ANONIMI e Pseudonimi (da ἀ[ν] privativo - e da ψευδής "falso" - e ὄνομα o ὄνυμα "nome")
Quando viene riferito a un'opera letteraria o di arte figurativa o musicale, l'aggettivo anonimo significa che di tale opera non si conosce l'autore, sia che questi non sia mai stato noto o che si sia perduta nel tempo la memoria della sua individualità, sia che egli, per particolari ragioni, abbia intenzionalmente nascosto il proprio nome. Come sostantivo, anonimo indica l'autore di un'opera anonima. La stessa duplice funzione di aggettivo e sostantivo ha il termine pseudonimo; ma esso è usato in genere come sostantivo, per indicare un nome diverso dal proprio che un autore assume e sotto il quale egli viene comunemente designato. La maggior parte degli pseudonimi, specialmente quelli usati da scrittori e artisti dell'età moderna, sono soltanto "nomi di battaglia", che non nascondono l'identità personale di chi li porta, per quanto assai spesso finiscano col lasciarla nell'ombra: occorre un certo sforzo di riflessione per rammentare che nomi come Molière, Voltaire, Lorenzo Stecchetti sono pseudonimi, e i veri nomi Poquelin, Arouet, Olindo Guerrini non richiamano immediatamente al pensiero la personalità letteraria di quegli scrittori. In passato (e anche tuttora, in circostanze particolari) anonimia e pseudonimia furono maschere assunte da scrittori per difendersi da pericoli che li avrebbero minacciati qualora la loro identità fosse stata scoperta, oppure (come avviene ai nostri giorni per i "nomi d'arte" di attori lirici, drammatici, cinematografici) perché pregiudizî sociali non consentivano loro l'esercizio della professione letteraria sotto il loro nome reale, o ancora perché quel nome sonava o pareva sonare volgare o ridicolo.
Il concetto di anonimo essendo naturalmente correlativo con quello di autore, esso non può sorgere se non quando quest'ultimo si afferma: le più antiche produzioni artistiche, tanto poetiche quanto monumentali o figurative, non portano nome di autore, sono anonime, ma di un'anonimia che, per essere generale, non ha alcun rilievo speciale. Soltanto quando sorgono da una parte il libro, dall'altra l'opera d'arte (monumento, statua, pittura) come affermazioni individuali, legate quindi ai nomi dei loro autori, l'assenza o il travestimento di tali nomi vengono notati. In genere può dirsi che l'anonimia (intesa in quest'ultimo senso) e la pseudonimia sono prodotti di civiltà matura (mentre l'anonimia nel significato generico è anzi normale nelle civiltà primitive) e non si manifestano, specialmente la seconda, se non in età tarda. Diverso è il caso della falsa attribuzione di un'opera d'arte a chi non ne è il vero autore; in tal caso può trattarsi di errore della tradizione oppure (e il caso è frequente fin dall'antichità), di falsificazione intenzionale, dovuta in genere al desiderio di accrescere autorità all'opera, ponendola sotto l'egida del nome di un personaggio celebre. Quest'ultimo caso si designava in origine col nome di pseudonimia, mentre l'uso di questo termine nel senso sopra definito è recente: oggi si suole chiamarlo piuttosto pseudepigrafia, con vocabolo tolto alla critica biblica (v. bibbia: Apocrifi e pseudepigrafi).
Anonimi e pseudonimi nell'antico Oriente e nella Bibbia. - Secondo quanto si è detto sopra, le più antiche opere letterarie non portano nome di autore, anche quando non risultino, come in molti casi è verosimile, dalla trascrizione meccanica di canti o di racconti correnti sulla bocca del popolo, ma portino l'impronta di una redazione personale (si veda quanto è detto più oltre a proposito dei poemi omerici). Un esempio di siffatta anonimia è fornito dall'epopea babilonese di Gilgamesh (v.), in cui senza dubbio deve riconoscersi l'opera di un individuo fornito di reale talento poetico, il quale ha raccolto ed elaborato il materiale della tradizione. Ma già in tempi molto remoti si hanno, nell'Oriente, esempî di composizioni letterarie insignite del nome dell'autore: è probabile che tale sistema risalga alla redazione stilistica degli annali e delle iscrizioni storiche dei re (l'esempio più cospicuo è dato dagli annali dei re assiri), nei quali il sovrano parla in persona prima delle proprie gesta (naturalmente non è detto con ciò che egli sia l'autore materiale del racconto). Tuttavia, accanto a questo carattere personale delle iscrizioni storiche si hanno, p. es. nell'Egitto, esempî di racconti storici nei quali si parla del re in terza persona, e che sono dunque vere e proprie opere anonime. Lo stesso deve dirsi delle cronache, tanto egiziane quanto babilonesi, sempre anonime. Dall'annalistica regia redatta in forma personale deriva probabilmente il romanzo autobiografico, il quale si sviluppa ben presto come genere letterario, sicché la personalità dell'autore finisce con l'acquistare carattere fittizio, e costituisce il primo passo verso la pseudonimia o la pseudepigrafia (tali p. es., il celebre romanzo egiziano di Sinuhe e quello più recente, assiro-aramaico, di Ahiqar [v.]). Racconti popolari, favole, ecc., dei quali è ricca la letteratura egiziana e che dovettero esistere anche nel resto dell'Oriente, serbano invece carattere anonimo, mentre la menzione esplicita del nome dell'autore si ha nelle raccolte di sentenze morali, delle quali saggi molto antichi sono dati da quelle, egiziane, di Amenhemhet e di Amenemope, le quali ultime sono state di recente riconosciute come fonte di alcuni dei Proverbî biblici. Inoltre l'Oriente antico ha conosciuto un genere di poesia religiosa (il salmo), la cui composizione è spesso attribuita a determinati personaggi, specialmente a re. Tanto per le sentenze quanto per i salmi, tuttavia, è sempre legittimo il sospetto che l'attribuzione sia pseudepigrafica. A ogni modo essa rivela la tendenza, in seguito sempre più accentuata, a escludere l'anonimia dalle composizioni letterarie.
Anche i libri biblici sono in parte anonimi, e questo loro carattere si spiega per varie circostanze. Il Pentateuco risulta dalla fusione di una legislazione e di alquanti cicli di saghe o racconti, dei quali generi letterarî il secondo suol sempre essere anonimo nell'Oriente antico, e il primo, in quanto in Israele non è, come altrove, l'opera di un re legislatore, ma la parola diretta di Dio, non può naturalmente recare in fronte alcun nome di autore (si noti che, in fondo, anche la legislazione babilonese è opera della divinità, e il re non ne è che il promulgatore). Anche i libri "storici" (Giosuè, Giudici, Ruth, Samuele, Re, Esdra e Nehemia, Cronache) sono tutti anonimi, in quanto hanno carattere di cronaca: solo nel penultimo sono stati inseriti in parte i ricordi autobiografici dei protagonisti. In età più tarda l'ammirazione e la curiosità non si sono contentate d'accogliere e venerare questi testi per il loro solo contenuto prescindendo dalla personalità dei loro autori, sicché la tradizione giuridica li ha attribuiti a grandi personaggi del passato le cui vicende storiche erano in qualche modo in relazione coi testi stessi: il Pentateuco a Mosè, Giosuè a Giosuè stesso, Giudici e I Samuele a Samuele, II Samuele e Re a Geremia (v. bibbia: Storia del canone). Hanno invece carattere esplicitamente personale i libri profetici, i salmi, i Proverbi, nei quali tutti si continuano quei generi letterarî che si sono riscontrati nell'antico Oriente, così egiziano come babilonese, e che esigevano la menzione dell'autore: anche qui la critica si ingegna, naturalmente, di determinare se le singole attribuzioni siano autentiche oppure pseudepigrafiche. Anonimo è il libro di Giobbe, il quale pure, nella sua parte poetica, è opera di una potente individualità religiosa e artistica; ma in questo caso la legge del genere letterario imponeva di tacere il nome dell'autore.
Lo pseudonimo sembra ignoto all'oriente antico: se ne avrebbe il primo esempio nell'Ecclesiaste, se veramente il Qōhělĕth che si dà come suo autore (I, 1, 2, 12, VII, 27, XII, 8-10) è da intendersi come corrispondente a Salomone.
Nelle letterature antiche. - In condizioni sociali e letterarie primitive anonimia e pseudonimia derivano da scarso interesse per la personalità dello scrittore: proprietà letteraria è un concetto recente. Come gli antichi canti epici degl'Indiani, degli Slavi, dei Germani, in certo senso anche dei Finni, così i poemi epici greci sono per certo rispetto anonimi. L'Iliade, per non parlar dell'Odissea, è opera d'arte relativamente una, non certo agglutinazione meccanica, ma chi la guardi con gli occhi scevri di mistiche nebulosità moderne, scorgerà dietro l'unità la pluralità; scorgerà che nel poema unico sono inserite narrazioni epiche anteriori, in parte anche poco mutate. Questi canti sono in sé anonimi. Ma chi rifletta che Omero, poeta di carne e ossa (come indica il suo buon nome di Greco tutt'altro che mitico), può essere stato uno degli autori dei poemi che possediamo ora sciolti nell'Iliade, o, se si vuole, l'autore della nostra Iliade, ma nulla di più, dovrà riconoscere che forse certe parti dell'Iliade, certamente tutta l'Odissea, tutti gl'Inni, per non parlare della Batracomiomachia, sono pseudonimi. E come si possa dalla pseudonimia passare attraverso l'anonimia a un'altra pseudonimia e da questa di nuovo all'anonimia, vediamo con i nostri occhi, seguendo in ordine cronologico le citazioni dei cosiddetti poemi ciclici nella letteratura greca. Verso il 500 a. C. tutti i poemi epici erano di Omero; ma Erodoto dubita già dell'autenticità delle Ciprie e degli Epigoni. Dal 350 in poi, grazie alla critica nascente, sono considerati di Omero soltanto l'Iliade e l'Odissea, tutti gli altri sono attribuiti per congettura quale all'uno, quale all'altro poeta. Verso il 150 a. C. queste ipotesi hanno nuovamente ceduto il luogo all'anonimità.
E quel che si dice della pseudonimia dei poemi omerici vale del pari per la lunga serie di poemi genealogici in esametri attribuiti ad Esiodo. Anzi qui produzione sotto il nome antico e interpolazione nei poemi già composti poterono avvenire sino a tardi con tanto maggior facilità quanto più scarse di personalità erano quelle composizioni.
Un caso un po' diverso è quello della silloge ippocratea, dove non sappiamo se una sola opera risalga davvero al celebre medico di Coo, al quale tutta la raccolta è attribuita. Qui si tratta non di scritti destinati alla pubblicazione, sia pure nella forma primitiva della recitazione, ma per lo più di appunti su proprie esperienze e osservazioni, che ciascun medico faceva per conto proprio e riservava e trasmetteva ai proprî discepoli, che erano spesso i proprî figliuoli. Gli scritti ipomnematici di Aristotele, raccolte di appunti del maestro e di scolari, continuano in ed più recente e in forma più sistematica tale produzione naturalistica, che solo sino a un certo segno può dirsi letteraria.
Anonimi, in età più recente, sono anche propriamente le compilazioni esegetiche su testi, che noi chiamiamo scolî. Qui ogni commentatore nuovo discute o si appropria il contribut0 dei precedenti. Nomi sono citati qua e là. Ma quanto più il commento è scolastico, tanto più esso tende a eliminare tutto ciò che non serve allo scolaro, a ridurre anonime notizie e osservazioni che in redazioni più ricche e più antiche erano attribuite ad autori determinati. Qualcosa di simile ognuno ritrova in certi striminziti commenti moderni a testi classici che vanno per le scuole, puro lavoro, talvolta, di forbici. I commenti antichi non sono differenti.
Pseudepigrafa rimase sino all'ultimo la letteratura popolare: fino a quando si continuò a comporre favolette e ad attribuirle al frigio Esopo, senza, certo, nessuna intenzione d'inganno? Qui il nome non indica che il genere letterario.
Ma, se anonimia e pseudonimia hanno persistito nelle compilazioni filosofiche e in quelle grammaticali e nei libri popolari sino a tempi recenti, esse erano state già molto prima bandite dalla produzione più propriamente letteraria. Dal sec. V in poi esse, quando si trovano, sono fenomeni non originarî ma secondarî, derivati non più da indifferenza degli autori stessi o da trascuratezza di contemporanei, ma da accidenti della tradizione, oppure effetto di conscia volonta dei falsificatori.
Il primo caso è forse il più raro per la letteratura attica del buon tempo. Un esempio cospicuo è la Repubblica degli Ateniesi, opera di un oligarchico vissuto durante la guerra archidamica e capitata tra le opere di Senofonte: probabilmente qualcuno, quasi per integrare la Repubblica dei Lacedemoni autentica di Senofonte, trascrisse tra le opere di questo un frammento (più non è) di quell'opera, e tra le opere di Senofonte è rimasta. Più numerosi sono tali casi nella letteratura dell'età imperiale e bizantina. Conviene riflettere che titolo e nome di autore di un'opera erano molto meno garantiti nell'antichità che da quando l'invenzione della stampa ha reso possibile la riproduzione di uno scritto in un numero praticamente illimitato di esemplari meccanicamente conformi. La tecnica editoriale prealessandrina dev'essere stata assai primitiva: poniamo il caso che il nome dell'autore non comparisse, p. es., che in una schedina pendente esternamente dal rotolo, che non ci fosse ancora subscriptio. Bastava che questo "titolo" andasse perduto, come poteva facilmente avvenire: se l'autore non nominava sé stesso nelle prime righe (e in parecchi generi, p. es. nella drammatica, non poteva farlo), o se quelle prime righe erano perdute o danneggiate, l'opera diveniva in quell'esemplare anonima. Ma quanti esemplari d'una stessa opera saranno stati a un tempo accessibili? Nei codici medievali il titolo premesso, che a poco a poco sostituisce la subscriptio, è spesso omesso dallo scriba, perché sia più tardi dipinto in caratteri ornamentali con inchiostro speciale, per lo più rosso, da un calligrafo, il cosiddetto rubricator. Quante volte il lavoro non è stato poi fatto dal rubricator, e l'opera è rimasta anonima in quell'esemplare; e quante volte esso era unico o quasi? E l'anonimo diviene facilmente pseudonimo, se il lavoro è annesso, per così dire, dall'autore all'opera che precede o segue nello stesso codice (i codici medievali sono per lo più miscellanei).
Ma anche le falsificazioni incominciarono assai presto: leva principale, l'interesse. Da quando la biblioteca di Alessandria cominciò a raccogliere testi di classici, ci fu chi o ne inventò o, più facilmente e con meno fatica, attribui a classici grandi opere poco note di autori minori. Tale origine avrà l'attribuzione del Reso ad Euripide, di numerose orazioni private e pubbliche a Demostene, e, forse (la questione è controversa, l'autenticità non da tutti esclusa), anche quella del Cinegetico a Senofonte. In certi campi, p. es. nella commedia, l'attività di tali ribattezzatori dev'essere stata piuttosto intensa. Certo, i dotti del Museo, ammaestrati da tristi esperienze, divennero con l'andar del tempo sempre più guardinghi; ce ne rendono testimonianza tutti i passi di Ateneo (v.) che citano "l'opera tale del tale, oppure del tal altro", oppure "l'opera attribuita al tale", e che risalgono alle Tavole (πινακες) di Callimaco o a lavori più recenti che quelle hanno preso a modello; ce ne rende testimonianza anche la disposizione dei corpora, che, ogni qualvolta risalgono a edizioni critiche antiche (Demostene, Platone, Teocrito), hanno le opere notoriamente non autentiche in fondo, quasi in appendice. Ma in paesi ai quali l'operosità critica dei grammatici, cioè filologi, non si estendeva, e in tempi nei quali si era rallentata, l'attività dei falsificatori o, diciamo pure, ribattezzatori avidi di guadagno è continuata, e ben di rado è stata smascherata. Varrone, secondo una testimonianza di Gellio, distinse per primo tra numerose commedie attribuite a Plauto ventuna non dubbie. Ma ancora almeno una parte dell'appendix Vergiliana non spetta a Virgilio. E tra le orazioni dei grandi sofisti greci dell'età imperiale si sono insinuate orazioni di scrittori men noti. Non parliamo dell'infinita letteratura omiletica cristiana sia in greco sia in latino. Quante prediche sono attribuite in alcuni manoscritti, certo a torto, ad Agostino o a Giovanni Crisostomo, in altri, talvolta a ragione, ad astri minori! Quanti scritti di eretici sono stati spacciati a biblioteche cristiane, affibbiandoli a dottori di ortodossia non discussa e non discutibile!
In un campo particolare i falsificatori (questa volta non, come per lo più, semplici ribattezzatori) hanno lavorato il terreno così a fondo che il carico della prova spetta ormai a chi sostiene l'autenticità; vogliamo dire nell'epistolografia. L'interesse per la personalità, divenuto quasi parossistico nell'età alessandrina, non poteva essere appagato da documenti autentici, che mancavano: persone interessate rimediavano inventando lettere che ci presentavano i grandi o anche soltanto i celebri del passato, quali piaceva allora vederli, in maniche di camicia. Lettere di persone celebri furono anche composte con perfetta innocenza, per semplice esercizio, nelle scuole dei retori, e anche ad alcune di queste toccò in sorte di essere prese per vere e come tali propagate. Il grande filologo inglese Bentley riconobbe per primo (1699) che le epistole attribuite al famoso tiranno agrigentino Falaride (del resto un esempio assai recente del genere: sec. IV d. C.?) erano una falsificazione grossolana e gettò il discredito su tutto il genere. Solo negli ultimi decennî si è ricominciato a studiare questa letteratura per trarre da essa tutto quel che si può, non tanto intorno all'età nella quale si finge composta, quanto intorno a quella nella quale è stata veramente composta. Ma si sospetta ormai anche che nelle collezioni delle più antiche epistole si nascondano, tra le molte false, alcune autentiche. Autentiche sono certo alcune epistole di Isocrate; se autentiche alcune di Platone, non sappiamo. I problemi non sono qui per lo più ancora risolti.
Un altro campo nel quale false attribuzioni e falsificazioni sono frequenti, sebbene non così normali come nell'epistolografia, è l'epigrammatica. Si pensi che qui fonte precipua e per lo più anche unica è un manoscritto medievale, quello dell'Antologia Palatina e s'intenderà quanto e quanto mal controllabile danno possa recare una svista di scriba o un'omissione di rubrica. Qui ci troviamo ancora nel caso dell'anonimia o pseudonimia dipendente dalla tradizione. Ma un'altra considerazione ci deve rendere ancor più guardinghi: degl'infiniti epigrammi attribuiti nell'Antologia e altrove a Simonide noi ritroviamo, si può dire ogni giorno, qualcuno su pietre di tempi e di luoghi diversissimi, per lo più in forma più compendiosa e più originale: Simonide non ci può aver nulla che fare. Qui la spiegazione non è facile. Ma non mancano casi di falsificazione vera e propria: per es. molti degli epigrammi attribuiti a Platone; eppure anche lì un piccolo nucleo può essere autentico.
Finora si è parlato solo di scritti che già nell'antichità e nel Medioevo erano anonimi e pseudonimi. Ma v'è una categoria, che diviene ogni giorno più numerosa, di opere che sono anonime solo per noi moderni, e, se qualcuno dei dotti rischia un'attribuzione infelice e questa trova consenso, possono facilmente divenire pseudonime: intendiamo dire quelle scoperte in papiri. Qui è rarissimo, per ragioni tecniche, che l'opera sia intera, assai raro che la subscriptio sia conservata: se un caso felice non ha conservato citazioni antiche, l'identificazione non può essere che congetturale. Così l'Anonymus Argentinensis, un'opera con notizie storiche, scoperta in un papiro di Strasburgo, ha conservato a lungo questo titolo, finché non vi si è riconosciuto un commento a un'orazione di Demostene, l'Androzionea. Così degli Hellenica Oxyrhynchia si è supposto successivamente l'appartenenza ad Androzione, Teopompo, Anassimene, Cratippo, Eforo, Demaco (Δαίμαχος). Che si dovrà dire di frammenti minori, quali tirate tragiche o scene di commedia nuova? Specie per la commedia nuova possediamo troppo poco per distinguere stili personali. E che cosa di piccoli brani di opere sulla musica? Anche qui la tradizione parallela scarseggia.
Non ci pare che sia compito di quest'articolo trattare anche degli anonimi che la critica, anche se prudente e oculata, isola quali fonti di autori conservati. Anche se tali scoperte avessero tutte l'evidenza che ha per esempio, quella dell'Anonymus Jamblichi (v. giamblico), queste rimarrebbero sempre grandezze supposte.
L'indole generale dell'articolo non consente una bibliografia. Per la storia dei testi di scrittori antichi greci e latini v. Wilamowitz, Einleitung in die attische Tragödie, Berlino 1907, p. 120, e rispettivamente Leo, Plautinische Forschungen, Berlino 1912, p. 1. Quanto al problema dei ciclici, Wilamowitz, Homerische Untersuchungen, Berlino 1884, 328; Ilias u. Homer, Berlino 1916, p. 356; a quello degli epigrammi di Simonide, Wilamowitz, Sappho und. Simonides, Berlino 1913, p. 192. La memoria classica del Bentley sull'epistolografia s'intitola: A dissertation upon the epistles of Phalaris, Londra 1699. Sugli epigrammi di Platone, v. ora Wilamowitz, Platon, 2ª ed., I, Berlino 1920, p. 360.
L'Anonymus Argentinensis fu identificato dal Wilcken, in Hermes, 1907, p. 374; v. anche Laqueur, ibid., 1908, p. 220, che propone una soluzione alquanto diversa; sugli Hellenica Oxyrhynchia v. da ultimo Jacoby, in Götting. Nachr., 1924, p. 13 (che raccoglie anche la bibliografia precedente). Pel resto v. sotto i nomi degli autori citati.
Nelle letterature moderne. - Non da scarso interesse per la personalità degli scrittori, come negli antichi tempi, ma da ragioni intime degli scrittori stessi, capriccio, paura e rispetti umani, modestia e ritrosia, deriva l'uso, frequentissimo nelle moderne letterature, di pubblicare opere anonime, o con le sole iniziali, od opere con falsi nomi. Questi possono essere veri e proprî pseudonimi (p. es., Limerno Pitocco e Merlin Coccaio, Teofilo Folengo; Didimo Chierico, Ugo Foscolo, ecc.); o nomi accademici (L'Infarinato, Leonardo Salviati; Lamindo Pritanio, L. A. Muratori; Labindo, Giovanni Fantoni, ecc.); o nomi grecizzati (Carteromaco, Forteguerri; Metastasio, Trapassi; Agatopisto, Buonafede; Clasio, Fiacchi, ecc.), o latinizzati (Janus Plancus, Giovanni Bianchi); o anagrammi (Perlone Zipoli, Lorenzo Lippi; Ripano, Parini, ecc.). Si possono considerare anche opere pseudonime (ma più esattamente dette pseudepigrafiche) quelle falsamente attribuite a scrittori realmente esistiti o esistenti (p. es., l'opera buffa Il Conclave del 1774, parodia del melodramma metastasiano, stampata a Roma nel 1775, scritta dall'abate Sertor, attribuita al Metastasio), e anche quelle concesse ai supposti autori dal beneplacito ufficioso o comprato di chi le compose, o usurpate ad altri con frode (v. plagio).
Sin dalla metà circa del sec. XVII, l'attività degli eruditi e la curiosità dei bibliografi e dei bibliofili s'è adoperata a scoprire i nomi degli autori di opere anonime e pseudonime. Il primo tentativo è forse quello di un Italiano, il gesuita Teofilo Rainaldi di Sospello (Nizza), chiamato Raynaud, perché visse sessant'anni a Parigi, autore degli Erotemata de malis ac bonis libris, deque iusta aut iniusta eorundem confictione (Lione 1653). Il dotto tedesco Vincenzo Placcio, dopo aver pubblicato ad Amburgo nel 1674 un Syntagma de scriptis et scriptoribus anonymis et pseudonymis, cominciò a preparare una vasta opera su questo argomento, rivolgendosi intanto al Magliabechi con una Invitatio amica super symbolis promissis aut destinatis ad anonymos et pseudonymos suos (Amburgo 1689). Mentre egli attendeva la risposta del dotto bibliotecario fiorentino, altri accolsero l'invito: il padre Angelico Aprosio di Ventimiglia, che pubblicò La Visiera alzata: hecatoste di scrittori che, vaghi di andare in maschera fuori del tempo di carnevale, sono scoperti da Giovan Pietro Giacomo Villani (Parma 1689), usando anche lui uno pseudonimo per combattere gli pseudonimi; Adriano Baillet, che pubblicò gli Auteurs déguisés sous des noms étrangers, supposés, feints à plaisir, chiffrés, ecc. (Parigi 1690); e l'erudito romano Prospero Mandosio, che compilò, ma lasciò inedita, una opera intitolata Personati depersonati scriptores. Apparve finalmente nel 1708 ad Amburgo, per cura e con prefazione di Giovanni Antonio Fabricio, in due volumi, il Theatrum anonymorum et pseudonymorum di Vincenzo Placcio che era già morto sin dal 1699. La seconda parte di quest'opera fu pubblicata ad Amburgo nel 1740 da Giovanni Cristoforo Mylius. Il padre Giuseppe Merati teatino compilò un vasto Dizionario degli anonimi e pseudonimi italiani, di cui la sola prefazione fu stampata dal Lami nel tomo XXVII (1766) delle Novelle Letterarie. Vincenzo Lancetti pubblicò nel 1836 a Milano la Pseudonimia, ovvero tavole alfabetiche de' nomi finti o supposti degli scrittori.
Ma le opere che oggi si consultano utilmente sono soprattutto le seguenti: A. Barbier, Dictionnaire des ouvrages anonymes et pseudonymes français et latins, Parigi 1806, 1822-27, 1872-79, e supplemento, 1889; J.M. Quérard, Les supercheries littéraires dévoilées, Parigi 1845-53 e 1864-70; G. M [elzi], Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, o come che sia aventi relazione all'Italia, Milano 1848-59 (frutto di undici anni di ricerche di questo dotto bibliofilo, che poté valersi dell'opera citata del Merati e d'un catalogo inedito dell'ab. Gaetano Fantuzzi di Reggio); G. Passano, Dizionario di opere anonime e pseudonime, in supplemento a quello di G. Melzi, Ancona 1887; E. Rocco, Anonimi e pseudonimi italiani, supplemento al Melzi e al Passano, Napoli 1888; Halkett e Laing, Dictionary of the anonymous and pseudonymous literature of Great Britain, Edimburgo 1882-88; Stonehill e Block, Anonyma and pseudonyma, Londra 1926.
Bibl.: Oltre alle opere citate nel testo, v. G. Schneider, Handbuch der Bibliographie, 2ª ed., Lipsia 1924, pp. 425-439.