GIGANTE (Giganti), Andrea
Figlio di Sebastiano e di Antonia Borduela, nacque il 18 sett. 1731 a Trapani, dove studiò filosofia e teologia presso la Compagnia di Gesù, divenendo sacerdote, e dove iniziò il suo apprendistato architettonico, nella teoria e nella prassi, al seguito di Giovanni Biagio Amico, singolare interprete in Sicilia della rivoluzione borrominiana.
Nei primi anni Cinquanta, o forse dopo la morte di Amico (1754) che segnò anche la fine dell'egemonia trapanese nel settore dell'architettura, il G. si trasferì a Palermo. Qui, tramite l'autorevole mediazione di monsignor Giuseppe Stella, vescovo di Mazara del Vallo, ottenne nel 1755 il primo, prestigioso incarico; si trattava del progetto di uno scalone per la "Casa Grande nella contrada dell'Alloro" (oggi palazzo Bonagia) a Palermo, di proprietà del duca di Castel di Mirto marchese di Bonagia, nipote del suo mecenate. I rapporti di Amico con la famiglia Stella, che risalivano certamente agli anni Quaranta a seguito del progetto per il seminario di Mazara, devono in ogni caso aver agevolato la scelta di un suo allievo quale nuovo architetto del palazzo. I lavori del G., già programmati dal 1755 (D'Arpa - Romano), si concentrarono soprattutto, secondo la testimonianza delle fonti documentarie, negli anni 1758-60 (Giuffrè, 1987).
Lo scalone, una delle opere più celebrate del tardo barocco palermitano (Wittkower; Blunt), semidistrutto durante il secondo conflitto mondiale, si innesta nell'ambito di una fabbrica preesistente, parzialmente danneggiata in occasione del terremoto del 1751 e già dal 1752 in corso di completamento e di "restauro" da parte di un altro architetto trapanese, Nicolò Palma, allora architetto del Senato di Palermo, al quale sembra doversi attribuire un primo progetto (D'Arpa); lo scalone si pone, però, come corpo dotato di una propria autonomia strutturale e formale, accentuata dall'inserto della serliana, quinta scenica per uno spettacolo destinato a essere recitato da pochi eletti ma contemplato da lontano, come magnifico fondale, da molti altri. I caratteri dello scalone, d'altronde, rimandano non soltanto alla conoscenza dei Galli Bibiena e di A. Pozzo, acquisita tramite la circolazione di libri e incisioni di cui il G. e Amico erano grandi collezionisti, ma anche alle tematiche presenti nel trattato e nelle architetture di quest'ultimo (Giuffrè, 1987).
Negli stessi anni - il suo nome compare in atti del 1757 - il G. fu presente a Palermo nel cantiere del palazzo del principe di Valguarnera (oggi Gangi) in piazza Croce dei Vespri; all'architetto può essere attribuita la paternità del progetto per la famosa galleria con volta traforata (Neil, 1995) e forse l'idea dello scalone, realizzato a partire dal 1761, con rampe simmetriche poste secondo una "veduta per angolo" (Piazza, 1997-98): artifici di uso tipicamente bibienesco, già noti ad Amico (Matteucci).
Contemporaneamente il G. diresse, sempre a Palermo, altri cantieri o predispose disegni, relazioni e stime per opere diverse, con interventi puntuali: in merito a palazzi o "case grandi" - di don Pietro Paceco (1756), del marchese Valdina nel piano della Marina (1760), di don Bernardo Conti (1762), del duca di Terranova alla Zisa (1764) e all'Olivella (1768 e 1770) - ovvero nell'ambito di progetti di aggiornamento decorativo per interni di chiese, come quelli per confessionali e arredi in S. Mattia dei padri crociferi (1762). Nell'estate del 1757 effettuò anche sopralluoghi a Mussomeli come architetto eletto dalla sezione civile del tribunale, per controllare l'esecuzione dei lavori nel sontuoso palazzo di Giuseppe Lanza, principe di Trabia. In particolare, i rapporti con il duca di Terranova, documentati sino al 1784, furono tali da far presupporre una prestazione come soprintendente per tutte le opere relative ai vasti possedimenti del casato; lo stesso G., infatti, si definisce nei documenti di pertinenza "publico Geodeto ed Architetto", a testimonianza di una versatilità professionale che fu anche alla base del suo successo (Neil, 1995; Nobile).
Nei primi anni Sessanta fu impegnato per breve tempo come proarchitetto del Senato di Palermo e, in tale veste, redasse una perizia relativa al mulino di S. Filippo, situato a Palermo nella contrada di Maredolce e appartenente alla Real Commenda della magione; in anni non precisati alcuni autori (Di Ferro; Gallo) lo indicano inoltre come architetto della Deputazione del Regno e del tribunale del Real Patrimonio e membro dell'Accademia del Buon Gusto dove presentò relazioni in italiano e latino tra le quali una sull'origine dell'architettura (Di Ferro).
In realtà, con il ritorno a Palermo di Giuseppe Venanzio Marvuglia nel 1759, dopo un apprendistato a Roma presso l'Accademia di S. Luca, il G., che pur aveva raggiunto vertici eccezionali nell'elaborazione dei temi tardobarocchi, fu costretto a rivedere il proprio linguaggio, aggiornandolo alla luce dei recenti dettami provenienti da Roma (in particolare le novità della cerchia che faceva capo al cardinale Alessandro Albani) e da Napoli (gli scavi di Pompei ed Ercolano, la riscoperta di Paestum) importati in Sicilia, oltre che da una aggiornata e colta committenza, anche dai numerosi viaggiatori stranieri alla ricerca delle testimonianze dell'antichità classica. Se tra gli anni Sessanta e Settanta il classicismo tardobarocco di Marvuglia poté superare senza traumi il passaggio al neoclassicismo (basti pensare alla villa dei duchi di Villarosa a Bagheria o all'oratorio dei filippini all'Olivella, opere degli anni Sessanta), il tardo barocco rococò del G., privo - come sembra - di una verifica diretta sulle fonti romane, ebbe bisogno di autorevoli mediatori per non sfigurare in una siffatta competizione professionale: la conoscenza delle incisioni di G.B. Piranesi e di J.-B. Delafosse, assume certamente in questo contesto un ruolo particolare, già evidenziato dalla storiografia (Di Stefano; Blunt; Giuffrè, 1985); in particolare, il G., secondo la testimonianza di L. Dufourny (1789-93) possedeva certamente nelle sue "collezioni" le opere di Piranesi.
Non è possibile verificare la qualità specifica del linguaggio usato dal G. nelle opere degli anni Sessanta, trattandosi di interventi parziali e di edifici oggi scomparsi o resi quasi illeggibili dalle successive trasformazioni; la recente scoperta di documenti relativi al progetto per il palazzo Merendino-Costantino in via Maqueda a Palermo, riferiti all'anno 1763, pone tuttavia decisamente sotto nuova luce la capacità di adesione del G. ai dettami imposti dal nuovo gusto e rivela la sua fulminea conversione al neoclassicismo (Piazza, 1997-98). La parte più innovativa dell'intero progetto che si attesta, come altri, su preesistenze, è da individuare nel cortile, dotato di uno pseudoportico su colonne ioniche trabeate realizzate in marmo rosso di Castellammare, nel Trapanese, la cui realizzazione venne commissionata nello stesso 1763 ai marmorari Musca, Geraci e Allegra, penalizzati poi nel pagamento per non aver rispettato nelle dimensioni delle colonne il disegno fornito dall'architetto. Negli stessi anni, peraltro, il G. continuò a operare secondo modi tardobarocchi, se, intorno al 1765 (Villabianca, XVIII sec.), elaborò il progetto per lo scalone del palazzo Giurato (poi Rudinì), che fronteggia sulla via Maqueda il palazzo Costantino.
Le opere degli anni Settanta e Ottanta testimoniano un'ormai raggiunta maturità di linguaggio e mostrano le capacità dell'architetto nell'accurata scelta dei materiali locali da usare nelle fabbriche, nell'organizzazione dei cantieri e nella sapiente regia dei programmi decorativi di cui in gran parte egli stesso fornì i disegni (oggi in collezioni pubbliche e private di Palermo) da affidare per l'esecuzione a diversi operatori: tra questi, il napoletano Benedetto Cotardi, "pittore adornista e d'Architettura". Si ricordano, in particolare, la villa Galletti a Bagheria, iniziata nel 1774 (a partire dai capitoli di appalto per la fornitura della pietra dell'Aspra: Finocchio), e quella Tasca-Camastra a Mezzo Monreale, iniziata, su preesistenze, sempre negli anni Settanta, con un intervento del G., intorno al 1780, anche per il giardino antistante (Mauro - Sessa). La villa Galletti, in particolare, susciterà l'interesse e le critiche dei viaggiatori stranieri - il conte M.J. de Borch nel 1776, J.E. Swinburne nel 1777, sino a L. Dufourny - attratti anche dal linguaggio "internazionale" che la caratterizzava (Giuffrè, 1985, pp. 130-132).
Per gli stessi anni altri impegni di natura diversa - progetti, direzioni di lavori, consulenze - vanno lentamente emergendo dai documenti di archivio. Nel 1770 redasse un progetto di "ammodernamento" per il palazzo urbano di Giuseppe Lanza, principe di Trabia, situato a Palermo nella piazza del Gran Cancelliere e oggi non più esistente, divenendo l'architetto di fiducia della famiglia. Egli seguì, infatti, i diversi lavori nel palazzo sino al 1786 (Cardamone - Maniaci) e, contemporaneamente, fu presente nelle altre residenze urbane e suburbane di questa famiglia: il palazzo dei principi di Scordia in via Maqueda e la menzionata villa Tasca-Camastra. Nel 1772 venne chiamato a Caltagirone in qualità di perito in merito ai lavori nella chiesa madre - diretti dall'architetto catanese Francesco Battaglia e in atto dal 1766 - con particolare riferimento alla verifica statica dei sostegni della cupola che il G. giudicò non idonei, criticando così l'operato di Battaglia (Librando). Nel cantiere del palazzo dei principi di Palagonia sito a Palermo nei pressi della chiesa di S. Maria dei Miracoli sul piano della Marina - affidato in conduzione al sacerdote Giulio Rostagni e interessato da grandi lavori di ristrutturazione a partire dal 1771 - il G. fu presente nel 1773 per il progetto e probabilmente anche per la direzione di vari lavori tra i quali la scala, realizzata nell'ornato dallo scultore Bartolomeo Sanseverino, di cui ancora sopravvivono dettagli scenografici propri della sua maniera (Neil, 1995; Montana). Ancora con ruolo di perito e consulente intervenne nel 1777 a Santa Flavia, nei pressi di Palermo, per la chiesa di S. Anna la cui costruzione era iniziata negli anni Quaranta (Filangeri). Nel quadro di un nuovo progetto di "restauro" per la chiesa madre di Motta d'Affermo intitolata a S. Rocco, in atto dal 1774 sulla base di un progetto di Francesco D'Alessandro e promosso da Gabriele Lancillotto Castelli, principe di Torremuzza e futuro custode delle Antichità di Sicilia, la sua presenza viene menzionata in un documento del 1783 con riferimento alla rielaborazione decorativa dell'interno, peraltro attestata da un disegno presente oggi nei fondi della Galleria regionale di Palermo; forse a seguito di questo lavoro, nel 1784, venne incaricato del progetto di un altare dedicato al Ss. Sacramento nella chiesa madre di Tusa, realizzato a Palermo e poi trasferito in casse per mare sino al porto di Marina di Tusa (Giuffrè, 1985; Pettineo). Per la chiesa del Ss. Salvatore a Palermo disegnò, nel 1782, i pavimenti del presbiterio e delle cappelle di S. Basilio e di S. Rosalia e "piadelle e scalini" nei quattro altari minori, e, nel 1783, il tabernacolo in pietre dure del presbiterio; nel 1785 risulta essere ancora impegnato nel rifacimento della scala e del pavimento del vestibolo d'ingresso sotto il coro (Piazza, 1997). Nel 1784 firmò capitoli di appalto per opere varie nei feudi del duca di Terranova e, in particolare, a Sant'Angelo Muxaro, per la nuova costruzione del castello e delle sue carceri, da identificare forse con quel progetto di "Nuove Carceri in Monte d'Oro" di cui esiste un disegno autografo; nel 1786, progettò, sempre a Palermo, la facciata della piccola chiesa di S. Paolino dei Giardinieri in piazza del Gran Cancelliere (Palermo), oggi molto danneggiata.
Altri importanti progetti, la cui datazione precisa non è stata ancora confermata dai documenti, sono da collocare sempre negli anni Settanta-Ottanta: a Palermo la casina di monsignor Ventimiglia, poi delle monache di S. Maria di Valverde; nella zona di Mezzo Monreale, il parterre per il palazzo dei principi di Partanna, di cui esiste uno splendido disegno (collezione Barbera Azzarello), e la casa Giarraffa davanti a palazzo Cutò (Sessa); a Sciacca, gli "ammodernamenti" previsti per la chiesa del Carmine, di origine medievale; a Trapani, il prospetto del palazzo dei baroni Riccio di Morana; a Noto, la chiesa del Ss. Salvatore, per la quale si lavorava già dal 1767, poi parzialmente modificata e completata da altri.
Le attività progettuali del G. furono molteplici e di diversa natura; si ricordano, in particolare, l'ideazione di alcuni arredi chiesastici in argento tra cui il paliotto con prospettiva architettonica per la chiesa di S. Giuseppe a Enna (1768) e la lanterna per la chiesa di S. Chiara a Palermo (1771); inoltre i disegni per alcuni monumenti sepolcrali (1770), e quello per il carro e l'apparato della cattedrale per le feste di S. Rosalia a Palermo, a seguito della morte dell'architetto del Senato Nicolò Palma (1779), e per ponti in ferro e opere idrauliche, per conto della Deputazione del Regno.
Il G. morì a Palermo il 4 nov. 1787 e venne seppellito nella chiesa di S. Antonino.
Nonostante i giudizi negativi espressi da autori più o meno coevi al G. (Dufourny, Di Ferro, Gallo) sulla densità dell'intreccio decorativo che caratterizza la sua opera, soprattutto se paragonata agli esiti grandiosi raggiunti da G.V. Marvuglia, il G. si pone con ruolo da protagonista nell'architettura della seconda metà del Settecento oscillante dal tardo barocco al rococò, al classicismo e al neoclassicismo, aperta verso un arco di competenze professionali molteplici. La definizione di "architetto di frontiera" può così evidenziare la capacità di mediazione tra culture eterogenee e il pieno inserimento nella variegata temperie del suo tempo, prima di altri innesti (dal cinese al gotico) che caratterizzeranno la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo. La metodologia compositiva emerge soprattutto nei numerosi disegni autografi posseduti all'inizio dell'Ottocento da A. Gallo e pervenuti attraverso l'allievo E. Interguglielmi che ne continuerà la tradizione decorativa rivolgendola sempre più verso l'innovazione rigorista: essi mostrano, da parte del loro autore, una continua ricerca di temi e di motivi forse ridondanti e confusi, forse mediati da libri e stampe e non derivati dallo studio diretto dell'antico come avviene invece per Marvuglia (Dufourny), ma certamente rappresentativi, oltre che di non comune perizia grafica, anche e soprattutto di ingegno e di fervida immaginazione.
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