzio nel sollecitare la persecuzione degli ugonotti da parte dei re. Il 20 ott. 1578 scriveva a Roma denunciando l'esistenza di un culto ugonotto a Parigi, di cui aveva informato il re. Il D. si mostrava però assai scettico sulla possibilità che fossero svolte indagini serie a questo riguardo: "gli huomini qui vanno tanto lenti in simili affari, perchè chi per male habito chi per inclinatione o per interessi, et i tre perchè non sanno quello che sia per avvenire in questo regno dopo la morte del re senza figli, nissuno vuole inimicarsi la parte ugonotta ..." (Correspond. ..., p. 243). La denuncia dei culto ugonotto a Parigi fece molto scalpore a Roma; il papa se ne preoccupava, come scriveva il segretario di Stato al D., "essendosi sempre inteso che quel popolo si trovava netto d'heresie et observantissimo de la religione catholica et persecutore acerrimo d'hugonotti" (ibid., p. 257), e incoraggiava i passi del nunzio presso il re, passi in verità perfettamente inutili. Di fronte all'importanza del fatto il D. non demordeva e si procurava una lista dei luoghi dove si praticava il culto clandestino e i nomi dei pastori compromessi, consegnandola al re, in occasione di nuove istanze, nel maggio 1580.
Durante la sua nunziatura il D. ebbe ad occuparsi anche del caso di Paul de Foix, consigliere di Caterina de' Medici, ch'era stato designato dal re come arcivescovo di Tolosa, ma che Roma si ostinava da molti anni a non accettare, perché in gioventù era stato favorevole ai riformatori ed era ancora considerato un politique.
Nonostante le garanzie date dalla stessa Caterina al D. e la purgazione canonica di Paul de Foix a Roma, l'affare continuerà a restare insoluto fino al 1582, quando questi otterrà finalmente l'arcivescovato. In questa occasione il D. non si limitò a farsi zelante portavoce delle direttive romane, ma cercò di rafforzare l'opposizione della Curia trasmettendo le opinioni del cardinal di Birague, acceso sostenitore dei Guisa, e lasciando intravedere dietro la candidatura di Paul de Foix la longa manus del re di Navarra. Con particolare zelo il D. cercò inoltre di mettere a tacere il celebre curato René Benoist, detto il papa delle Halles, sospetto a Roma, ma protetto dall'università e dallo stesso vescovo di Parigi. Nel 1580 il D. lo denunciò a Roma, ma per l'inconsistenza delle sue accuse la cosa non ebbe seguito.
Nell'insieme l'attività antiereticale del D. si articola a più livelli, e accanto ad un'azione politica più generale, volta a spingere alla lotta contro gli ugonotti una corte spesso assai riluttante e politique, conosce un aspetto minore, ma non meno significativo, che si può definire spionistico, e che implica la creazione intorno alla figura stessa del nunzio di una rete d'informatori e di delatori.
Per esempio, nel 1580, il D. interveniva presso Enrico III per impedire i contatti tra i librai lionesi e quelli ginevrini e per proibire la vendita di libri eretici a Lione; inoltre, il nunzio denunziava il ruolo dell'Inghilterra nella diffusione dei libri eretici: questa volta si trattava di un'opera di Francesco Pucci che doveva essere spedita in Italia in cinquecento copie: luoghi di destinazione, Ferrara e Venezia. Queste informazioni gli derivavano dall'intercettazione della corrispondenza di Francesco Pucci con Giacomo Corbinelli, che era stato precettore del re, e con Thomas Bodley, allora al servizio dell'ambasciatore d'Inghilterra. Il D. riuscì a comprare, destinandole al rogo, le copie del libro in vendita a Parigi e a Lione, mentre segnalava a Roma i nomi dei corrispondenti italiani cui i libri erano destinati. Inoltre il D. si premurava d'informare puntualmente Roma sui movimenti degli eretici e dei sospetti, soprattutto se intenzionati a passare in Italia. Ancora, su richiesta del segretario di Stato, il cardinal Gallio, il D. inviò a Roma come libro sospetto la traduzione e il commento del Pimander di François de Candale.
Lo stato religioso della Francia e le possibilità d'intervento repressivo a tutti i livelli, nel tentativo di controllare i progressi dell'eresia, erano del resto al centro delle preoccupazioni della stessa Curia. All'atto stesso della sua partenza, il nunzio aveva ricevuto dal papa l'incarico di fare il punto sull'estensione che avevano assunto in Francia peccati come la simonia, l'irregolarità delle ordinazioni ecclesiastiche e soprattutto l'eresia.
Un quadro dello stato religioso del regno è tracciato dal nunzio fin dai primi tempi del suo soggiorno francese, anche se esso è integralmente desunto da una relazione fattagli dai gesuiti: "et intendo che molti sono quei peccati che sono in colmo abominevoli. Il primo è l'atheismo, il quale è frequentissimo, et l'heresia, et la familiare conversatione che s'ha con heretici senza alcuna necessità, il tenere et leggere libri prohibiti senza timore di scomunica. La simonia è così in uso che i benefitii si vendono come le vigne et le case ... . Le biastemme ancora sono assai colmo, et il nefando vitio de la carne" (Corresp. ..., p. 152). Come correttivo, il nunzio, dietro consiglio dei gesuiti, chiedeva a Roma la facoltà di assolvere i casi di simonia e di eresia. I rapporti tra il D. e i gesuiti furono assai stretti: dai gesuiti egli otteneva assai spesso informazioni confidenziali che trasmetteva a Roma, e da parte sua intervenne più volte in favore della Compagnia, proteggendone l'installazione a Parigi, avvenuta appunto nel 1580, e che era assai contrastata dal Parlamento e dal vescovo.
L'immagine della corte che i dispacci a Roma del D. ci tracciano non presenta particolari elementi di novità: onnipossenza della regina madre, sempre intenta a negoziare, sempre pronta ad afferrare gli elementi di composizione dei conflitti, sempre in viaggio per mettere pace tra il re e il duca d'Angiò, tra cattolici e protestanti; religiosità e débauche strettamente compenetrate nel re, politicamente debole e incline a favorire il partito dei politiques. Il nunzio non manca d'intervenire pesantemente nella vita intima di Enrico III, come quando interroga il suo confessore a proposito di una monaca che la voce pubblica additava come sedotta dal re, o come quando si oppone ad un breve papale che concedeva al re ammalato la dispensa dal mangiar di magro in quaresima, paventandone terribili conseguenze per la religione nel regno.
Uno dei principali obiettivì della nunziatura di D. era quello di mantenere la pace tra la Francia e la Spagna: la Francia era infatti in quel momento al centro delle tensioni internazionali, non tanto per la debole politica di Enrico III, quanto per le ambizioni del duca d'Angiò, che mirava ad intervenire nei Paesi Bassi e a sposare Elisabetta d'Inghilterra, progetti decisamente avversati dalla S. Sede.
Nel maggio del 1578 il duca era in procinto di partire per i Paesi Bassi alla testa di un esercito di alcune migliaia di uomini. Di fronte ai rischi della situazione, Roma decise di inviare in missione straordinaria in Francia l'arcivescovo di Nazareth, Fabio Mirto Frangipani, già nunzio in Francia dal 1568 al 1572; ma anche la missione di quest'ultimo falliva, ché il duca preveniva l'incontro muovendo verso le Fiandre. In un dispaccio dell'11 luglio 1578 il D., non sappiamo se per inesperienza o per ingenuità, assicura Roma della sincerità dell'opposizione di Enrico III e di Caterina alla spedizione del duca. Nell'ottobre, dopo inutili trattative congiunte con l'Angiò insieme all'ambasciatore straordinario di Venezia, G. Michiel, e a quello di Savoia, monsignor di Nazareth ripartiva per Roma, mentre il duca d'Angiò, pur rifiutando di ritirarsi dai Paesi Bassi, tornava a volgere la sua attenzione ai progetti matrimoniali con Elisabetta. Sul ruolo del D. in questa complessa trattativa ci illumina una sua lettera di lamentele a Roma in cui afferma di essere stato tenuto in disparte da ogni negoziato "come s'io fussi stato ministro di persona inimica al nome di S. Stà". Inoltre, secondo il D., monsignor di Nazareth "non solamente qui ma fuori ancora m'ha posto concetto di giovane et poco pratico in trattar negotii" (Corresp. …, p. 236), sconfessando la stessa scelta fatta da Roma della sua persona come nunzio. Successivamente la questione continuò a trascinarsi con fasi alterne, che durante tutto il 1579 videro per il duca d'Angiò intrecciarsi il miraggio delle Fiandre con il concretizzarsi delle prospettive matrimoniali inglesi. Il D. si fece in questo periodo inutile tramite delle decise proteste di Roma per questo matrimonio; più attivo sembra essere stato il suo ruolo nel negoziare per il duca un matrimonio con una delle infanti di Spagna, progetto assai gradito a Caterina e che sembrò prender qualche consistenza nell'estate 1580. Lo sviluppo successivo delle tensioni internazionali doveva però affossarlo: la pace di Fleix era il prodromo ad un nuovo intervento francese nei Paesi Bassi. Ancora una volta il D. protesta inutilmente la sua opposizione. Nell'ultimo periodo della sua nunziatura la guerra con la Spagna sembra ormai imminente ed il matrimonio con Elisabetta deciso, mentre Caterina accusa il nunzio e Roma del fallimento del matrimonio spagnolo.
Tra il 1580 e il 1581 la questione portoghese offrì al D. il destro di sottolineare la neutralità della S. Sede tra Francia e Spagna. Particolare spazio i dispacci del nunzio dedicavano alla questione di Saluzzo, in cui Spagna e Savoia erano accusati dalla Francia di appoggiare gli ugonotti in rivolta contro Enrico III.
In linea di massima, anche se evidentemente i dispacci del nunzio seguono l'intero scacchiere della politica internazionale, si ha l'impressione che il suo intervento diretto sia stato notevole solo nella questione dei duca d'Angiò, mentre per il resto il D. si lúnitasse a fare da portavoce passivo di Roma. Nei suoi giudizi poi, oltre all'ingenuità più volte dimostrata, c'è la propensione ad inserire tutti gli avvenimenti in un'ottica di complotto: un complotto diretto dai protestanti, da Elisabetta e dall'Angiò, che avrebbe avuto la sua prima attuazione nell'attacco ai possedimenti della Chiesa in Francia, Avignone e il Contado Venosino. Su questa ottica Roma era molto scettica e il segretario di Stato esortava con decisione il suo nunzio alla prudenza, imponendogli di troncare ogni rapporto con il suo informatore, il bolognese Giovanni Andrea Negri, valletto di camera di Caterina.
Seguiva con particolare attenzione le vicende del cattolicesimo nel paesi d'oltre Manica. Attraverso i suoi dispacci si possono quindi cogliere le vicende disgraziate della spedizione in Irlanda (1579-1580), la missione clandestina dei gesuiti in Inghilterra e i tentativi di rapire Giacomo Stuart, tutte imprese patrocinate direttamente da Roma. Le informazioni del D., precise e particolareggiate, confermano che le previsioni politiche non erano il suo forte: egli segnalava nel 1581 che ben presto i cattolici inglesi avrebbero ottenuto il libero esercizio del culto, e riferiva trionfalmente che nelle case private scozzesi si celebrava ormai comunemente la messa, mentre inviava a Roma, considerandolo un semplice libello di propaganda inglese, la pubblica adesione di fede alla Chiesa riformata di Giacomo VI di Scozia, pubblicata ad Edimburgo nel gennaio del 1581.
Il panorama che della politica internazionale emerge dai dispacci della nunziatura del D., la descrizione dei suoi interventi diplomatici, i suoi giudizi politici, tutto questo pone una domanda fondamentale: come mai la S. Sede, in un momento politico così delicato, con il rischio di una guerra tra Francia e Spagna, con una propria politica attivamente presente nello scacchiere internazionale, lasciò per tre anni nunzio ordinario in Francia un personaggio come il Dandini? I. Cloulas, che è l'unico che si sia accostato con attenzione alla sua figura, sottolinea come la sua ottica fosse quella di una lotta tra il bene e il male, tra la verità e l'eresia, il che ben si accorda con la sua inclinazione per i complotti e la sua cecità politica. Cloulas sottolinea come questo corrispondesse però in pieno alla politica di Roma, impegnata allora in una lotta a fondo contro l'eresia ovunque si annidasse. Convinzione ardore, coraggio, tre qualità che dovevan quindi nel suo caso sostituire l'intelligenza, sarebbero state ciò che la S. Sede esigeva dal suo nunzio, qualità di cui egli era in effetti fornito. Ciò non sembra del tutto convincente, anche perché non è poi vero che Roma abbia sempre sanzionato con la sua approvazione i passi del Dandini. Se "le Saint-Siège ne se souciait pas que son représentant fút malhabile pourvu qu'il défendit avec fermeté le point de vue de Rome" (ibid., p. 94), è poi vero che spesso Roma dovette correre ai ripari per rimediare alle sue gaffes diplomatiche, e che l'impressione che si ha dalla corrispondenza è che Roma prendesse cum grano salis giudizi e informazioni provenienti da lui.
Se aveva i suoi inconvenienti nel campo della politica internazionale, un comportamento così rigido del nunzio ben corrispondeva invece all'atteggiamento che Roma intendeva assumere nella sua lotta con la Chiesa gallicana: uno dei problemi più gravi di fronte a cui il D. si trovò fu quello della collazione dei benefici ecclesiastici.
Di fronte alle interpretazioni assai restrittive date dal re al concordato di Bologna, però, il D. dovette spesso limitarsi a funzionare da informatore sui vescovi e i beneficiari nominati dal re, lasciando a Roma l'opposizione alla nomina. Tale questione era strettamente collegata con la ricezione in Francia del concilio di Trento, i cui decreti disciplinari erano avversati dalla Chiesa gallicana: negli anni precedenti i nunzi si erano fatti portavoce dell'insistenza di Roma a veder pubblicati i decreti, ma sempre invano. Il clero francese intanto andava schierandosi a favore dei decreti: nel 1577 un pronunciamento in questo senso della Camera ecclesiastica degli "stati generali" di Blois era sfociato in un tentativo di concordare un adattamento gallicano dei decreti, che il Consiglio reale stava preparando. Incaricato di sorvegliare l'elaborazione degli articoli sullo stato ecclesiastico, il D. non riuscì a penetrare il segreto dei lavori dei Consiglio, e si ridusse allora a chiedere l'applicazione pura e semplice dei decreti. Mentre la questione si arenava sul netto rifiuto del re e del Parlamento, il D. si scontrava con la Chiesa gallicana nel febbraio 1579, su un conflitto di competenza a proposito del capitolo generale francescano, cui era stato delegato come rappresentante del papa. La cosa finì con la protesta ufficiale della Francia contro il D., ma Roma sostenne l'azione dei suo nunzio. Altre tensioni si crearono successivamente con l'assemblea del clero di Melun, che nel luglio 1579 prese posizione a favore dell'introduzione dei decreti e contro le pesanti contribuzioni finanziarie chieste dal re al clero francese. Nonostante i divieti, il D. mantenne stretti collegamenti con i rappresentanti dell'assemblea di Melun, appoggiando la resistenza del clero alle esigenze finanziarie della Corona, in cambio del suo appoggio sulla questione dei decreti. La crisi si concluse nel 1580 con un accordo tra il clero e il re, che sancì sostanzialmente una disfatta di Roma di fronte alle resistenze gallicane, anche se rappresentò un momento di schieramento del clero francese sulle posizioni romane. In questo senso, fu forse questo il maggior successo della diplomazia del Dandini.
Anche la creazione dell'Ordine cavalleresco di S. Spirito, voluta da Enrico III, creò tensioni tra il nunzio e la monarchia: infatti, il re voleva che l'Ordine fosse finanziato dalle rendite ecclesiastiche, mentre Roma si opponeva. Di qui l'assenza ostentata del nunzio dalla fastosa cerimonia di fondazione dell'Ordine del 1° genn. 1579, e la missione straordinaria in Francia del vescovo di Ginevra Angelo Giustiniani. La questione finanziaria resta al centro degli incidenti, anche del più clamoroso, quello sulla bolla In Coena Domini, la cui pubblicazione il re interpretò come un tentativo di colpire con una petizione di principio la sua politica finanziaria relativamente alle rendite del clero, in un momento per di più particolarmente delicato.
Infatti, allorché la Curia gli aveva raccomandato una limitata diffusione della bolla ai membri del clero di provata osservanza romana, il D. dispose, nel 1580, la stampa della bolla e la sua distribuzione a tutti gli arcivescovi e a molti dei vescovi, seguendo il consiglio dei gesuiti parigini, e travalicando i limiti delle istruzioni romane. Scoppiato lo scandalo, lo stampatore fu arrestato insieme ad un gesuita, padre Castor, mentre il re protestava energicamente con Roma e rifiutava di ricevere il nunzio. Infine, un decreto del Parlamento ordinò la confisca della bolla. L'incidente rese tesissimi i rapporti tra la Francia e Roma, e il nunzio si trovò completamente esposto, nonostante l'iniziale appoggio datogli dalla S. Sede, anche perché gestì questa crisi con scarsa sagacia e non riuscì ad ottenere la revoca del decreto, che sarà invece conseguita dal suo successore. Il D. visse a Parigi, in quegli ultimi mesi, praticamente in disgrazia. Se ne lamenta con Carlo Borromeo il nunzio suo successore, Giovan Battista Castelli, il quale riferisce che il D. viveva in pessima fama, isolato e abbandonato da tutti.
Se il richiamo a Roma del D. fu dovuto essenzialmente alla crisi della bolla In Coena Domini, vero è che vi erano state precedenti pressioni perché egli fosse richiamato: la prima nel gennaio 1579, Su richiesta della Spagna; la seconda nel 1580, quando Filippo II ne aveva chiesto l'allontanamento, approfittando delle accuse mossegli da un abate Del Bene di menare "vita sceleratissima et scorrettissima non attendendo ad altro che à giuochi et a puttane", ed avere stretti ed amichevoli rapporti con gli ugonotti, accusa, almeno questa, senz'altro infondata (Parigi, Bibl. nat., Fonds ital. 1677, f. 73r). Nel settembre 1580 si cominciò a parlare a Roma di un suo possibile richiamo, con la prospettiva però di una nunziatura in Polonia o a Venezia. Ma nell'aprile del 1581 giunse il richiamo puro e semplice e da allora egli fu completamente estromesso dalla carriera diplomatica.
Alla fine della nunziatura il D. non ottenne nemmeno il vescovato. Nell'agosto del 1578 si era fatto il suo nome per l'arcivescovato di Chieti o per il vescovato di Forli, ma il D. aveva fatto sapere in Curia di non ambire a quella dignità. Il fatto si ripeté nel 1579, quando si fece il suo nome per il vescovato d'Imola. A spiegare un fatto così anomalo basta forse la sua dichiarazione di non voler "render conto delle anime degli altri" (ibid., f. 38v): il D. probabilmente non era sacerdote, e nel clima controriformistico ormai imperante, il vescovato lo avrebbe allontanato dalla vita di città come Parigi o Roma.
Da allora il D. visse esclusivamente in Curia, con brevi incarichi di amministrazione interna. Nel 1587 fu vicedelegato del cardi nal Peretti a Bologna: questo incarico durò fino al 1588 e finì in modo inglorioso. Durante la carestia di quell'anno, infatti, fu considerato dal popolo responsabile dell'aumento del prezzo del grano, sostituito dal papa e cacciato dalla città a furor di popolo. In quello stesso periodo fu anche rettore dell'Umbria con poteri di legato. Durante i conclavi di Innocenzo IX (1591) e di Clemente VIII (1592) fu assistente del governatore del conclave, Alfonso Visconti. Sotto Clemente VIII fu consultore dell'Inquisizione e partecipò a numerose congregazioni. Nel 1595 redasse l'atto di riunione della Chiesa rutena con Roma. Nel 1600 fu nominato visitatore apostolico di Città della Pieve e commissario generale della Val di Chiana, per sorvegliarne i lavori di bonifica dopo la disastrosa alluvione di Roma del 1598, dovuta alla situazione idrografica creatasi in quella regione.
Morì il 4 genn. 1608 aúoma e fu sepolto nella chiesa di S. Marcello.
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