amore
Processo di integrazione di istanze pulsionali ed emotive in grado di stabilire legami intersoggettivi che possono anche travalicare il rapporto diadico. Se dal punto di vista della biologia evolutiva l’a. si configura come un sistema innato, la cui espressione è influenzata da segnali di natura sociale, i diversi approcci delle scienze umane insistono sul suo carattere di «emozione primaria» che non può essere spiegata come conseguenza di altri sentimenti o motivazioni. Variamente connotato come ἔρος (trasporto, passione che coinvolge la totalità della persona), come φιλία (benevolenza e reciprocità) o come ἀγάπη (altruismo, fratellanza), l’a. è un tema ricorrente nella storia della filosofia occidentale, oggetto volta a volta di speculazioni cosmologico-metafisiche e teologiche, riflessioni etiche, teorizzazioni psicologiche e sociologiche.
Nella tradizione filosofica occidentale il concetto di a. (φιλία, φιλότης) fa la sua prima apparizione con Empedocle, che lo contrappone, come principio cosmico, all’antitetico principio dell’Odio (νεῖκος), interpretandolo come forza attrattiva che nella fase culminante del ciclo cosmico, lo «sfero», ricostituisce progressivamente nella più completa armonia l’unità degli elementi disgregati dal principio repulsivo dell’odio. Su questo concetto di φιλία («attrazione, amicizia») vertono le analisi platoniche giovanili del Liside, da cui nasce la concezione dell’eros, in seguito largamente svolta nel Simposio (➔) e nel Fedro. Nel primo l’attenzione è focalizzata sull’oggetto dell’a., ossia la bellezza, di cui vengono stabiliti gradi gerarchici, laddove il Fedro considera l’a. nella dimensione soggettiva, ossia come aspirazione verso la bellezza e come elevazione progressiva dell’anima al mondo dell’essere cui la bellezza pertiene. Nel Simposio, prendendo le mosse dal mito degli esseri primitivi composti di uomo e donna (androgini), divisi dagli dei per punizione di due metà di cui l’una va incessantemente in cerca dell’altra per ricostituire l’unità primitiva, Platone arriva a individuare uno dei caratteri fondamentali dell’a.: esso è in primo luogo mancanza, bisogno, aspirazione dell’imperfetto verso il perfetto. Secondo il mito difatti Eros è figlio di Povertà (πενία) e Acquisto (πόρος), non è un dio ma un δαίμων, mezzo dio e mezzo uomo; dunque non ha la bellezza ma la desidera, non ha la sapienza ma aspira a possederla, e in questo senso è la personificazione del filosofo, che ama appassionatamente ciò di cui manca, ossia la sapienza. In secondo luogo l’a. è aspirazione verso la bellezza, il bene che si desidera perché rende felici. Poiché è mortale, l’uomo tende a generare nella bellezza, e quindi a perpetuarsi attraverso la generazione. La bellezza è il fine (τέλος), ossia l’oggetto dell’amore. Platone distingue quindi tante forme dell’a. quante sono le forme del bello, a partire dalla bellezza sensibile fino ad arrivare alla forma suprema, la bellezza della sapienza, il cui a., ossia la filosofia, è di conseguenza il più nobile. Stimolato dalla visione delle forme belle presenti nel mondo corporeo, il filosofo ascende gradualmente alla contemplazione della bellezza in sé. Tale bellezza suprema, che può essere colta da un «affetto» puramente intellettuale, è trascendente rispetto al mondo sensibile, e tuttavia si manifesta in esso attraverso la comunicazione dell’eros. Sentito e realizzato nella sua vera natura, l’a. si fa guida dell’anima verso il mondo dell’essere: i suoi caratteri passionali (desiderio, impulso, delirio) rimangono intatti, ma sono ora subordinati alla ricerca dell’essere in sé, dell’idea, e in questo processo l’eros diventa procedimento razionale, dialettica. L’idea dell’a. come tappa dell’itinerario interiore verso il Bene, ossia verso Dio, sarà ripresa dai neoplatonici, e in particolare da Plotino. Attraverso l’a., difatti, l’uomo si eleva progressivamente alla visione di Dio, in quanto oggetto dell’a. è il bene, e l’Uno il bene supremo, termine ultimo e oggetto ideale di ogni amore. Motivi analoghi ricorrevano nella dottrina teologica e cosmologica di Aristotele: Dio, come ente perfetto, non ama il mondo ma è amato, e lo muove appunto come l’oggetto dell’a. che, attraendo, muove senza muovere; donde il concetto di Dio come motore immobile, largamente ripreso e sviluppato dalla filosofia medievale. Prevale peraltro, in Aristotele, la tendenza ad analizzare l’a. prescindendo da riferimenti metafisici e teologici, come fenomeno puramente umano: in quanto affezione (➔) (πάϑος), ossia modificazione passiva dell’anima, l’a. (φίλησις) si differenzia dall’amicizia (➔) (φιλία) che è invece una disposizione attiva; diversamente da questa può quindi rivolgersi anche a cose inanimate, ed è condizionato e limitato dal godimento della bellezza. Aristotele individua il fondamento dell’a. nella ricerca del piacere e dell’utilità reciproca. Riprendendo l’idea platonica dell’a. come biso-gno, imperfezione o mancanza, Aristotele afferma che all’a. si accompagnano sempre il desiderio e l’eccitazione, la tensione emotiva: l’a. si ha quando si desidera l’oggetto amato quando è assente, e lo si brama quando è presente.
La concezione dell’a. elaborata dalla filosofia e dalla teologia cristiane riprendono, opportunamente modificati e adattati, vari elementi della speculazione platonica e aristotelica, ma vi inseriscono anche motivi nuovi. La principale innovazione apportata dal cristianesimo è costituita dall’interpretazione dell’a. in termini di caritas (ἀγάπη), quale realizzazione del fondamentale precetto dell’etica cristiana «ama il prossimo tuo come te stesso». L’a. diventa un attributo fondamentale della divinità, che ama gli uomini, si fa uomo, soffre e muore per essi. Nel concetto cristiano dell’a. oggetto primario e formale dell’a. è Dio, e in ragione di Dio, oggetto secondario l’uomo stesso, il prossimo, tutto il genere umano, persino i nemici in quanto ci sono fratelli nella umana natura. L’a. nell’accezione di caritas acquista con ciò importanza grandissima nell’etica cristiana. In particolare, s. Paolo insiste sulla superiorità della caritas sulle altre due virtù cristiane, la fede e la speranza, in quanto legame che unisce i membri della comunità cristiana facendo di essa il «corpo di Cristo». La riflessione sull’a. acquista un ruolo di importanza primaria anche nel pensiero di s. Agostino. Egli parte dall’assunto che ciò che porta l’uomo a compiere l’itinerario dal mondo esterno all’interiorità dell’anima alla verità trascen- dente è il desiderio di essere felice (beate vivere), che si realizza nella conoscenza del vero bene. Per conoscere alcunché, però, occorre volerlo, e si vuole ciò che si ama, si cerca per trovare ciò che si ama. Così come il corpo tende con il suo peso al luogo che gli è proprio, allo stesso modo l’a. fa gravitare irresistibilmente l’animo verso l’oggetto voluto e ritenuto buono: «pondus meum amor meus: eo feror quocumque feror» (Confessioni, XIII, 9, 10). Senza a. non vi è movimento, non vi è conoscenza, senza a. buono, cioè rivolto verso un fine che è il bene, non può esservi felicità. Nel De Trinitate Agostino introduce l’a. nella stessa essenza divina, identificandolo con lo Spirito Santo: Dio padre, nel pensare, genera interiormente la propria sapienza o Verbo; una relazione d’a. lega la mente pensante al suo logos; allo stesso modo nell’uomo il pensiero (mens), la conoscenza (notitia) e l’a. (amor) sono tre funzioni distinte ma strette nell’unità di uno stesso spirito e pensabili solo in relazione reciproca: non si può infatti conoscersi senza amarsi, né amarsi senza conoscersi; né conoscersi e amarsi fuori dal pensiero. La nozione di a. assume una peculiare centralità anche nella teologia della storia delineata da Agostino nel De civitate Dei (La città di Dio) (➔). Due amori hanno costruito due città: l’a. di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’a. di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste. Come per il singolo, anche per l’uomo in generale vale la possibilità di determinarsi attraverso la scelta dell’oggetto d’a: di perdersi nell’a. inordinatus o di elevarsi nell’a. consapevole dell’ordine del mondo. Questi motivi agostiniani verranno ripresi e sviluppati nella scolastica medievale soprattutto da Scoto Eriugena e da Duns Scoto. Quest’ultimo, in particolare, sviluppa il discorso agostiniano sulla Trinità, affermando che Dio genera il Verbo conoscendo la sua propria essenza ed esala lo Spirito Santo amando questa essenza, dimodoché l’a. eterno è l’origine di ogni comunicazione dell’essenza divina. Un rilievo centrale assume il tema dell’a. nella speculazione dei mistici, soprattutto dei maestri ‘vittorini’ (specialmente Riccardo) e s. Bernardo. Entrambi considerano come a. perfetto quello di benevolenza e di amicizia, sicché l’a. basta a sé stesso anche senza il possesso; inoltre descrivono (Riccardo attraverso i quattro gradi: invincibile, torturante, esclusivo, insaziabile) l’a. di Dio che spinge l’amante a «uscire di sé» e diventa violento e «forte come la morte» (Bernardo). La scolastica aristotelica dal canto suo riprenderà, adattandole, le considerazioni di Aristotele sull’amicizia per caratterizzare l’a. nell’accezione cristiana della caritas. Così s. Tommaso identifica quest’ultima con l’a. intellettuale, e lo definisce come «amicizia dell’uomo verso Dio», intendendo l’amicizia in senso aristotelico come a. associato alla benevolenza e alla reciprocità.
La speculazione teologica sull’a. trova una nuova formulazione nel neoplatonismo rinascimentale, che pone però un nuovo accento sulla reciprocità dell’a. tra Dio e l’uomo. In particolare Marsilio Ficino, riprendendo la teoria dell’eros platonico, interpreta l’a. come attività che connette reciprocamente Dio e il mondo: Dio forma e governa il mondo per un atto d’a., e per a. il mondo tende verso di lui. Dio è soggetto oltre che oggetto d’a., e in questo modo l’a. viene ad assumere il significato di spiegazione del processo di derivazione della molteplicità dall’Uno e di redenzione del finito. Per Leone Ebreo l’a., forza cosmica viva in tutti gli esseri, nell’uomo ha di nuovo il compito, indicato da Platone, di far ascendere l’anima nostra «dalle bellezze corporali ne le spirituali, e conoscere per l’inferiori sensibili, le superiori bellezze intellettuali» (Dialoghi d’amore, III). Anche nel naturalismo rinascimentale il concetto di a. viene riproposto come forza metafisica e teologica: una forza «eroica» e «magica» che pervade e spesso viene identificata con il creato stesso, con il suo ordine e le sue corrispondenze segrete. Così per Bruno l’a. è «eroico furore» delle anime grandi, rapimento per la bellezza divina, che traluce nelle bellezze sensibili. Tommaso Campanella dal canto suo include l’a. fra i principi costitutivi del mondo («primalità»), accanto alla «possanza» (potere) e al «senno» (sapere). In ogni primalità, il rapporto di un essere con sé stesso precede quello con l’altro: così si può conoscere e amare l’altro essere, solo se si ama e si conosce sé.
Nel pensiero posteriore l’analisi del concetto di a. tende a trasferirsi sempre più sul piano della dottrina delle passioni e dell’etica, abbandonando quello della teologia e della metafisica. Sia il razionalismo sia l’empirismo analizzeranno quindi l’a. in termini di emozione o di affetto, associando a esso perlopiù un fondamento sensibile. Così Cartesio nella sua analisi fenomenologica delle passioni definisce l’a. come un’emozione dell’anima prodotta dal movimento degli spiriti vitali. Nelle minute analisi cui i teorici inglesi del sentimento morale sottopongono gli affetti umani l’a. dell’uomo per l’uomo è, per Hutcheson, così generale da potersi paragonare alla gravitazione universale; similmente per Hume la benevolenza è innata e naturale negli uomini. Non a., ma dovere è per Kant la moralità: sebbene l’a. prescritto dalla morale evangelica sia, per la sua universalità e obbligatorietà, qualcosa di diversissimo da quel comune sentimento che si dice amore. Anche Spinoza interpreta l’a. come «affezione dell’anima» (passio), e più precisamente come letizia accompagnata dall’idea di una causa esterna, giacché la gioia, non appena consapevole della causa che l’ha provocata, si muta in a. verso tale causa: «Amor est laetitia concomitante idea causae externae» (Ethica, III, Affectuum definitiones, IV). Ma in Spinoza è presente anche il tentativo di coniugare la teologia cristiana dell’a. con la teologia greca della perfezione contemplante, che trova espressione nella concezione dell’amor dei intellectualis. Come la più alta letizia umana è la contemplazione intellettuale della necessità naturale di tutte le cose, che per Spinoza è Dio, tale gioia si muta in a. per la sua causa: «Ex tertio cognitionis genere [cioè la conoscenza intellettuale] oritur necessario amor Dei intellectualis» (Ethica V, prop. XXXII, cor.). In quanto visione di tutte le cose nel loro ordine necessario, ossia in quanto derivate con eterna necessità dall’essenza stessa di Dio, l’a. diventa pura contemplazione di Dio: e poiché la mente che contempla Dio non è che un attributo della divinità, l’a. intellettuale finisce con l’identificarsi con l’a. che Dio ha di sé stesso.
Il nesso inscindibile tra la nozione di a. e l’unità di finito e infinito diventerà uno dei temi centrali della filosofia romantica. Anche quando si rivolge a oggetti finiti, l’a. riesce a coglierli come manifestazioni o simboli dell’infinito, ossia dell’assoluto o Dio. Come desiderio dell’infinito, ossia di Dio, l’a. può trovare appagamento nel finito, nelle creature del mondo. L’espressione più compiuta di questa concezione si trova in Hegel, il quale vede nell’a. l’espressione dell’unità di sé con l’altro, l’identificazione del soggetto con l’altra persona: un sentimento per cui due esseri non esistono se non in una unità perfetta e pongono in tale identità il mondo interno. E questa rinuncia a sé stessi per identificarsi con l’altro, questo abbandono in cui il soggetto ritrova però la pienezza del proprio essere costituisce per Hegel il carattere infinito dell’amore. In questo senso la morte di Cristo rappresenta l’a. più alto, in quanto esprime l’identità del divino e dell’umano, ponendosi con ciò come intuizione dell’unità nel suo grado assoluto. La concezione romantica dell’a. come sentimento dell’unità cosmica, come forza unica e totale ritorna, con accenti e modalità diverse, anche in autori e correnti di pensiero estranei al romanticismo. Così Schopenhauer opera una distinzione tra l’a. come eros e l’amore puro, inteso come caritas. Il primo non è che l’emozione di cui si serve il «genio della specie» per favorire la propria propagazione e perpetuazione, ed è quindi espressione della cieca «volontà di vivere», laddove l’a. puro, o caritas, si identifica con la compassione per il dolore altrui, diventando quindi un processo di identificazione con il dolore cosmico, il dolore della stessa volontà di vita. L’idea dell’a. come unità e identità si ritrova in Feuerbach, che lo intende come unità di Dio e dell’uomo, dello spirito e della natura, e ne delinea l’estensione progressiva cheha come suo termine ultimo l’umanità nel suo complesso. E sull’a. esteso a tutta l’umanità si fonderanno le riflessioni etiche dei positivisti, in specie Comte e Spencer. All’inizio del 20° sec., partendo dalla prospettiva intenzionalista della filosofia fenomenologica (Brentano), che interpreta le emozioni come fenomeni intenzionali, ossia come modalità della relazione soggetto-oggetto e come percezione di significati, Scheler porrà al centro della sua filosofia una concezione dell’a. come rapporto essenziale della persona umana con il Dio-persona. Su questa centralità della persona e dell’a. si fonda anche la sociologia di Scheler, volta al recupero di quei valori di corresponsabilità e di solidarietà sui quali soltanto è possibile sviluppare una «comunità personale» autentica.
Significativi contributi allo studio dell’a. come forma specifica di interazione e come istanza affettiva-pulsionale saranno offerti dalla sociologia e in misura maggiore dalla psicologia, progressivamente sviluppatesi e specializzatesi a partire dalla seconda metà del 20° sec. come discipline autonome. Per quanto riguarda la sociologia, si segnalano in particolare il contributo dello struttural-funzionalismo nella sofisticata versione di N. Luhmann, che interpreta l’a., assieme al potere e al denaro, come medium simbolico di comunicazione nella sfera delle relazioni interpersonali, e quello della teoria dei ruoli, che analizza l’a. focalizzando l’attenzione sul processo di strutturazione socioculturale e sulla dinamica dei modelli di ruolo maschili e femminili. È comunque principalmente nell’ambito della psicologia che viene sviluppata la riflessione sull’a. quale emozione o sentimento primario che si manifesta nella forma di bisogno immediato o di pulsione. Fondamentale importanza hanno in questo campo le teorie di Freud, variamente riprese e declinate dalle diverse scuole psicanalitiche. Nel pensiero freudiano l’a. è interpretato come specificazione e sublimazione di una forza o pulsione istintuale originaria, la libido. Nettamente distinta dall’eccitamento sessuale somatico, la libido rappresenta l’aspetto psichico della pulsione sessuale. La libido può essere libera come nel processo primario, dove fluttua disancorata da vincoli da rappresentazione a rappresentazione, oppure legata o controllata come nel processo secondario, in cui viene riversata in forme più o meno permanenti verso determinati oggetti. Può inoltre investire un oggetto esterno all’individuo (libido oggettuale) o l’individuo stesso (libido dell’Io o narcisistica). Dalla libido, secondo Freud, si sviluppano le forme superiori dell’a. attraverso i due meccanismi dell’inibizione, che ha la funzione di contenere e immobilizzare le manifestazioni della libido nei limiti compatibili con la conservazione della specie, e da cui derivano le emozioni morali (vergogna, pudore, ecc.), e della sublimazione, un processo che trasforma l’energia della pulsione sessuale desessualizzandola e deviandola verso mete non sessuali diverse da quelle originarie, usualmente valorizzate dalla società. Postulando tale processo, Freud dimostra il sussistere di una relazione tra la dimensione sessuale e tutte le attività umane, in particolare l’attività artistica, intellettuale e religiosa. Tutte le forme superiori dell’a. non sono, secondo Freud, che sublimazioni della libido inibita. Nella elaborazione più matura della sua metapsicologia, in particolare in Jenseits des Lustprinzips (1920; trad. it. Al di là del principio di piacere), Freud arriva a una concettualizzazione dell’a. come principio speculativo-cosmogonico (Eros), che comprende tanto le pulsioni sessuali quanto le pulsioni di autoconservazione, finalizzate all’instaurazione e alla conservazione della «unità del vivente». Coesistenti e in perenne conflitto con tale principio sono le «pulsioni di morte» (per designare le quali lo psicanalista P. Federn introdusse nel 1952 il termine greco Thanatos), in cui sono ricomprese le pulsioni di aggressione e quelle di distruzione che rappresentano la tendenza di ogni vivente a tornare al proprio stadio originario inorganico e a ripristinare lo stato di inerzia e di annullamento delle tensioni. Richiamandosi al mito platonico dell’androgino narrato da Aristofane nel Simposio, Freud arriva a concludere che anche le pulsioni dell’Eros sono pulsioni regressive: la loro spinta a unire ciò che è diviso e a formare nuovi esseri viventi si identifica con la spinta a ripristinare un’unità primordiale perduta.