CAPPELLO, Andrea
Figlio di Vettore, capitano generale da mar, e di Lucia di Marco Querini, nacque con tutta probabilità a Venezia, nel 1444 secondo le genealogie del Barbaro o qualche anno dopo secondo una notizia del Cappellari.
Cresciuto in un ambiente di mercanti, il C. trascorse certamente la giovinezza esercitando anch'egli questa attività, forse a Londra o a Bruges, dove la famiglia svolgeva d'abitudine il suo giro d'affari, ma compì anche gli studi giuridici, perché in qualche documento viene qualificato avvocato. Era comunque di raffinata sensibilità, se per suo figlio seppe scegliere come maestro Marino Becichemo, allora giovanissimo.
Il 29 apr. 1480, in società coi fratelli Alvise e Paolo e con Tommaso Lippomano, aprì a Venezia un banco privato, che si rese subito benemerito verso la Signoria con anticipazioni per le spese dell'ambasciatore a Genova e per la spedizione di un contingente di soldati a Corfù. In garanzia veniva assegnata una parte delle entrate della camera fiscale di Vicenza.
Il banco era uno dei maggiori della piazza, non molto inferiore a quelli dei Soranzo, dei Garzoni, dei Pisani, come farebbe invece supporre il quadro delle somme prestate alla Repubblica dal 1457 al 1507 costruito dal Ferrara. L'elenco infatti non è completo, e per esempio manca una grossa somministrazione di denaro allo Stato, di 26.500 ducati, alla quale i Cappello e il Lippomano, "non deviantes ab eorum approbato more", s'impegnarono nell'autunno del 1482 per un pagamento pubblico a Costantinopoli. Purtroppo sull'attività del banco ci sono rimaste soltanto notizie di questo tipo, senza documentazione diretta. Essa doveva svolgersi nella caratteristica forma veneziana del "banco di scritta", cioè essenzialmente nell'esecuzione di pagamenti e di riscossioni mediante operazioni di giro. Al principio del secolo la "bona scriptura di banco", segno di un deposito corrispondente, s'era andata sempre più affermando come mezzo di pagamento e veniva accettata anche da alcuni uffici pubblici. In progresso di tempo, per le sempre più frequenti difficoltà di cassa, aveva cominciato ad essere negoziata in piazza ad un corso spesso inferiore a quello della moneta metallica ed era fatta oggetto di forti speculazioni. Ai banchi era permessa soltanto la concessione di piccoli prestiti, per un massimo di 10 ducati; in realtà essi immobilizzavano una parte spesso rilevante dei depositi in investimenti commerciali per conto proprio o altrui. All'epoca del fallimento del banco Garzoni si disse a Venezia che anche Tommaso Lippomano e i suoi soci attiravano i depositanti con un interesse del 3%, ovviamente per avere una maggiore disponibilità di denaro da impiegare in operazioni attive. I dissesti di questi anni, però, sembrerebbero imputabili meno a gestioni spericolate che alla cattiva congiuntura, alla quale contribuirono il consolidamento del debito pubblico nel Monte Nuovo (1482) e il forte drenaggio fiscale determinato dalle guerre. Il C. e i suoi fratelli seppero ritirarsi in tempo dall'attività bancaria che con tanta frequenza, come si legge in una deliberazione del Senato del 1455, sboccava "in viam sinistram". Dopo il 1485 non figurano più fra i titolari del banco, e perciò riuscirono a sottrarsi al fallimento, che nel 1499 colpì soltanto i Lippomano. I Cappello compaiono invece tra i debitori, per 13.600 ducati, che con ogni probabilità erano un residuo della vecchia gestione comune.
Come già suo padre, il C. si volse presto all'attività politica. L'elezione dogale del 1486 aveva riacceso le inimicizie tra le casate patrizie nuove e le vecchie. Queste ultime avevano sostenuto Bernardo Giustinian con una campagna condotta sul motivo che era ormai tempo "de cavar el dogà de man de curti e de remetterlo in longhi", ma il prevalere di Agostino Barbarigo aveva rafforzato la coalizione delle case nuove, le quali nelle successive votazioni per il Consiglio dei dieci e per la sua zonta avevano silurato numerosi autorevoli esponenti delle vecchie. Insieme coi fratelli, il C. era attivo fautore delle casate nuove e in Maggior Consiglio, proprio dopo un infiammato discorso del doge esortante alla concordia, aveva passato ad Andrea Barbaro un elenco delle ventiquattro case vecchie, con la raccomandazione di non votare per nessuno dei candidati che vi appartenevano. Chi riferì questo fatto al doge ebbe il torto di non risparmiargli un accenno inopportuno al debito dei Barbarigo verso la città, per l'elezione al dogado di due di loro, un fratello dopo l'altro, e perciò venne mandato in esilio. Il C., invece, non pagò nessuna conseguenza. Non desti sorpresa che in un clima di consorterie e di alleanze familiari possa aver contato la circostanza che nel 1470 egli s'era sposato con la figlia del doge Marco Barbarigo, Marina, e perciò era in stretti rapporti d'affinità, anche con quello in carica, fratello del suocero.
Senatore, insigne secondo lo Zabarella, di grande esperienza secondo il Cicogna, il 7 febbr. 1492 fu eletto, con voto unanime, ambasciatore a Roma, in occasione della pace fatta dal papa col re di Sicilia Ferdinando I. Prendeva il posto di Girolamo Donà.
Viaggiò con Niccolò Michiel, che andava ambasciatore a Napoli e con lui fece il suo ingresso solenne a Roma il 26 maggio. La sua missione diplomatica acquistò grande importanza quando per la morte di Innocenzo VIII s'aprì la successione al soglio pontificio, in un momento nel quale la pace e la libertà d'Italia erano esposte a gravi rischi. Il C. si faceva lodare per la prudenza con la quale professava l'imparzialità della Repubblica, ma anch'egli partecipava al segreto gioco delle offerte e delle alleanze, complicato dalla questione sorta per il patriarca Maffeo Gerardo. In un primo tempo la Signoria aveva cercato di trattenere l'alto prelato, adducendo l'età avanzata, in realtà per sfiducia, ma più tardi adottò un fermo atteggiamento, fino a minacciare di non riconoscere l'elezione del papa, quando apprese che, evidentemente per ostilità a Venezia, lo si voleva escludere dal S. Collegio col pretesto che non si trovava la lettera della sua nomina a cardinale. Ciò bastò perché infine la lettera saltasse fuori.
La vittoria del Borgia, anche se non rappresentò uno scacco diplomatico, fu certo poco gradita ai Veneziani, che avevano in conclave tre cardinali, uno dei quali - Giovanni Michiel, del resto come i genovesi Fregoso e Pallavicino - s'era lasciato adescare con dignità e prebende, ma essi l'accolsero senza prevenzioni e inviarono a prestare omaggio al nuovo pontefice quattro ambasciatori straordinari, i quali arrivarono a Roma il 6 dicembre e secondo le istruzioni del Senato operarono sempre di concerto col Cappello.
Il Burckard descrive numerose cerimpnie solenni alle quali il C. prese parte, spesso in posizione di privilegiato dell'onore di porgere l'acqua al papa per le lavande rituali. Gli toccò il primo posto anche quando il 10 giugno 1493 il corpo diplomatico andò ad accogliere a porta del Popolo l'ambasciatore turco. Alla fine del 1492 fu incaricato di prendere contatto con i rappresentanti portoghesi a Roma per esporre i motivi del divieto posto alle marine straniere di caricare vini a Candia: la riserva di questo traffico alla bandiera veneziana non era diretta contro il re del Portogallo o altri principi amici, ma era stato un provvedimento inevitabile, per dare incentivo alla costruzione di navi di grosso tonnellaggio, così necessarie alla difesa della Cristianità.
Ma l'attività diplomatica del C. si concentrò soprattutto nella conclusione di un nuovo accordo con Milano e con la S. Sede, che in un primo momento trovò titubante Venezia, dubbiosa sull'opportunità di modificare con altri patti il difficile equilibrio politico italiano. Quando la crisi o l'inerzia di talune alleanze la indussero a un ripensamento, il 9 apr. 1493 il C. ebbe l'incarico di negoziarlo, a tutela delle potenze interessate e della pace in Italia.
Il trattato, che fu stipulato nella "camera nova" del palazzo apostolico dal papa, dall'ambasciatore veneziano e dal cardinale Ascanio Maria Sforza Visconti, aveva carattere difensivo con l'invito ad aderirvi rivolto a tutti gli Stati italiani. Annunziando la sua pubblicazione, un breve pontificio del 25 aprile ne vantava il potere intimidatorio sui Turchi, e una clausola aggiuntiva sottoscritta dal papa e dal C. assicurava a Ludovico il Moro la sua posizione nel ducato di Milano, ma già qualche giorno dopo, apprendendosi che il re di Francia s'accingeva a rivendicare il Regno di Napoli, si venne a creare una situazione nuova, che riproponeva in altri ben più gravi termini i problemi che s'era creduto di risolvere. La lega poteva dirsi superata, tuttavia l'11 giugno 1493 il C. ricevette istruzioni perché vi fosse ammesso anche il duca di Ferrara.
Il C. non ebbe la ventura d'assistere alla catastrofe ormai imminente perché la morte lo colse a Roma il 24 ag. 1491, mentre era ancora in carica. Nell'ufficio gli successe Paolo Pisani, il quale raggiunse la sede il 19 dic. 1493. La salma del C. fu trasportata a Venezia, ma non è certo se sia stata inumata a S. Elena, la chiesa che si fregiava dell'arca del padre.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Senato, Terra, 29 apr. 1480; Ibid., Senato, Mar, reg. 11, c. 157; Ibid., Senato, Secreta, reg. 30, c. 135; reg. 34, cc. 110, 125, 127v-128, 131v, 135v, 138v, 140; Ibid., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 25, c. 113; Ibid., Capi del Consiglio dei Dieci, Lettere, f. 6, nn. 369-70, 372-73, 379-80; Ibid., M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, pp. 261, 269; Ibid., G. A. Cappellari Vivaro, Campidoglio veneto, I, c. 687; D. Malipiero, Annali veneti dall'anno 1457 al 1500, a cura di F. Longo-A. Sagredo, in Archivio storico italiano, VII (1844), pp. 671, 681 s., 715-18; M. Sanuto, Diarii, II, Venezia 1879, coll. 723, 739; IX, ibid. 1883, col. 529; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, V, Venezia 1901, pp. 323-329; I. Burchardi Liber notarum ab anno 1483 usque ad annum 1506, in Rerum Italic. Script., 2 ediz., XXXII, 1, a cura di E. Celani, pp. 359, 374, 414, 416, 441, 447, 455; I. Zabarella, Il Pileo, ov. nobiltà heroica et origine gloriosissima dell'ecc. famiglia Capello, Padova 1670, p. 24; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni veneziane, III, Venezia 1842, p. 375; G. B. Picotti, Giovanni de' Medici nel conclave per l'elezione di Alessandro VI, in Arch. della Soc. rom. di storia patria, XLIV (1921), pp. 95, 97, 136, 140; F-C. Lane, Venetian Bankers 1496-1533, in Venice and History, Baltimore 1966, pp. 71, 75; F. Ferrara, Gli antichi banchi di Venezia, Palermo 1970, pp. 35, 43 s.; M. Brunetti-G. Orlandini, I banchi privati a Venezia, s. l. né d., pp. 78 s.