CONTARINI, Alvise
Terzo dei tre figli maschi di Nicolò (1563-1648) di Bertuzzi, del ramo contariniano detto (per i ferrei battenti della porta d'ingresso del palazzo in salizzada di S. Giustina) di Porta di ferro, e di Elena di Alvise Michiel, nonché nipote del futuro doge Francesco Contarini, nacque, il 24 ott. 1601, a Venezia o - come induce a supporre la mancata registrazione nel Libro d'oro da parte degli avogadori di Comun - "in villa".
Agevolato da una serena situazione patrimoniale - risulta, infatti, beneficiario, col fratello Giovanni (1600-1675) soltanto, ché l'altro, Francesco (1599-1622), è scomparso da un pezzo, nel 1661 d'una rendita di 5.300 ducati -, il C. può impiegare tutta la sua prolungata esistenza nell'attività pubblica alla quale concorre a renderlo ulteriormente disponibile anche la sua posizione di scapolo sgombro da diretti impegni familiari. Al di là delle molte e varie incombenze - fu, tra l'altro, correttore delle leggi, riformatore dello Studio di Padova, savio alla Mercanzia, inquisitore dell'Armata, savio del Consiglio -, la sua figura si connota soprattutto nelle missioni diplomatiche. Eletto, il 6 giugno 1631, rappresentante veneto in olanda, si mette in viaggio alla fine di novembre: toccate Bergamo e Como, raggiunge Basilea e di qui, munito d'un passaporto svedese, si porta a Magonza, imbarcandosi alla volta di Rotterdam, ove arriva il 27 dicembre. Ed è del 4 genn. 1632 l'"ingresso" alla corte dell'Aia. Il C. scruta i "passi di concerti o d'intendimenti" franco-svedesi, nonché "quello che operi" il principe palatino; invia frequenti "avisi", utili al Senato che li definisce "molto curiosi et degni d'attenzione", su quanto viene a sapere delle operazioni militari perseguite dalla Svezia; esamina i rapporti franco-olandesi, apprende via via le condizioni della "lega". Sprona, altresì, con accorti "eccitamenti", Federico Enrico d'Orange-Nassau all'uscita "in campagna" e ad un'intensificata aggressività essendo interesse di Venezia la Spagna non abbia sollievo; si congratula, di conseguenza, fervidamente per ogni successo, dalla "gloriosa" e "memorabile" presa di Maastricht all'acquisto a "viva forza" di Rhinberg; e, nel contempo, preme sullo ambasciatore francese purché s'adoperi senza risparmio per "stornar le tregue", agognate - rileva preoccupato - dai "deputati delle città", laddove, invece, la Compagnia delle Indie Occidentali non vuole restino "infruttuosi" i capitali investiti in "vasselli da guerra" e nell'assoldamento d'equipaggi. Né al C. sfugge la tensione divaricante tra la diffusa richiesta d'una diminuzione degli effettivi e la determinazione dello statolder di disporne, al contrario, abbondantemente "per poter uscire... in campagna"; e riporta, pure, le lamentele dei"principali della provincia d'Olanda" perché il peso della guerra non viene equamente distribuito su tutte le "provintie". Compito, infine, del C. salvaguardare gli interessi mercantili della Serenissima: una nota positiva è rappresentata dalla propensione d'un gruppo di mercanti di Amsterdam, ad un grosso ordinativo di "sali" istriani, mentre preoccupa la notizia della attesa ad Ancona d'un paio di navigli olandesi carichi di merce, a "pregiudicio" del dominio del golfo e della connessa pretesa di convogliare a Venezia ogni traffico.
Nominato, ancora il 29 sett. 1633, ambasciatore in Francia, il C. si congeda quasi un anno dopo e salpa, il 19 sett. 1634, da Rotterdam per Anversa, donde raggiunge "privatamente" Parigi il 2 ottobre facendovi, il 21, l'ingresso solenne.
Rigidamente prefissato il quadro entro il quale il C. opera: da un lato Richelieu insiste per coinvolgere Venezia in una lega mirante alla conquista del Milanese; dall'altro questa sguscia di fronte ad ogni parvenza d'impegno vincolante continuando, peraltro, a professarsi amicissima della Francia e a vantare, con enfasi, il presidio da lei mantenuto a Mantova. Al C. non resta, per sottrarsi a sollecitazioni imbarazzanti, che destreggiarsi con discorsi calorosi nel tono e generici nel contenuto, sventando, altresì, l'insidiosa e acrimoniosa animosità antiveneziana dell'influente e intrigante pèreJoseph. Deve infatti, così il Senato, regolare parole e "sensi conforme a quelli che scoprirà" nel re e nel cardinale; lusingarli, insomma, e assecondarli evitando, però, formulazioni precise. Nel contempo, visto che Urbano VIII ha offensivamente contestato la giurisdizione adriatica, deve convincere entrambi delle secolari ragioni di questa. Certo che la riluttanza della Serenissima a lasciarsi invischiare in qualsiasi forma di schieramento la pone ai margini della storia europea; paventa perciò d'essere scavalcata dal frenetico attivismo della diplomazia francese. Urge sia, almeno, informata. Donde i pressanti ordini al C. di star "attento" a "tutto quello che si tratti et disegni" sia in fatto di "mosse d'armi" come di "parentadi" e "matrimonii"; "penetri" nei "maneggi", gli si scrive ripetutamente; "indaghi", gli si raccomanda, entri "quanto più al fondo sia possibile", s'inoltri sino all'"essenza". Perché il duca di Mantova s'è spostato a Casale e vi si trattiene? è vero che si sposerà con la "sorella di quel di Parma"? è, per caso, protetto dalla Francia il "prencipe di Correggio"? quale l'"oggetto" preciso della "speditione" in Italia del signor Bellièvre? con che "ordini" François-Annibal d'Estrées è inviato ambasciatore straordinario a Roma? quali "intelligenze" sta tramando la Francia? è vero che il re concederà il "corseggiare" a danno della Spagna? Incalzanti interrogativi cui il C. risponde come può. Ora lo preoccupa l'andirivieni d'agenti degli Stati italiani ("è arrivato... gentilhuomo del duca di Parma", "gionse gentilhuomo del duca di Savoia"), ora insegue voci d'accasamenti volti a puntellare l'espandersi dell'influenza francese (si parla di nozze della secondogenita del duca di Mantova col principe di Neuburg, scrive, eccitato, il 13 febbr. 1635), ora s'ingegna d'interpretare ricorrenti dicerie di permute.
Ma è ancor più faticoso fronteggiare le irritate bordate di Richelieu, giustificare, senza esasperarlo, la posizione di Venezia, avvolgerla, alla meglio, nei panni nobilitanti di roccaforte della libertà italiana. "È necessario che la Repubblica s'imbarchi ancor lei per non ricever il biasimo di tutti", l'investe brusco Richelieu nell'agosto del 1635; al che il C. ribatte che la sua patria o era unitissima con Sua Maestà e faceva per la libertà d'Italia quanto poteva". Una replica reticente, ché tanta armonia con la Francia non si traduce in termini operativi. Indubbiamente il C. è più a suo agio quando, smessa la veste impacciante e costrittiva del difensore d'ufficio di una politica estera suscettibile d'accuse di incoerenza, si dilunga in informazioni sulle vicende belliche del teatro renano nel loro alternarsi di penetrazione e arretramenti. Ed i suoi dispacci sono sostanziosamente dettagliati laddove registrano i vari "abboccamenti" di Luigi XIII coll'irrequieto e velleitario duca d'Orléans e le varie tappe della complicata faccenda della "dissolutione" del matrimonio di questo, oppure quando colgoncr momenti di dissapore e segni di "mala intelligenza" tra sovrano e primo ministro. E il C. sa pure guardare oltre le tortuose rivalità e gli splendori mondani della corte ove lo stesso re escogita balletti cui partecipa vestito in varie fogge, sino a scorgere le difficoltà di funzionamento della macchina statale, sino a sentire le voci esprimenti gli umori dei sudditi. Annota le "entrate" incluse quelle, ingentissime, derivanti dalla vendita delle cariche, calcola le spese di guerra, senza ignorare, però, il "risentimento de' popoli" per le inasprite "gravezze". Le "militie si vanno sempre augumentando", scrive il 20 marzo 1635, "onde beri presto li fanti saranno 150 mila, forze non più vedute nel regno"; ma serpeggia pure lo stridulo controcanto delle "mormorationi, alcuni lasciando uscir concetti che le cose non possono star così, minacciando qualche rivolta". Dei Parlamenti, quale quello di Tolosa, "per impedire la sollevatione di tutta la provincia", bloccano le imposizioni regie d'ulteriori "gabelle".
Nominato, il 7 giugno 1637. suo malgrado (dopo sei anni "continui" di "travagliose e dispendiosissime ambascerie" sperava nel rimpatrio che desse "modo a me et alla mia casa di respirare"; paventa, altresì, "non essendo la mia complessione delle più forti", lo sbalzo del mutamento di "clima"), rappresentante in Ispagna, il C. si congeda, dopo l'insediamento del successore, l'8 febbr. 1638 e si sposta, con "lungo e penoso viaggio", direttamente a Madrid. Raggiuntala il 26 marzo, vi rimane sino al 9 luglio 1641.
Qui le istruzioni senatorie dispongono colga gli orientamenti spagnoli in merito al "negotio... rilevante" di Mirandola, individui "quale motivo negli animi et nelle deliberationi sia per produrre" l'andamento sfavorevole della guerra, vigili sulle eventuali "trattationi di novità nel Mantovano", sempre insistendo - nel contempo - sulla convinzione propria di Venezia debbasi "per ogni parte facilitare, con la quiete" d'Italia, "la pace universale". Un ritornello, questo dell'"ottimo fine della quiete", che si concreta, da parte del C., nell'insinuare, ogniqualvolta possibile, la "necessità" d'aprirle un varco, intanto, con qualche forma di "sospensione" e di tregua. Persistono, negli ambienti di corte, "dissegni" voraci sull'Italia, a "pregiudicio" dei "principi" e della "libertà" stessa della penisola, di cui il C. - peraltro angosciato dall'irregolarità nel recapito della corrispondenza che lo fa sospettare "mi trattenghino qua li miei spazzi" - è informato grazie, anche, agli "avvisi secreti" trasmessigli da un suo "confidente", che giunge persino, sino a quando non sarà arrestato, a passargli "il contenuto delle lettere" del conte della Rocca, l'ambasciatore spagnolo a Venezia. Ma ormai la monarchia ispanica è ansimante, i suoi progetti aggressivi sono meno temibili d'un tempo. li C. se ne rende conto: nel rischio continuo del collasso finanziario attende ogni anno, con "ardente brama", l'ossigeno della "flotta dell'Indie coll'argento"; terribile divampa l'insurrezione catalana, la inquietudine dilaga nei contigui regni di Valenza e d'Aragona, "et in fine - così il C. il 21 luglio 1640 - non mancano mal contenti per tutta la Spagna". S'aggiunge, come informa il 4 dicembre, "uno delli maggiori disastri": a Lisbona la "nobiltà" e il "popolo sollevatisi" relegano in convento l'infanta, Margherita e offrono la corona al duca di Braganza. Una sommovente vampa di ribellione - quella catalana e portoghese - sconcertante per l'ottica pertinacemente legalitaria del C.: Giovanni di Braganza resta per lui il "preteso re"; il rifiuto catalano di chiedere umilmente "perdono" è impudente, intollerabile.
Ciò non gl'impedisce - una volta a Venezia - d'offrire, con la relazione del 10 dic. 1641, un saggio di penetrante comprensione, quasi l'anatomia dello Stato ove ha avuto modo di sperimentare la rarefazione dei generi di prima necessità, lo svilimento della moneta, la fame diffusa nelle città e nelle campagne. Un mastodontico organismo è in preda a gravissima crisi; il "gran corpo... travagliato vicino al cuore" è, pure, incapace di "difendere li suoi spiriti vitali alle più esterne parti". Una monarchia "amplissima et molto estesa"; ma nelle colonie americane gli indigeni muoiono per il "mal trattamento", nel centro v'è la desolazione della Castiglia spopolata e incolta. Un "dominio" troppo "dilatato" che costringe alla repressione e alla guerra, anche se la Corona è "difettiva di genti e soldati", anche se mancano gli equipaggi per la flotta. Un'esiziale "penuria" di materiale umano, malgrado la "milizia" sia imposta con la "violenza", malgrado la brutalità del reclutamento forzato che toglie braccia preziose alla languente produzione agricola. "Afflitti" ed "esausti" i sudditi dalla grandine delle continue tasse escogitate per tamponare la voragine delle spese belliche e le falle di quelle "superflue" dovute al re che, scriteriato, continua imperterrito a far "dorare e abbellire" la reggia. Pessima l'amministrazione ché i "ministri" sono "rapaci", malversatori; "rilassata e corrotta" la giustizia, specie per la corriva indulgenza degli "alcadi" nei confronti degli autori di "gravissimi delitti". Istruttivo il trionfo della rivolta in Portogallo, una lezione esemplare che s'impone alla meditazione dei "principi savi". È pericoloso "inasprir" i governati sino ad indurli all'"ultima disperazione"; nell'"animo" d'un "popolo adirato e offeso il desiderio della vendetta e della novità" possono essere scatenanti. I sudditi privi di giustizia "se la fanno da loro medesimi, con total danno e rovina di chi governa". Su questo fondo cupo si muove, futile comparsa, Filippo IV, totalmente in balia d'Olivares che dispone addirittura come debba vestire. È quest'ultimo che "gira e muove" la "gran macchina" dello Stato: involuto e contorto, "tardo al moto", ma pur sempre torturato da smisurati "disegni" e perciò "atto a sconvolger il mondo". Barcollante e corroso il colosso ispanico, ma suscettibile - finché lo dirige il conte duca - d'imprevedibili sussulti: "faranno molto bene le Eccellenze Vostre - conclude il C. rivolto al consesso senatorio - a star vigilanti" nella custodia delle "piazze" lombarde ché gli Spagnoli, "come credono di poter fare un bel colpo, non lo risparmiano ad alcuno", a costo di dar esca a rovinosi conflitti. Amante di "novità", bramoso di "gloria", odiatore furente dei Francesi, lo Olivares - rammenta il C. - ha ben attizzato l'incendio distruttivo della guerra di Mantova.
Deputato, nel settembre del 1642, ad accogliere l'ambasciatore spagnolo Gaspaio de Tebes si d'acclimatarlo a Venezia prima dell'ingresso ufficiale del 1° ottobre, il C., il 18 febbr. 1645, viene eletto rappresentante a Roma. Partito il 27 settembre, v'arriva il 12 ottobre e, fatto l'"ingresso publico" il 18, vi risiede sino al 9 aprile del 1648.
In secondo piano, nell'incubo dei virulento attacco turco, le solite questioni - tipiche dei rapporti tra Venezia e Roma - dal conferimento dei vescovati e benefici ecclesiastici in "persone confidenti" della Serenissima alla possibilità di "libera estrattion" delle "entrate" da parte dei sudditi veneti possessori di "beni nella Romagna", dalle controversie confinarie (tra le quali rientra una "rotta alli argini del Po" provocata, nel 1647, dai Ferraresi) ai sequestri, contestati dal papa, d'imbarcazioni dirette, in genere, da Ragusa ad Ancona. Problemi tutti un tempo forieri di gravi attriti ma ora attenuati, se non altro perché Venezia - unica protagonista della lotta antiottomana - esige un trattamento di favore, ritiene a lei dovuti particolari riguardi. Indicativo che il C. debba dare per scontata la "concessione" - con apposito breve - delle decime, mettendo, altresì, in chiaro che a questa vanno aggiunti, ben distinti, i "sussidi estraordinari". Sintomatico pure come il ruolo - vantatissimo - di propugnacolo della fede acuisca a tal punto la commistione., sempre presente nella Repubblica, di religione e patriottismo da intensificare, tramite il C. (che, obbediente, si prodiga con "molti impulsi" in tal senso), le esplicite pressioni per la ripresa del "negotio della canonizatione" del beato Lorenzo Giustinian; e il C. è pure tenuto a non lasciar "cadere" il contemporaneo "affare" della beatificazione di Girolamo Miani. L'eroica opposizione alla Mezzaluna esige la scorta d'un più nutrito manipolo di santi e beati veneziani i Incentrato sulla guerra di Candia - cui si rapportano le insistenze per la sollecita partenza della "squadra" di Niccolò Ludovisi, la cura per l'agevolata effettuazione in terra pontificia di "levate" per conto della Serenissima, l'attenzione per il rapido imbarco ad Ancona di truppe destinate alla Dalmazia, le richieste di "estrattione" d'ogni sorta di "viveri" per la "armata" - il grosso delle fatiche romane del Contarini. Suo obiettivo precipuo - in una cornice di martellante drammatizzazione dello scontro in atto, d'accalorato ribadimento di come "infelici avvenimenti" quali la caduta della Canea e di Rettimo si debbano alla soverchiante "prepotenza formidabile" nemica - sensibilizzare il pontefice, coinvolgerlo nella lotta condotta da Venezia. "Padre e capo supremo della christianità", su lui poggiano le speranze d'una "pace generale" in Europa che sia premessa d'una guerra a fondo della Cristianità unita alla Porta. Nel pericolo che Venezia corre della "total oppressione", non va, altrimenti, escluso debba arrendersi; ma, allora, "la colpa caderà sopra quelli che, privi di sentimenti di carità anco verso se medesimi, ci hanno lasciati esposti a tutti i colpi". Dovere, perciò, immediato d'Innocenzo X - da assolvere contemporaneamente all'assiduo intervento mediatorio per la ricostituzione della concordia o, quanto meno, per arrivare ad una "tregua" che a quella preluda - la fornitura costante, tempestiva di "vigorosi soccorsi".
Ma il C. ha un bel rievocare la memoria di Pio V. Gli aiuti sono scarsi, centellinati, sottoposti a condizioni; ai suoi appelli accorati il papa contrappone il dato delle finanze "esauste". Quando il C. caldeggia un sostanzioso esborso per la "diversione de' cosacchi" - che Venezia s'era impegnata a sostenere finanziariamente -, egli si dice disposto a contribuire, al più, con 20 mila ducati; esterrefatto di fronte ad una cifra così ridicola il C. non manca di ammonirlo. "Non v'è principe - gli ricorda - che habbia", quanto lui, "più pronti et espliciti modi di munirsi di grosse somme"; né v'è modo migliore d'usarle che "nella diffesa de' suoi fedeli contro li nemicì della christianità". Vano però il suo fervore; non scalza il muro gommoso della grettezza d'Innocenzo X. Questi si dilunga elusivo in "risposte generali di buona volontà", assicura - a proposito di Candia - di "pensarvi più di quello" che "si crede". Troppo poco per il C. sconvolto dalla caduta di piazzeforti venete, turbato alla notizia che la Dalmazia è "minacciata da ogni parte". Il papa resta avvolto nel bozzolo dei suoi orizzonti angusti; né il C. riesce ad ottenere che "si riscaldi", come sovente gli raccomanda il Senato. Una cappa caliginosa grava sulla S. Sede: il papa - scrive il C. il 16 genn. 1646 - è "parco et retirato dallo spendere", i suoi "parenti", specie l'ambiziosissima "dona olimpia", incoraggiano questa sua congenita parsimonia che può sfiorare, a volte, i bordi della più sordida avarizia. Essi sanno - rileva il C. - "che quanto danaro impiegarà, tanto sì scemi a loro in caso della sua morte". Manca una personalità di spicco che contrasti la ripugnante incrostazione di questa piccineria contabile ad uso familiare. "Il male sta - osserva il C. - che presso il papa non si ritrova alcuno che ben intenda le cose di stato". Un giudizio severo, sotteso di vibrazioni rampognanti che il C., tornato a Venezia, conferma e sviluppa nella relazione del 28 luglio 1648 ove la Roma papale appare ingrigita e appesantita da una torpida quasi ignava incapacità di grandezza. Al vertice un pontefice divenuto tale con "industriose simulationi" - parlando "poco" cioè, fingendo "assai", non facendo "niente" -, il quale, una volta conseguiti i "bramati fini", s'è rivelato "principe" poco generoso, sospettoso, taccagno, d'ingegno "tardo", restio a progetti d'un qualche respiro, tallonato dalla circuente presenza della cognata che "avidaniente... va accumulando roba e denaro"; indiscusso il torbido "predominio" di questa, essendo nuscita ad emarginare il figlio, il non più influente Camillo Pamphili, cui rimane solo la agra soddisfazione di borbottare contro la "madre tiranna" e di sparlare dei "governo del zio". Un "odio mortale", questo tra madre e figlio, fosco e, insieme, grottesco: la prima lo fa circondare da "spie" le quali riportano le sue lamentele che essa, a sua volta, denuncia, ampliandole e aggravandole, al papa; il secondo inacidisce esasperato ed impotente. Nel frattempo la Cristianità è divisa, Venezia si dissangua a Candia. Una situazione tragica di fronte alla quale Innocenzo X è impari; irrimediabilmente privo del benché minimo soffio di "qualità di padre universale", non sa oltrepassare la barriera della sua "tepidezza", non sa scuotersi di dosso la sua "negligenza". Non è il capo della Cristianità, ma semplicemente un "principe particolare"; e, nemmeno in tale ruolo, in grado di fornire buona prova. Infatti giunge ad anteporre alle "fabbriche pubbliche" quella "particolare... del palazzo Pamphili... nella piazza Navona"; e, nella sua politica d'ossessiva e sin micragnosa lesina, ha persino lasciato "imperfette le mura principiate" da Urbano VIII e non ha ordinata l'erezione d'una sola "fortificatione" nello "stato ecclesiastico".
Il C., che il 22 dic. 1653 è divenuto procuratore di S. Marco e che, il 27 marzo 1655, ha dei voti nelle elezioni dogali, è tra i quattro personaggi di rilievo nominati, il 12 apr. 1655, per omaggiare il neopontefice Alessandro VII e, soprattutto, per fargli presente, come precisa la commissione del 28 agosto, quale "padre comune" della "christianità", l'assoluta necessità d'aiuto di Venezia assalita dalla terribile "forza de' barbari". Alla delegazione, che giunge a Roma il 6 novembre, Alessandro VII garantisce essere "questo della guerra del Turco" senz'altro "uno dei più grandi pensieri che le girano per la mente". Perché non "applicar a questo fine le rendite dei conventini"? e, soppressi questi, non è forse opportuno il ritomo, "doppo tanti anni" d'"esilio", dei gesuiti a Venezia, dove certo saranno assai proficui nell'"educatione de' figlioli", campo nel quale sono "habilissimi sopra tutti gli altri"? è chiaro: Venezia, se vuole aiuti, deve sottostare a pesanti contropartite. Il "desiderio" papale va accontentato, sostiene nella relazione Giovanni Pesaro, il membro più autorevole e rilevante dell'ambasceria straordinaria. Una impostazione alla quale non risulta il C. si sia opposto; anzi, dalle informazioni del nunzio Carlo Carafa, pare vada annoverato tra i fautori della "buona causa" della riammissione della Compagnia estromessa all'epoca dell'interderto. Lecito supporre la votazione, del 19 genn. 1657, nella quale centosedici senatori (di contro a cinquantatré contrari e a differenza di diciannove astenuti) si esprimono a favore del rientro dei gesuiti, si debba anche all'orientamento dei C., la cui autorevolezza sta crescendo e rafforzandosi in quel tomo di tempo, come attestano ulteriori suffragi a lui indirizzati nell'elezione del doge del 16 ott. 1659. Un prestigio il suo discreto, sommesso (ché è uomo alieno dal nutrire propositi ambiziosi), ma proprio per questo capace di diffondersi e radicarsi senza suscitare opposizioni, senza destare preoccupazioni. Il C. è di "savio giudizio e lodevole intelligenza" dice di lui un'anonima relazione del 1664, che gli riconosce, altresi, "ottimi costumi"; è, infatti, "giusto, onorato, pio e pieno di buoni sensi", insiste l'anonimo, "non però sopraffino". Un limite che non guasta, che alla lunga l'avvantaggia, che comunque s'adatta al ritmo pacato della sua esistenza. Egli "vive lontano dalle ambizioni del dogado e pure, per merito, talenti e parentado, vi sarebbe più vicino d'ogni altro. I suoi parenti... Contarini e la sua amica Madonna Ragione possono muovere alle occorrenze il suo arbitrio". Una personalità non brillante, dunque, quella del C., non imperiosamente prorompente; epperò serena, ragionevole, riflessiva, tale da infondere fiducia. Assenti in lui asprezze, irrigidimenti, esagerazioni. La stessa bontà di "costumi" non va certo intesa quale ascetica austerità: il C. non disdegna i piaceri mondani, è amico d'un gaudente fastoso quale il contestabile Lorenzo Onofrio Colonna, è appassionato del melodramma; e si vocifera pure d'una sua relazione con una cantante, Pia Antinori, già amante di Stradella. Comunque è proprio la mancanza di una marcata connotazione a privilegiare il C.: egli diventa, col tempo, una sorta di savia incarnazione del giusto mezzo, un personaggio che giudiziosamente amministra il credito derivantegli dalla sua assennata e affidabile mediocrità.
È quanto gli riconosce, attorno al 1675, un'altra relazione anonima, di mano comunque d'un patrizio, che tratteggia la galleria dei cento "soggetti più adoperati nel governo" di Venezia. Il C. è "uomo di ottimi costumi", ripete; è "di larga esperienza - aggiunge - di ricchezze considerabili... pesato ne' giudizi, benché poco studioso" dell'"eloquenza esteriore" e restio a qualsiasi manovra per far prevalere la propria opinione. "È di casa molto cospicua per se stessa", ma, poiché non s'è preoccupato d'accrescerne gli introiti con "mercanzia o altri proventi", la sua "entrata", pur considerevole, non è eccezionale. Un dato a favore dei C.: la sua rendita viene definita, appunto, "aggiustata... ad un senatore di republica", ha il timbro anch'essa dell'esemplare "mediocrità". Ostile alle furie anticlericali di colleghi più avventati, se stesse in lui, "amerebbe di regolare un poco la licenziosità che pratica il governo nelle materie canoniche". Quasi scrupoloso rispecchiamento della neutralità veneta non ha - in fatto di politica estera - particolari propensioni, esplicite inclinazioni: se, in cuor suo, è più ostile alla Francia che alla Spagna, ciò si spiega colla potenza, ben più temibile, della prima. Un ritratto che quasi prefigura il principe adatto a Venezia. Né stupisce che - bloccata l'affermazione pressoché certa di Giovanni Sagredo (una rumorosa e orchestrata manifestazione popolare - gondolieri, a detta dell'interessato, di casate rivali "scatenati... da loro padroni" avevano distribuito soldi ad una folla di "pitochi" messasi prontamente ad urlare "nol fe el Sagreo perché nol volemo" - induce il Maggior Consiglio a non convalidare il corpo elettorale dei 41 favorevoli a Sagredo e a disporre la costituzione d'un altro, con altri nominativi) - il C. venga eletto, il 26 ag. 1676, doge. Ha la meglio, con 25 voti, su Angelo Correr e soprattutto sul troppo vecchio e inalandato di salute Alvise Priuli nonché su Battista Nani (questi è il caso opposto al suo: personalità troppo forte, egemone in Senato, lo si teme in vesti dogali). "Un Priuli dose detto / un Contarini dose fatto / un Sagredo dose desfatto" sintetizzano dei versi improvvisati per l'occasione. Un contemporaneo, il nobile Andrea Contarini, esalta l'accaduto: quarantuno "soggetti prestanti e liberi, non obligati che a Dio e alla patria e alla loro coscienza", hanno scelto il C. "d'imacolato candore, d'innocenfissima vita, di singolar costume". È stato eletto, conferma l'ambasciatore francese Jean-François de Estrades, "un des premiers hommes de cet estat", pieno di "vertu" e "modestie", acconciatosi ad "accepter" la carica solo perché "toute sa famille" aveva insistito "avee beaucoup d'instance".
Seguono gli anni del dogado contrassegnati dal riproporsi della centralità del Consiglio dei dieci, dall'esigenza dei riordino del coacervo legislativo, turbati, sul finire, dal serpeggiare dell'epidemia e agitati dal riaffacciarsi della minaccia ottomana. E, rispetto a questa - laddove il Senato è scisso tra fautori dell'adesione aperta ed immediata al fronte austro-polacco e attendisti che preferiscono, appunto, aspettare l'eventuale scoppio d'un'insurrezione antiturca tra i sudditi cristiani della Porta -, il C. propende per un appoggio sostanzioso, ma non palese, a Leopoldo I. Non mancano per il C., che volle esibire un certo splendore e che fu oggetto, il 4 sett. 1681, d'un grandioso festeggiamento organizzato in suo onore dal canonico Cristoforo Ivanovich, momenti amari. Nel 1677 è addirittura tentato di dimettersi e farsi frate perché addolorato dal cattivo comportamento d'un nipote e umiliato da un avogadore il quale gli aveva irriguardosamente ricordato che le sue prerogative gli concedevano di procedere anche contro di lui.
Assai avanti con gli anni, nei primi giorni del 1684 l'affligge anche il "male d'orina", è "tres dangeuresement malade", scrive il rappresentante francese Michel Amelot de Gournay, e i medici, che pur "travaillent fortement a faire leur brigue", si dichiarano impotenti. La sua morte, il 15 genn. 1684, a Venezia, segna per la Repubblica un grave lutto: essa perde, commenta il nunzio, un "principe" dai "sentimenti pieni di pietà, divoto" a Dio e alla patria.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Senato, Corti, regg. 2, cc. 90r, 246r, 265v, 268v, 277v-278r; 3-11, passim;12, passim sino a c. 90r;Ibid., Senato, Deliberazioni Roma, regg. 47, cc. 176r, 193; 48, passim da c. 87r; 49, 50 passim, 51, passim sino a c. 13v; 58, passim da c. 12v; Ibid., Cons. dei dieci. Capi. Lett. di amb., 14, nn. 10-12; 27, nn. 376, 377; originali pergamenacci, copie, lettere, cenni e altro, quasi tutto relativo al periodo dogale del C. in Venezia, Bibl. dei Civ. Museo Correr, Cod. Cicogna, MCXXIII;1064/X; 1364/IV; 2223/17; 2378; 2480; 2917/7; 2986/XLI; 2996/Padova; 3203/XXVIII; 3282/38, 65, 92; 3456/2 passim; 3418/9; 3433/fasc. Contarini; 3466/V n. 2; 3467; 3468; 3470; 3471/Treviso; 3472/Vicenza; 3473/II; 3474/VI; 3479/I; 3490/I n. 3; 3797/35; Ibid., Archivio Morosini Grimani, B. 560, c. 202; Ibid., Mss. WcovichLazzari, 20/6; Ibid., Mss. Gradenigo Dolfin, 15, pp. 28-29; 199, cc. 447, 482; Ibid., Mss. P. D., 108 b, pp. 282-285; 112 b; 581 C/54, 66; 604 C/X; 651 C; 658 C/VI; 769 C/108; C 756/57, 63; C 761; C 765/90, 94, 96; C 832/78; C 833/1, 8; C 868/96; C 971/73; C 1054/569; C 1062/213; C 2360/VI; per l'effigie del C. Ibid., Ritratti Gherro 136 e Stampe Gherro, 1597; Ibid., Cod. Cicogna, 1702: Copella politica, pp. 18-20; Ibid., Mss. P. D., 197 b: A. Contarini, I semi della guerra, c. 48; Arch. Segreto Vaticano, Nunziatura Venezia, 127, cc. 19r, 26r, 45r; Arch. di Stato diTorino, Lettere di ministri. Venezia, 28d (lett. del 29 ag. 1676); Parigi, Archive du Ministère des Affaires etrangères, Correspondance politique. Venise, 97, c. 274v; 110, cc. 17v-18r, Gli ultimi successi di... Waldstein narrati dagli amb. ven., a cura di S. Gliubich, in Arch. für Kunde öst. Geschichts-Quellen.... 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