GAMBIGLIONI, Angelo (Angelus de Gambilionibus, Angelus Aretinus, Angelus de Aretio)
Nacque da Giovanni presumibilmente ad Arezzo allo scorcio del Trecento.
La data di nascita si desume dall'anno, il 1418, in cui superò l'esame privato, la licentia, a Bologna, ove nel 1422 si addottorò pubblicamente. Nei suoi scritti riconosce suoi maestri, con l'appellativo di dominus meus, Raffaele Fulgosio e Raffaele Raimondi da Como (Raffaele Cumano), Floriano Sampieri e Giovanni Nicoletti da Imola, Paolo di Castro e Onofrio Bartolini. Il Diplovatazio lo immaginò studente, oltre che a Bologna, a Padova e a Perugia; tuttavia, pur senza il conforto di una documentazione sicura, è più probabile che egli abbia frequentato prima l'Università di Siena, poi quella di Firenze alla sua riapertura nel 1413. A Siena, infatti, insegnarono in quegli anni almeno quattro dei sei maestri che egli si attribuisce: Onofrio Bartolini, di cui il G. ricorda una repetitio tenuta proprio a Siena, Paolo di Castro, Raffaele Fulgosio e Giovanni da Imola e, in più, il suo trattato De testamentis sembra testimoniare una certa conoscenza della vita senese. Nello Studio fiorentino gli fu affidato, in quanto studente d'eccezione e salvo omonimie, il corso sulle Istituzioni per l'anno 1414-15, con il piccolo salario di 30 fiorini. Attorno a questa data è possibile che egli abbia brevemente soggiornato a Padova, ove poté giovarsi del magistero di Raffaele Raimondi. A Bologna, come abbiamo detto, si licenziò il 6 apr. 1418: a quella data si fregiava anche del titolo di rettore dell'arte della lana gentile. Nello stesso anno tornò a Firenze a insegnare notaria. Terminato l'anno accademico non si sa quali incarichi abbia ricoperto sino alla cerimonia del suo dottorato, avvenuta il 15 genn. 1422.
Nel secondo semestre del 1422, come vicario e collaterale del podestà Luca di Maso Albizzi da Firenze, si trovava a Perugia, ove tornò per il medesimo incarico nel primo semestre del 1429, mentre nel secondo semestre fu podestà a Volterra. In date che non è possibile precisare fu assessore a Città di Castello, a Roma, ove fu anche luogotenente del senatore di Roma, e a Norcia.
In quest'ultima città sarebbe incorso in un ingiusto giudizio di sindicato che gli sarebbe costato un anno di carcere e il rischio della decapitazione: l'unica fonte di questo episodio è un racconto del suo allievo Paride Dal Pozzo, non verificabile con dati archivistici, lacunosi per quel periodo, né corroborato dallo stesso G., pur non avaro di ricordi nelle sue opere. Agostino Bonfranceschi, nell'annotare il Tractatus maleficiorum, racconta con biasimo come a Norcia egli avesse fatto decapitare un omicida, applicando il diritto comune anziché gli statuti che prevedevano una semplice pena pecuniaria: tuttavia non fa menzione di infauste conseguenze del successivo giudizio di sindicato.
Se da una parte svolgendo questi uffici il G. aveva potuto arricchire la sua preparazione giuridica, dall'altra aveva irrobustito la sua posizione sociale ed economica unendosi in matrimonio il 31 genn. 1423 con Maddalena di Girolamo Bacci, appartenente a quella facoltosa e notabile famiglia di mercanti aretini che legò il suo nome alla cappella maggiore della chiesa di S. Francesco dipinta da Piero Della Francesca. Dal 1431 al 1444-45 o al più tardi al 1445-46 il G. fu professore a Bologna, ove ebbe anche incarichi giudiziari: della considerazione, della fama e della stima di cui godeva offre bellissima testimonianza una lettera commendatizia del 26 sett. 1444, dai toni eccezionalmente laudativi, in cui le autorità bolognesi danno conto delle sue preclare qualità di docente, di pratico e di uomo dagli integerrimi costumi. Durante gli anni bolognesi il G. pubblicò alcuni dei suoi celebri scritti: primo fra tutti il Tractatus de maleficiis nel 1438, poi il De actionibus nel 1441-42 e il De appellationibus nel 1443; attese inoltre alla Lectura Institutionum, che terminò nel 1448 a Ferrara ove si era trasferito su invito di Leonello d'Este. Nella città estense lavorò anche al De re iudicata e al De testamentis.
Spentasi nel 1442 a Bologna Maddalena Bacci, la sua prima moglie, dalla quale aveva avuto Giovanni, Caterina, Margherita, Isabetta e Tomasia, il G. anteriormente al 20 sett. 1447 si accasò con un'altra aretina, Nanna di Lazzaro Tommasi, vedova di Galeotto de Feis, dalla quale nacquero Antonio, Pierbernardino, Iacopo, Francesca, Bartolomea, Elena e Maria. Il legame con la sua città natale non venne del resto mai meno: nel 1452 fu ambasciatore di Arezzo presso l'imperatore Federico III al fine di ottenere il privilegio di rito che legittimava l'apertura dello Studio e i titoli da esso rilasciati, privilegio che Federico concesse in occasione della sua breve permanenza a Ferrara di ritorno da Roma dove era stato coronato.
Non a Ferrara, dove si era definitivamente stabilito nel quartiere di S. Gregorio, ma a Bologna, dove evidentemente continuava ad avere interessi, il G. cessò di vivere intorno al 23 ott. 1461; fu poi sepolto nella chiesa dei carmelitani o di S. Paolo a Ferrara, ciò che ha accreditato l'idea che egli vi fosse morto.
Nel pur scintillante firmamento universitario italiano del secolo XV il G. brillò come una stella di prima grandezza: "vir magni ingenii maiorisque doctrine, practicus celeberrimus" ebbe a definirlo il Diplovatazio, elogiandone le straordinarie qualità. Se della sua statura di maestro rende testimonianza la levatura di alcuni suoi allievi (Alessandro Tartagni, Bartolomeo Cipolla, Paride Dal Pozzo), la sua fama di scienziato è ampiamente provata dall'immediato e longevo successo editoriale delle sue opere, mentre della sua eccellenza come pratico fanno fede il rilevantissimo numero di consilia e le sue stesse ricchezze. L'inventario redatto dopo la sua morte attesta l'enorme patrimonio mobiliare e immobiliare del G. e permette di ricostruire la sua ricca biblioteca. In mezzo a una profusione di oggetti preziosi, di utensili, di abiti sontuosi e quotidiani, di appezzamenti agricoli, di crediti, ecco spiccare la sua pregevolissima raccolta libraria.
Specchio dei suoi interessi, sostegno per i suoi studi, essa ci conferma le frequentazioni del G. nella vastissima letteratura del diritto comune e ci informa sulle sue letture per diletto. Oltre ai testi sacri per ogni civilista - i Digesti, il Codice, il Volume - e alle codificazioni canonistiche - il Liber Extra, il Liber Sextus, le Clementine -, sfilano davanti ai nostri occhi Azzone, Innocenzo IV, Roffredo, indi Guglielmo Durante e Dino, poi ancora Jean Fabre, Federico da Siena, Alberico da Rosate, Oldrado da Ponte, e ovviamente i massimi maestri del Trecento, Cino, Bartolo, Baldo, Angelo degli Ubaldi, Giovanni d'Andrea. Ci imbattiamo inoltre in Bartolomeo da Saliceto, Pietro d'Ancarano, Antonio da Budrio, Domenico da San Gimignano, Matteo Mattesilani; presenti tutti i suoi maestri, salvo Onofrio Bartolini, trovano spazio fra i suoi contemporanei Ludovico Pontano, Lorenzo Ridolfi, Iacopo Alvarotti, Lauro Palazzoli, Giovanni d'Anagni; inoltre si contano numerosi volumi miscellanei, e le opere dello stesso Gambiglioni. Ai libri legali si affiancava un compatto manipolo di classici e di libri di edificazione: Cicerone, Stazio, Terenzio, Virgilio, Prisciano, Orazio, Sallustio, Seneca, Ovidio, Persio, e ancora il prologo del concittadino Leonardo Bruni al Fedone di Platone, le prediche di s. Bernardino, verso il quale il G. sembra aver nutrito una gran devozione, le lettere di s. Paolo, i Fioretti di s. Francesco, le Vite dei Padri.
Per volontà testamentaria tutta la biblioteca avrebbe dovuto essere venduta, salvo i corpora iuris presenti nelle loro camere destinati ai due figli Giovanni e Antonio, già studenti di diritto, sempre che avessero onorevolmente completato gli studi, ed "exceptis tamen omnibus lecturis Bartholi ad usum ipsius testatoris et manu sua propria apostilatis et aliis operibus suis et consiliis per eum testatorem compositis et compillatis et excepto Inocentio et Cino", tutti destinati a quei figli che avessero conseguito il dottorato. Eredi universali furono designati i suoi quattro figli maschi Giovanni, Antonio, Pierbernardino e Iacopo e i loro discendenti in linea maschile, al termine della quale sarebbe subentrata - e ciò avvenne dopo il 1575 - la Fraternita dei laici di Arezzo, istituzione già larghissimamente beneficata da Lazzaro di Giovanni Bracci, detto il Ricco per antonomasia, zio acquisito della sua prima moglie (morto nel 1425). Questa fu l'ultima di una serie di manifestazioni dell'amore del G. verso la sua città natale.
Opere: Gli scritti del G. hanno impresso un'orma profonda nella storia del diritto. Celeberrimo il Tractatus de maleficiis, la più popolare e diffusa trattazione di diritto e procedura penale, apparsa circa centocinquanta anni dopo le fatiche di Alberto da Gandino e Bonifacio Antelmi (pseudo-Vitalini). Noto da sempre il luogo della sua composizione, Bologna, l'anno, il 1438, è stato precisato di recente sulla base del manoscritto della Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat. 2650. Da più di un codice risulta che in seguito l'autore rivide e integrò con aggiunte la sua fatica: ciò spiega le difformità della tradizione manoscritta, segnatamente per la parte finale più o meno estesa e con tre diversi explicit. Destinato alla pratica come alla scienza, il trattato nella sua struttura è legato a questa ambivalenza: si apre con un atto di inquisizione e una sentenza immaginari che poi, quasi parola per parola, vengono commentati in 85 rubriche, con pertinente letteratura scientifica, richiami a esperienze personali, esortazioni e ammonimenti a magistrati, avvocati e studenti. Lo scritto, accompagnato dalle addizioni di Agostino Bonfranceschi e in seguito di Girolamo Chuchalon, dalle note di Bernardino Landriano e di altri (ad es. Girolamo Castellani, Jean de Grè), fu presto pubblicato con i due più antichi trattati penalistici - ma anche in qualche raro caso con l'anonimo Detormentis - cui si aggiunse una quaestio attribuita a Giovanni d'Andrea. Strepitoso il successo editoriale testimoniato da 18 manoscritti (cfr. D. Maffei - P. Maffei, pp. 57-64), dai numerosi incunaboli e dalle successive edizioni del XVI secolo (ibid., rispettivamente pp. 82-85 e 95-102).
La Lectura Institutionum, avviata per alcune parti anteriormente al 1441, fu elaborata in largo tratto d'anni fra Bologna e Ferrara, ove fu poi definitivamente rivista: le fonti che contengono indicazioni di date non sono univoche relativamente alla correzione delle singole parti, ma riguardo alla conclusione definitiva dell'opera concordano sul 1449, più precisamente, secondo alcune, il 31 dicembre. Da essa il G. escluse espressamente la trattazione dei titoli sulle azioni e le eccezioni, oggetto di due studi separati, che tuttavia accompagnarono sin dall'inizio la Lectura nelle edizioni a stampa. Nonostante che le lecturae universitarie ne costituiscano la base e l'ossatura, grazie alla revisione dell'autore, il commentario non si presenta come una semplice raccolta di appunti presi a lezione, ma come un libro vero e proprio unitariamente concepito. Lo stile didattico non scalfisce le qualità scientifiche dell'opera che, a paragone di opere consimili dello stesso periodo e malgrado la notevole mole, godette di straordinaria fortuna editoriale, ancor più ricca e longeva del pur noto e apprezzato trattato sui malefici: si contano 7 manoscritti, 20 incunaboli, a partire dal 1473, ben 37 cinquecentine e perfino due secentine. Inoltre passi della Lectura furono scelti dagli editori per accompagnare il Corpus iuris civilis, e particolarmente le Istituzioni (per i manoscritti e le edizioni ibid., pp. 64-67, 85-89, 102-109).
De actionibus, De exceptionibus, De appellationibus e De re iudicata sono le quattro monografie che, diverse per mole e fortuna, testimoniano la notevole attenzione dedicata dal G. al diritto processuale. Composto a Bologna dal 29 apr. 1441 allo stesso giorno dell'anno successivo, in occasione di un corso monografico su Inst., 4.6, il corposo De actionibus ebbe, fin dall'inizio, una maggiore diffusione: ne fanno fede 17 manoscritti (poco meno del Tractatus maleficiorum, ibid., pp. 67-74) e tre incunaboli, oltre a tutte le edizioni (quattrocentesche e non), insieme alla Lectura Institutionum (ibid., p. 89)
Sempre a Bologna, nel 1443, commentando Dig., 49.1-13 nei giorni festivi, il G. compilò il De appellationibus, che terminò il 2 di settembre. Verosimilmente egli utilizzò in quest'opera le sue additiones, presenti nell'inventario testamentario, alle recollette sull'appello di Giovanni d'Anagni, che in effetti è tra le autorità citate più di frequente. Lo scritto ebbe una certa risonanza inizialmente, ma poi fu quasi dimenticato nel secolo successivo: sono stati rintracciati quattro manoscritti (ibid., pp. 72 s.), due incunaboli e due cinquecentine (ibid., pp. 90, 109).
Trasferitosi a Ferrara, il G. dedicò a Leonello d'Este il suo studio De exceptionibus su Inst., 4.13-14. Composto, secondo il codice lionese nel 1447 (Lione, Bibl. de la Ville, 386), e comunque non prima del 1444-45 (o 1445-46) quando egli si stabilì nella città estense, alla ricca trattazione assicurò larga fortuna la sua inclusione, al pari del De actionibus, nelle edizioni, quattrocentesche e non, della Lectura Institutionum. Oltre al manoscritto sopracitato si conoscono altri due esemplari (D. Maffei - P. Maffei, p. 74) e un incunabolo a parte, Padova 1476 (ibid., p. 90; L. Hain, Repertorium, n. *1615; Indice generale degli incunaboli delle biblioteche d'Italia, n. 4151; Gesamtkatalog der Wiegendrucke, 10497).
Quando compose il De re iudicata, il G. era ormai in là con gli anni, anzi forse non ebbe modo di completare l'opera e quindi di curarne la diffusione: il breve scritto conta solo 26 carte nell'unica edizione veneziana del 1579, e dell'intero libro (D.XLII) vengono commentati solo i titoli 1-41. Inoltre l'inventario non lo registra a chiare lettere fra le opere del G., ma forse nella generica menzione di recollette "super partibus iuris civilis".
I suoi multiformi interessi abbracciarono anche il diritto delle successioni. Una prima piccola testimonianza è costituita da una repetitio ferrarese giuntaci nelle raccolte di Repetitiones (Lione 1553 e Venezia 1608), che - raccolta dal veronese Cristoforo Lanfranchini, all'epoca studente - fu terminata il 13 ag. 1451. Ben più importante il De testamentis sul quale, fin dai tempi del Diplovatazio, gravò il sospetto che fosse invece opera di Castellano da Perugia, il figlio di Sallustio Buonguglielmi. Non sono stati ritrovati testimoni manoscritti e dall'editio princeps del 1486 sembrano dipendere strettamente le successive numerose edizioni (due altri incunaboli e quindici cinquecentine, D. Maffei - P. Maffei, rispettivamente alle pp. 91, 109-112; l'opera è stata spesso edita unitamente all'Ars notariae di Rolandino de' Passengeri e all'interno di raccolte quali i Tractatus e variis iuris interpretibus…). Il trattato si apre con un'introduzione sulla materia testamentaria in generale, chiaramente slegata dal resto dell'opera, e quindi si articola in 113 glosse a commento di un testamento, di cui si deduce l'esistenza grazie alle poche parole riportate all'inizio di ogni glossa. Dettato a Siena da un cittadino aretino, in esso si richiamano luoghi, personaggi e usi che trovano una certa corrispondenza nella realtà senese del primo Quattrocento, quando forse il G. vi soggiornò come studente. La struttura dell'opera quindi, se non fosse appunto per l'introduzione, peraltro abbastanza breve, è simile a quella del Tractatus de maleficiis; i numerosi riferimenti autobiografici non possono che appartenere a un giurista operante nella pianura padana, anzi legato alla corte estense; lo stile e gli autori citati sono tipici del G., così come sono a lui riferibili scritti dall'autore ricordati come propri. L'opera verosimilmente risale agli ultimi anni di attività del G. (un ricordo autobiografico in cui si fa riferimento a Borso d'Este col titolo di duca consentirebbe di datarla a dopo il 1452), che, come per il De re iudicata, non ebbe tempo di curarne la diffusione e fors'anche di terminarla. L'introduzione fu poi pesantemente rimaneggiata, forse da un allievo suo e di Alessandro Tartagni. Ma lo scritto nel suo complesso è del G. tanto più che nell'inventario dei suoi libri si annovera un "opus ipsius domini Angeli copertum super materia testamentorum non ligatum".
Della ragguardevolissima produzione consiliare (l'inventario registra sedici volumi) siamo attualmente a conoscenza di due sole raccolte opera esclusivamente del G.: il ms. 441 della Biblioteca cons. della Città di Arezzo, contenente 282 pareri che sembrano appartenere uniformemente al primissimo periodo bolognese e allo stesso giro d'anni, e l'edizione veneziana del 1576 con 141 consilia (di uno dei quali si conosce anche l'originale manoscritto). Altri sono conservati come singoli documenti d'archivio, ovvero si leggono in miscellanee manoscritte (D. Maffei - P. Maffei, pp. 74-79) e a stampa, e nelle edizioni di pareri di altri giuristi (ibid., pp. 91, 113 s.).
Altri scritti minori del G., repetitiones, disputationes e recollectae sono note dalla tradizione manoscritta e dai riferimenti compiuti dall'autore all'interno delle sue opere (ibid., pp. 55 s.).
Fonti e Bibl.: In questa voce sono sintetizzati i risultati e i dati offerti da D. Maffei - P. Maffei, A. G. giureconsulto aretino del Quattrocento. La vita, i libri, le opere, Roma 1994, cui si rinvia per tutti i particolari, le fonti archivistiche e la bibliografia (si aggiunge in questa sede il riferimento all'edizione del De testamentis contenuta nel vol. VIII della raccolta Oceanus iuris, Lugduni 1535). Fra i numerosi documenti si segnalano: Arezzo, Archivio della Fraternita dei laici, nn. 652, 656, 660, 728. Per il Tractatus de maleficiis cfr. anche G. Zordan, Il diritto e la procedura criminale nel Tractatus de maleficiis di A. G., Padova 1976 e le osservazioni di E. Dezza, Accusa e inquisizione dal diritto comune ai codici moderni, I, Milano 1989, pp. 27-31. Per quanto riguarda la biografia, oltre a Th. Diplovatatius, Liberde claris iuris consultis, a cura di H. Kantorowicz - F. Schulz - G. Rabotti, in Studia Gratiana, X, Bononiae 1968, pp. 374-376, si può vedere la Vita curata dallo stesso e premessa a molte edizioni del Tractatus de maleficiis e della Lectura Institutionum, i cui elementi sono stati recepiti con modifiche o aggiunte, di rado rilevanti, dall'erudizione settecentesca e tenuti fermi sino ai giorni nostri.