ALIDI (arabo ‛Alawiyyūn)
I discendenti del califfo Ali (v.). Negli autori musulmani essi sono più spesso designati col nome di Ṭālibiyyūn o di Āl Abī Ṭālib "discendenti di Abū Ṭālib" (il padre di Ali). I figli di Ali furono numerosissimi, ma di essi soltanto tre presentano un qualche interesse storico:
1. Muḥammad, che dal nome della tribù di sua madre, fu noto col nome di Ibn al-Ḥanafiyyah "il figlio della Ḥanīfita"; durante l'anarchia succeduta nell'‛lrāq alla morte del califfo omayyade Yazīd I venne proclamato dal ribelle sciita al-Mukhtār legittimo pretendente al califfato, ma non secondò attivamente il movimento, che fallì dopo un breve periodo di successo (67 ègira = 687 d. C.). Una parte degli Sciiti riconobbe in lui l'atteso Mahdī (v.) e credette che egli, sottratto al fato mortale, vivesse nascosto in una montagna dell'Arabia centrale, donde sarebbe uscito nell'ora prescritta da Dio per ristabilire la religione nella sua purezza e integrità (v. I. Goldziher, Vorlesungen über den Islam, 2ª ed., Heidelberg 1925, pp. 145-6, 198, 217; trad. francese, Parigi 1920, pp. 120, 166, 182).
2. e 3. al-Ḥasan e al-Ḥusain (pronunciato anche al-Ḥosein), figli di Fāṭimah (v.), la figlia del profeta Maometto, che devono alla discendenza materna lo straordinario prestigio che circonda le loro figure in tutto il mondo islamico, e che giunge, negli ambienti sciiti, fino alla più fanatica venerazione. Ad essi fanno capo le dinastie alide che hanno regnato in varî tempi e in varî luoghi. Al-Ḥasan, dopo essere stato proclamato successore del padre dai pochi fedeli rimastigli, cedette dopo soli sette mesi all'incalzante trionfo di Mu‛āwiyah (v.) e, assai riccamente ricompensato per la sua rinunzia a ogni pretesa al califfato, si ritirò a Medina, dove morì circa il 50 èg. = 670-1 d. C.; al-Ḥusain (v.), invece, morto Mu‛āwiyah (60 èg. = 680 d. C.), credette giunta l'ora di rivendicare il potere e riuscì a sollevare parte dell'‛lrāq, rimasto fedele alla memoria di Ali; ma fu vinto e ucciso, il 10° giorno dell'anno 61 (10 ottobre 680), a Karbalā (v.), che da lui ha preso il suo nome attuale di Meshhed Ḥusain. Insieme con lui caddero numerosi suoi figli e collaterali, aprendosi così la lunga serie dei martiri alidi, che ha impresso alla religiosità e al culto degli Sciiti un carattere di mesta devozione alla memoria delle vittime della persecuzione degli empî, devozione che ha assunto forme non dissimili da quelle del culto cristiano dei martiri. Lo stesso Ali è venerato come protomartire e, non potendosi ammettere che un suo figlio sia finito di morte naturale, è sorta la leggenda dell'avvelenamento di al-Ḥasan. Ma soprattutto il fato di al-Ḥusain commosse il sentimento dei devoti: per uno strano e complesso fenomeno di deformazione della realtà, al quale hanno probabilmente contribuito risonanze del culto orientale del dio bambino, egli, morto quasi sessantenne, compare in figura di fanciullo nelle rappresentazioni drammatiche con le quali è celebrato l'anniversario della sua uccisione. La persecuzione degli Alidi (spesso esagerata dalla tradizione) continuò durante l'intero periodo omayyade: ma anche alcuni califfi abbasidi, con tutto che l'origine del loro potere si fondasse sul riconoscimento dei diritti dinastici degli Alidi e benché essi mostrassero a questi tutti i segni esterni dell'ossequio, non si fecero scrupolo di soffocare nel sangue i tentativi fatti dagli Alidi per riacquistare il potere. Il martirologio alida è argomento di numerose opere letterarie arabe e persiane, che portano il titolo di maqātil aṭ-Ṭālibiyyīn ("le uccisioni dei Ṭ."); la più nota di esse ha per autore il celebre scrittore arabo del sec. IV dell'ègira Abū'l-Faraǵ al-Iṣbahānī (v.).
Alla discendenza da Ali attraverso al-Ḥasan e al-Ḥusain si richiamano gli imām degli Sciiti; l'ordine di essi è, per i Saba‛iyyah o Settimani: ‛Alī, al-Ḥasan, al-Ḥusain, ‛Alī Zain al-‛Ābidīn, Muḥammad al-Bāqir, Gia‛far aṣ-Ṣādiq, Mūsà al-Kāẓim; gli Ithnā‛ashariyyah o Duodecimani vi aggiungono: ‛Alī ar-Riḍà, Muḥammad at-Taqī, ‛Alī an-Naqī, al-Ḥasan al-‛Askarī, Muḥammad al-Mahdī. Gli Zeiditi (v.) riconoscono come loro imām Zeid ibn ‛Alī ibn al-Ḥusain. Date tuttavia le molteplici suddivisioni della sètta sciita, è grandissimo il numero degli Alidi che dall'una o dall'altra di queste sono stati assunti come imām e, colà dove i loro tentativi hanno avuto successo, hanno dato origine a singole dinastie, alcune delle quali non ebbero che vita effimera, mentre altre si mantennero a lungo, e talune sussistono tuttora. Carattere comune di tutte è la pretesa dei loro sovrani di impersonare il califfo legittimo e di considerare come eretici quei musulmani che non ne riconoscono l'autorità. Tra le più notevoli dinastie alide si ricordano: gli Idrīsiti (v.), sovrani del Marocco nel sec. IX, e un altro ramo di Idrīsiti attualmente emiri dell'‛Asīr (v.); i Banū Qatādah, discesi da Qatādah ibn Idrīs ibn Muṭā‛in, emiri della Mecca dalla fine del sec. XIII, re del Ḥigiāz dal 1916 al 1925, con Ḥusain ibn ‛Alī (v.); i Sa‛diani (v.) del Marocco, nei sec. XVI e XVII; i Filālï (v.), tuttora regnanti nel Marocco. Le suddette dinastie fanno capo ad al-Ḥasan, mentre ad al-Ḥusain fanno capo i Fāṭimiti (v.) e gli imām Zeiditi attualmente regnanti nel Yemen (v.). Ciascuna di queste dinastie possiede il suo albero genealogico in regola, senza che in molti casi sia possibile, nello stato presente degli studî storici, né garantirne l'autenticità né stabilirne il carattere apocrifo. Per quanto riguarda i Fāṭimiti, peraltro, è lecito il sospetto che la discendenza da al-Ḥusain non sia che fittizia. Anche meno sicura è la fondatezza del titolo genealogico delle molte migliaia di Alidi non appartenenti a case sovrane che sono attualmente sparsi nel mondo musulmano e che, insigniti dell'epiteto di Sayyid o di Sharīf (v.), godono di particolari privilegi e sono fatti segno del rispetto dei fedeli.
Bibl.: F. Wüstenfeld, Genealogische Tabellen der arabischen Stämme, Gottinga 1852, tavv. Y, Z; E. de Zambaur, Manuel de généalogie et de chronologie pour l'histoire de l'Islam, Hannover 1927, tavv. A-E; Enciclop. dell'Islam, I, pp. 312-13; IV, pp. 349-54.