SPINOLA, Andrea
– Nacque a Genova da Francesco (quondam Giovanni) e da Maria Grimaldi Cavalleroni (quondam Giovanni Battista), forse nel 1562. Fu verosimilmente il più giovane tra i suoi fratelli, ebbe inoltre diverse sorelle: Francesco si sposò probabilmente due volte (la seconda con Benedetta del Carretto) ed ebbe nel complesso due maschi, oltre ad Andrea (Giovanni e Niccolò, che sposarono due Spinola), e cinque femmine (Livia, Ippolita ed Emilia, che a loro volta contrassero nozze endogamiche – nella famiglia Spinola – mentre le restanti presero il velo). Andrea fu soprannominato della Signora, come suo padre, il quale, esponente di un casato cadetto del ramo di S. Luca, aveva preso parte attiva alla difesa della Repubblica, in occasione della congiura Fieschi (1547). Erano di primaria grandezza anche gli avi materni di Andrea, famiglia nel complesso dotata di numerosi titoli feudali oltreché a sua volta legata all’area urbana di S. Luca. Ivi sorgeva la dimora in cui Andrea crebbe e trascorse la massima parte della vita, essendo rimasto celibe.
Poco è noto circa la sua giovinezza e la sua formazione, aspetti verso i quali egli sempre mostrò particolare riserbo. D’altra parte indubbia la solidità degli studi umanistici da lui compiuti, comprovata dai suoi scritti oltreché dal carattere prevalente della sua 'libreria' (dispersa in seguito alla sua morte, composta di autori classici e contemporanei: Orazio, Giovenale, Seneca, Livio, Tacito, Quintiliano, Francesco Guicciardini, Philippe de Commynes, Giovanni Battista Adriani, Agostino Giustiniani, Antonio de Nebrija ecc.) e delle sue collezioni d’arte («in casa aveva statue nei corridoi e quadri alle pareti», fra i quali un ritratto di S. Leone, opera del Tintoretto, «nello studio, carte geografiche», possedeva inoltre un crocefisso del Giambologna; Bitossi, 1981, p. 15). «Dei poeti e prosatori in lingua italiana citava Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto» (p. 16), fu cauto estimatore di Traiano Boccalini, «grande ammiratore di Nicolò Contarini e di Paolo Sarpi» (Assereto, 2008, p. 105), oltreché attento lettore del De Republica Venetorum di Gasparo Contarini; studiò inoltre il castigliano e il francese (apprezzò Pierre de Ronsard). Una formazione che fu integrata da opportunità di soggiorno a Roma (così nel 1585) e a Venezia.
Due città che fortemente marcarono la biografia spinoliana, a partire dal versante intellettuale. Anche nelle sue più tarde pagine, Andrea guardò a Roma e a Venezia, elaborando notazioni che nel complesso rivelano una conoscenza approfondita e appunto diretta delle due differenti realtà urbane. Il suo giudizio su Roma è denso di chiaroscuri (una corte ove i genovesi erano bene accolti, d’altra parte teatro dei 'maneggi' di principi e cardinali: inopportuno avervi rappresentanza diplomatica stabile e così pure avere nunziatura in Genova). Venezia, invece, sinonimo del governo «più prudente, che sia mai stato al mondo», avrebbe sofferto di un’unica tara: le «maniere private» di quei signori generalmente non corrisponderebbero alla «veneranda e amabil bellezza del lor Governo» (BUG, ms. B.VIII.29, Venetia).
Verso Roma e Venezia, Andrea progressivamente orientò anche i suoi investimenti. Il suo patrimonio era di discreta consistenza, frutto di lascito prima che di eredità (il padre morì fra 1583 e 1585); includeva numerosi possedimenti a Busalla, in alta Valle Scrivia, con la quale la sua famiglia vantava un antico legame. Proprietà e sostanze della cui gestione si occuparono anche alcuni suoi congiunti, come il nipote Francesco Imperiale e Alessandro Spinola. Un altro nipote, da lui allevato, dopo essere rimasto orfano, Paolo Spinola, si considerò addirittura suo figlioccio.
A partire dai tardi anni Ottanta, Andrea coniugò l’impegno intellettuale con l’assunzione di cariche pubbliche, che nel complesso non furono di elevatissimo prestigio, proprio come nel caso di suo padre e dei suoi fratelli, con un sensibile scarto, viceversa, rispetto alla carriera politica del cugino omonimo (doge, 1629-31) e soprattutto del generale Ambrogio Spinola (altro parente piuttosto prossimo). Nel 1591, in seno alla nobiltà 'vecchia', nasceva l’Accademia degli Addormentati, sodalizio cui Andrea guardò con forte perplessità («per varii rispetti, sarebbe bene, che qui fra noi, non si facessero academie», BUG, ms. F.VI.22, Academie). Rimane infatti dubbia la sua effettiva affiliazione a questo consesso di eruditi (nel complesso di modesta levatura), mentre è certa la sua adesione al progetto politico frattanto elaborato da Ansaldo Cebà, il quale certamente partecipò alle attività accademiche con alcune lezioni dal forte afflato etico, sui temi «della libertà della Repubblica dai condizionamenti imposti dall’esterno, cioè da parte spagnola, e della effettiva uguaglianza fra gli aristocratici», Corradini, 1994, p. 12). All’origine della profonda sintonia intellettuale fra Spinola e Cebà, divenuta fraterna amicizia, si collocherebbe il proposito di trasformare gli Addormentati in una «scuola di repubblicanesimo» (Bitossi, 1981, p. 12). Scuola che negli intenti di Spinola non avrebbe dovuto sopperire genericamente alla mancanza di uno Studium cittadino, ma erogare una formazione pragmatica e specifica, atta a forgiare i futuri esponenti del ceto di governo. Gli Addormentati presero invece tutt’altro indirizzo (poetico-retorico, privo di anelito pubblico) e nel 1594 momentaneamente si spensero.
Frattanto Spinola, già colonnello delle milizie di Cornigliano (1589), iniziò a esercitare magistrature di crescente peso: ufficiale di Terraferma (1597), commissario a Savona (1598), ufficiale di Moneta (1599), capitano di città (1602, 1609), ufficiale dei Rotti (1604, 1607), padre del Comune (1602, 1609) e commissario a Sarzana (1605). Mentre Cebà confermava il suo carattere di «letterato puro» (C. Mutini, Cebà, Ansaldo, in Dizionario biografico degli italiani, XXIII, Roma 1979, s.v.), l’ideale spinoliano si fece sempre più aderente «al modello catoniano del gentiluomo stoico e sollecito del bene pubblico» (Bitossi, 1981, p. 13), ovvero incapace di concepire l’impegno letterario disgiunto dagli oneri di governo (ai quali Andrea raramente si sottrasse: nel 1601 rifiutò un’ambasceria alla corte imperiale e nel 1620 l’Ufficio dei poveri).
Spinola aveva frattanto avviato la sua attività pubblicistica, tradottasi nel Discorso sopra il presente governo di Genova (1607-08) e nelle Osservazioni (1608-11). A partire dagli anni Dieci ebbero invece inizio «il lavoro certosino» (p. 14) di collazione dei materiali confluiti nel Dizionario politico-filosofico (o Ricordi) e il progetto di conferire destinazione pubblica alla sua 'libreria' e alle sue collezioni (1614-21).
D’altro canto egli si scontrò con i Collegi: divenuto conservatore delle Leggi, ricevette un primo ammonimento nel 1616, per avere troppo aspramente criticato l’operato del Minor Consiglio; quindi, nell’ambito di una discussione sulle prerogative della rota criminale (gennaio 1620), si pronunciò in difesa di queste ultime, ritenendole minacciate dall’ingerenza dei Collegi, i quali ne ordinarono la breve carcerazione (esperienza che era già toccata a Cebà, 1593). L’episodio, di cui Spinola molto ragionò (nei Ricordi e in altre sue pagine), si tradusse in una momentanea battuta d’arresto sul versante dell’impegno politico: negli anni immediatamente successivi non ebbe incarichi di rilievo e soggiornò nuovamente a Venezia (ove ultimò il tomo II dei Ricordi). Nel 1624 fu nominato sovrintendente alla ripartizione del carico fiscale per le Riviere e forse senatore (1625 circa; dato, quest’ultimo, non sufficientemente comprovato, pur a fronte di un breve cenno autobiografico: «tuttavia io sono senatore», BUG, ms. B.VIII.26, Collegii Serenissimi, p. 51).
Dal 1623, in seguito alla scomparsa di Cebà, ebbe inizio la drammatica serie di eventi che segnò gli ultimi anni della vita di Spinola, determinando un profondo ripensamento che si tradusse nell’integrale revisione dei Ricordi, massima opera spinoliana (appena ultimata, in prima stesura, 1622). Prima la tentata conquista dello Stato ligure da parte di un esercito franco-piemontese (1624-25), quindi l’ennesimo tracollo finanziario spagnolo (e conseguentemente quello di molti Spinola, 1627) e due episodi sediziosi: la cosiddetta congiura di Vachero (supportata da una nutrita produzione libellistica, con il placet di Carlo Emanuele I, duca di Savoia, 1627-28) e l’iniziativa di protesta che invece poggia su un unico libello, il Memoriale del popolo genovese al marchese Spinola (meglio noto come Memoriale o Manifesto Ligalupo, 1629). Iniziativa, quest’ultima, che avrebbe fatto capo al 'dottor di leggi' Vincenzo Ligalupo e di cui poco è noto. Per certo impresa che ambì a guadagnare il sostegno dell’ambasciatore spagnolo a Genova (Sancho de Monroy, marchese di Castañeda) oltreché l’attenzione del nuovo governatore di Milano (Ambrogio Spinola). Andrea la ritenne macchinazione «più perniciosa» della prima, addirittura «suscitata» dai ministri spagnoli (BUG, ms. F.VI.22, Aiuto de’ Principi). Il lungo passo del Memoriale rivolto proprio contro un certo «Andrea Spinola» («quello che fa del Padre della Patria, del Cattone Uticense») è del resto difficilmente equivocabile (Andrea era stato accostato all'Uticense nei versi dedicatigli da Cebà). Le accuse che gli vennero mosse nel Memoriale si riassumono in quelle di antispagnolismo e tradimento: con l’approssimarsi dell’aggressione franco-piemontese, Spinola avrebbe tessuto segrete trame con Venezia, abbandonando la patria e prendendo dimora a Padova (dato per il quale mancano i necessari riscontri, mentre è certo un suo ennesimo soggiorno romano, nel marzo ’26), «onde il Senato per mezo de parenti di lui lo chiamò, et fece venir a’ Genova, dove in premio di così generosa attione fù eletto senatore». Avrebbe al contrario meritato, a giudizio dei suoi detrattori, un processo per lesa maestà (Archivio di Stato di Torino, Corti estere, Genova, 1, Memoriale del Popolo Genovese, cc. 5v-6r).
Al termine di questa temperie (1624-29) il ritratto di Andrea sensibilmente mutò: non più un «filospagnolo a freddo» (Bitossi, 1981, p. 32) bensì un osservatore fortemente scettico in ordine alla tenuta dell’alleanza fra Genova e Spagna. Di qui la decisione di rimettere mano ai Ricordi: «Al rifar i miei scritti, mi ci hà particolarmente indotto, l’haver io cambiata opinione, in molte cose, chiarito dalla esperienza presa in atto prattico, e massime dall’anno 1625 in quà», attesta una sua nota autografa (risalente alla tarda primavera del ’29). Pagine in cui egli ritrattò la sua posizione, anzitutto in ordine a «li Signori Ministri di Spagna», i quali non avrebbero affatto mirato alla «conservatione della nostra Republica, e libertà» («si è toccato con mano, tutto il contrario»). D’altro canto lo angustiava il problema della circolazione dei suoi scritti: talora «presi non come miei, ma come voci publiche (del volgo)». A salvaguardia dei Ricordi secondi egli poneva pertanto un chiaro avvertimento («questi miei scritti, non voglio in modo alcuno, che si divulghino, come hanno fatto i primi», BUG, ms. F.VI.22, Intorno à miei scritti, che hò rifatto). Volle inoltre significativamente inserire questo stesso monito nella voce Scritti intorno al Nostro governo publico (BUG, ms. B.VIII.28, p. 214). Il primo Spinola per certo «scriveva e diffondeva, o lasciava diffondere i propri scritti; ma altri li rimaneggiavano» (Bitossi, 1981, p. 20).
Più specifico il caso dei Ricordi, concepiti come prontuario di scienza di governo, di cui furono dedicatari Alessandro Spinola (per il primo tomo), Marcello Invrea (per il terzo): un’opera che intese raggiungere ben minori e più selezionati lettori (fra i quali Cebà, il cui elogio figura a incipit del tomo I), che avrebbe cioè dovuto avere una circolazione rigorosamente manoscritta e tutta interna al ceto di governo (come era consuetudine e come imponevano i provvedimenti adottati nei confronti degli scritti politici). Nel turbine degli anni Venti (tra guerra e dissenso popolare), però, più di qualcosa dovette andare storto: la diffusione non autorizzata delle pagine spinoliane assunse ben maggiori proporzioni.
Spinola morì nel maggio 1631, nella sua villa di Cornigliano, intento a revisionare le proprie carte.
Era ormai divenuto personalità di prim’ordine, nella considerazione non solo cittadina e non dei soli cultori di umane lettere: a inizio secolo aveva meritato l’attenzione di Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, quindi quella di Galileo Galilei (1630), che lo aveva mandato a salutare tramite Giovanni Battista Baliani, definendolo filosofo. Appellativo probabilmente già invalso, che infine prevalse sull’altro (della Signora). La fortuna letteraria di Spinola, oggi considerato «il più lucido pensatore politico genovese della sua epoca» (Corradini, 1994, p. 13), il più acuto interprete di questo ceto di governo e dei suoi fondamenti ideologici, è insomma fenomeno caratteristico già del primo Seicento.
Opere. Oltre ai Ricordi (incompiuti, rielaborati, rimaneggiati – forse persino a beneficio della causa popolare – infine dispersi: un corpus di 550 voci, per un totale di cinque tomi, limitatamente alla prima stesura), la produzione spinoliana si compone di numerosi discorsi (fra i quali quelli sopra la sua carcerazione, sopra il Duca di Savoia, sui dogi e sugli ambasciatori, oltre ai già menzionati: sopra il governo e Osservazioni) e brevi dissertazioni (le Considerazioni intorno al capo 48 delle leggi del ’76, il Manuale di varie cose che in atto prattico spettano al governo della nostra Republica e, per l’ultimo Spinola, gli enigmatici Scritti per il quale mostra che i Spagnoli vogliono impatronirsi del stato genovese, con strachar la Republica, datati 1627, conservati presso la Biblioteca della Società economica di Chiavari). Infine il problema dei molti testamenti di Spinola e delle sue moltissime lettere. Quanto ai primi, atti, anche in questo caso, carichi di profonda valenza politica e anzi «propagandistica» (Bitossi, 1975, p. 152; Spinola volle per esempio beneficare l’Arsenale di Venezia, la Repubblica di Lucca e simbolicamente il pontefice, con una cassetta di frutta l’anno). Quanto alle seconde, il piano è duplice; da un lato i carteggi privati, dall’altro le svariate decine di lettere 'pubbliche': elaborate dal 1605 in poi, indirizzate ai Collegi, a Venezia, al papa, al governatore di Milano, e spesso 'orbe' (non firmate) o scritte con l’intento di mantenere comunque l’anonimato (è il caso della lettera siglata con il nome dello scomparso Cebà; Fenzi, 1966). In rapporto allo scarno (e in parte erroneo) ritratto di Spinola tracciato a metà ‘600 dall’abate Michele Giustiniani (un «topo di biblioteca un po’ misantropo», Bitossi, 1981, p. 15), il profilo complessivo di questo pensatore risulta oggi ancora lacunoso ma ben più ricco e nitido, soprattutto grazie agli studi di Carlo Bitossi. Spinola fu strenuo difensore di un repubblicanesimo che era di accezione classica (fondato sui massimi teorici rinascimentali), che si richiamava in modo stringente alle vicissitudini e alle specificità dello Stato genovese e che possedeva una marcata impronta stoica. Fu pertanto tenace avversario di quanti, fra i suoi concittadini, non si contentarono di «regnare» ma, governando e reprimendo «con maniera ch’abbia dell’assoluto», posero a «dormir le leggi», vollero «straregnare» (BUG, ms. B.VIII.26, Collegii Serenissimi e Desiderio di regnare). Paradigma politico variamente declinabile, che nei Ricordi si tradusse anche nella ferma riprovazione per ogni genere di 'moda' e 'lusso', per quella somma di consumi, atteggiamenti e pratiche sociali che avrebbe denotato il pericoloso e crescente allontanamento di quel patriziato dalla tradizione (dai costumi degli avi). Ecco spiegata la ratio di lemmi apparentemente peregrini rispetto all’impianto generale dell’opera (Bussole, Carrozze, Cuochi, Corteggio, Essequie private, Famiglie numerose, Giuoco, Gola, Habiti, Lettiche, Lusi, Medici, Paggi, Precedenze, Pompe…), inoltre una ratio che ancor più fortemente impronta le pagine dedicate alle gentildonne genovesi e al loro universo (Donne, Doti, Gioie, Honore delle donne, Matrimonij…). La massima parte delle restanti voci attiene invece, in modo esplicito, ai principali temi del coevo dibattito politico (prerogative e funzioni delle diverse magistrature, rapporti diplomatici con i maggiori potentati italiani, materia criminale, milizie, difese della città e dello Stato, progetti di riarmo…). Sul piano stilistico, una prosa chiara, piana, analitica, sapida, che fa uso frequente della citazione latina (e in specie di Tacito), d’altra parte lucidamente consapevole che a Genova «non molti parlano liberamente» (Bitossi, 1981, p. 23), ossia talora costretta a farsi allusiva, viceversa talaltra capace di contemplare lo sfogo personale e persino il riferimento autobiografico.
Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Archivio apostolico Vaticano, Fondo Borghese, s. III, 126a, c. 165r; Fondo Pio, ms. 28 (V), II: A. Spinola, Osservazioni; Chiavari, Biblioteca della Società economica, ms. 3.Z.V.4: A. Spinola, Scritti; Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, 2748, cc. 1r-2v (Da cittadini, Mag.co Andrea Spinola q. Fran.ci, 2 ottobre 1630); Genova, Archivio storico del Comune: Brignole Sale, ms. 106.B.3: A. Spinola, Scritti varii…; Biblioteca civica Berio, ms. XIV. 3.23 (1); Biblioteca universitaria (BUG), mss. B.VIII.25-29: A. Spinola, Dizionario politico-filosofico, I-V; F.VI.22: A. Spinola, Scritti; Archivio di Stato di Torino, Corti estere, Genova, 1, Memoriale del Popolo Genovese…, cc. 1r-10r.
A. Cebà, Rime, Roma 1611, p. 133; Id., Lettere d’Ansaldo Cebà ad Agostino Pallavicino di Stefano, Genova 1623, p. 87; M. Giustiniani, Gli scrittori liguri…, I, Roma 1667, p. 60; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, II, Genova 1826, tavv. 17 (Grimaldi), 26 (Spinola); E. Fenzi, Una falsa lettera del Cebà e il “Dizionario politico-filosofico” di A. S., in Miscellanea di storia ligure, IV (1966), pp. 109-176; D. Ortolani, Cultura e politica nell’opera di Ansaldo Cebà, in Studi di filologia e letteratura, I (1970), pp. 117-178; C. Bitossi, A. S. L’elaborazione di un ‘manuale’ per la classe dirigente, in Miscellanea storica ligure, VII (1975), pp. 115-176; F. Vazzoler, La soluzione tragica del pessimismo politico nell’ultimo Cebà, ibid., pp. 75-114; C. Bitossi, Introduzione. Profilo di A. S., in A. Spinola, Scritti scelti, a cura di C. Bitossi, Genova 1981, pp. 5-64; C. Reale Simioli, Tracce di letteratura ligure (1617-1650) nelle carte napoletane dell’Archivio Doria d’Angri, in Accademie e biblioteche d’Italia, L (1981), pp. 321-339; R. Savelli, Repressione penale, controllo sociale e privilegio nobiliare: la legge dell’“ostracismo” a Genova agli inizi del Seicento, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1984, vol. 14, pp. 3-29; M. Corradini, Genova e il barocco. Studi su Angelo Grillo, Ansaldo Cebà, Anton Giulio Brignole Sale, Milano 1994, pp. 12-20, 142, 186-187; S. Morando, La letteratura in Liguria tra Cinque e Seicento, in Storia della cultura ligure, a cura di D. Puncuh, IV, Genova 2004, pp. 27-64; G. Assereto, Lo sguardo di Genova su Venezia. Odio, ammirazione, imitazione, in La diversa visuale. Il fenomeno Venezia osservato dagli altri, a cura di U. Israel, Roma 2008, pp. 105-107; C. Bitossi, Due modelli di educazione repubblicana nella Genova del Seicento negli scritti di A. S. e Gio. Francesco Spinola, in Annali online della didattica e della formazione docente, 2013, vol. 5, n. 6, pp. 159-172; L. Ceriotti, Repubblica e virtù, Utica e Lesbo: Vincenzo Sgualdi nel pensiero politico del secolo barocco, in Annali di Storia moderna e contemporanea, 2013, n. 1, pp. 49-72; A. Ceccarelli, «In forse di perdere la libertà». La Repubblica di Genova nella riflessione di Giulio Pallavicino (1583-1635), Roma 2018, pp. 17-44, 55-83, 87-187.