ALFONSO II d'Este, duca dì Ferrara
Nacque da Ercole II e da Renata di Francia il 22 nov. 1533. Ebbe una accuratissima educazione letteraria e cavalleresca. All'insaputa del padre, nel 1552 si recò in Francia, dove il re Enrico II lo accolse e gli diede una compagnia di cento uomini d'arme, con la quale prese parte ad azioni di guerra nelle Fiandre. Avvenuta la riconciliazione col padre, A. tornò a Ferrara (26 sett. 1554). Fu di nuovo in Francia, col permesso di Ercole II, dal 17 marzo 1556 al febbraio dell'anno seguente. Avendo il duca di Ferrara aderito alla lega fra Paolo IV ed Enrico II di Francia contro Filippo II (13 nov. 1556), A. fu mandato nel giugno 1557 con Cornelio Bentivoglio all'assedio di Correggio, presto tralasciato per, lo spostamento delle forze in altri settori.
A. combatté poi felicemente contro le truppe di Ottavio Farnese, occupando San Polo, il castello di Guardosone nel Parmigiano, le terre di Montelupo, Rossena e Canossa.
Riconciliatosi, per l'intervento di Cosimo de' Medici, il re di Spagna e l'Estense, venne stabilito il matrimonio di A. con Lucrezia de' Medici, quattordicenne figlia di Cosimo, celebrato a Firenze il 18 giugno 1558. A. però volle partire subito (24 giugno) per la Francia, non solo per riprendere il servizio sotto Enrico II, ma anche per trattare la questione dei cospicui crediti, oltre tre milioni di lire tornesi, che il duca vantava verso la Corona di Francia (ma le trattative non ebbero, per allora, alcun esito e un riconoscimento parziale del credito avvenne solo più tardi). Quando Enrico II fu mortalmente ferito, A., che faceva parte della squadra del re nella giostra insieme con i duchi di Lorena, Guisa e Nemours, fu il primo a sorreggerlo. Era ancora in Francia col fratello Luigi, quando Ercole II mori (3 ott. 1559).
Ricevuta la notizia, A. non poté immediatamente sciogliersi dagli impegni assunti. Mandò innanzi Cornelio Bentivoglio; passò a congedarsi da Francesco II, che gli assegnò 20.000 scudi d'oro del sole sulle rendite di Caen in Normandia; si imbarcò a Marsiglia, prese terra a Livorno, si recò a visitare a Firenze la moglie Lucrezia, poi per la Garfagnana scese nel Modenese.
Nella successione si osservarono le norme consuetudinarie, secondo le quali non bastava il diritto derivante dalla nascita per assumere legalmente il potere. Il giudice dei Dodici Savi, la carica amministrativa più alta, convocò al suono della campana i magistrati, i massari delle Arti, i nobili e i cittadini nella sala del Comune, per procedere unitamente all'elezione del nuovo duca. A questo punto fu introdotta nel cerimoniale una novità, poiché il giudice dei Savi, conte Galeazzo Estense Tassoni, si presentò al principe nel palazzo del Belvedere e di là con solennità e splendore maggiori dell'usato prese le mosse il corteo ducale per l'ingresso in città (26 nov. 1559). In questo modo A. intendeva mettere in evidenza la sua superiore potestà di sovrano.
Una delle prime misure di governo di A. fu la liberazione di don Giulio d'Este, dopo cinquantatré anni di prigione nella torre del Castelvecchio per la congiura contro Alfonso I e Ippolito. Elargizioni varie attestarono subito la prodigalità del nuovo duca. Con l'ingresso di Lucrezia de' Medici (27 febbr. 1560) ebbe inizio la serie delle feste grandiose, che resero celebre la corte di A., superando per sfarzo e complicati apparecchi coreografici tutto quello che già vantava la tradizione estense. L'elevazione del principe Luigi al cardinalato (inverno 1561) diede occasione a due tornei spettacolosi, il Castello di Gorgoferusa e il Monte di Feronia.
Alle mascherate carnevalesche, nelle quali Ferrara rivaleggiava con Venezia, alle recite degli "Zanni", si aggiungevano manifestazioni d'alta letteratura e d'arte: la Compagnia dei Gelosi recitò spesso nella capitale estense e vi diede (31 luglio 1573) l'Aminta del Tasso. Alle relazioni di quest'ultimo con A. appartiene la permanenza del poeta nell'ospedale di S. Anna dal 1579 al 1586. L'imputazione di crudeltà rivolta per questo episodio ad A. non pare fondata; si può ritenere, però, che nella misura adottata avesse parte anche lo scopo di evitare la fuga del Tasso alla corte medicea. Presso A. trovarono appoggio molti letterati ed artisti, quali G. B. Guarini, G. B. Pigna, Francesco Patrizi, Pirro Ligorio, Antonio Montecatini, i pittori Giuseppe Mazzuoli e Sebastiano Filippi, detto il Bastianino, l'architetto G. B. Aleotti, detto l'Argenta. La musica vi trovò sede per le sue prime manifestazioni. Musicisti francesi e fiamminghi, italiani come Ludovico Agostini, Alfonso della Viola, Ippolito Fiorini, Luzzasco Luzzaschi addestrarono al canto Leonora e Lucrezia, sorelle di A.; e i concerti delle dame erano assai frequenti.
Ai già numerosi e splendidi palazzi si aggiunse la Palazzina in Giovecca, ultima fabbrica estense in Ferrara. A. curò anche la biblioteca, per la quale ordinò che venissero ricercati tutti i libri pubblicati dal tempo dell'invenzione della stampa. L'amore della magnificenza fece sì che A. avesse trecentoquaranta persone addette al suo servizio, fra cui sessanta gentiluomini d'onore, venti paggi, quaranta cantori della Cappella ducale. Quattrocento cavalli delle migliori razze erano mantenuti nelle scuderie; cani, astori, sparvieri, falconi costituivano un completo e lussuosissimo apparecchio per la caccia. Cento alabardieri, cento cavalieri, molte lance spezzate formavano la guardia del corpo.
Recatosi a Roma per l'omaggio al papa - restò assente da Ferrara dal 24 maggio al 3 luglio 1560 -, A. dovette affrontare la spinosa questione dell'atteggiamento religioso della madre, Renata di Francia; in conseguenza vi fu la partenza di lei da Ferrara (2 sett. 1560) e il suo ritiro nel castello di Montargia. A. non si mostrò tuttavia proclive, in seguito, a cedere alle pressioni dell'autorità ecclesiastica per la consegna di eretici.
Il 21 apr. 1561 morì la duchessa Lucrezia de' Medici, che nei tre anni passati alla corte di Ferrara si era trovata in una condizione di inferiorità sia di fronte alla suocera per la diversità dell'indirizzo spirituale, sia di fronte alle cognate Lucrezia e Leonora per la bellezza e l'eleganza. Nessun figlio era nato ad A. da queste prime nozze; si pensò pertanto subito ad un altro matrimonio.
Spezzata dalla morte la stretta parentela tra Estensi e Medici, risorse più viva tra loro la vecchia lotta di precedenza, che dal 1541, anno in cui Carlo V a Lucca aveva voluto alla sua destra Ercole II e alla sinistra Cosimo I, era stata sostenuta da ambedue le parti con lunghe disquisizioni ed era stata oggetto di esame presso tribunali pontifici e imperiali. Alla preminenza estense si era mostrato incline Enrico II, mentre Pio IV, di cui Cosimo aveva sostenuto la candidatura, metteva in primo luogo l'ambasciatore mediceo. Da parte imperiale c'era stato in favore di Cosimo un decreto del 1547, ma non era definitivo, recando solo la firma del duca d'Alba. Perciò, rimasto vedovo, A. inviò Girolamo Faletti alla corte cesarea e, offrendo all'imperatore Ferdinando I di sposarne una delle figlie, ottenne che egli con decreto del 13 febbr. 1562 avocasse a sé la decisione della lite. Ma anche Cosimo I chiedeva per suo figlio la mano di una delle arciduchesse. Il contrasto era ora nella scelta: astiosi libelli, di ispirazione medicea, rinfacciarono agli Estensi tutti i falli e le censure, che potevano pungerli più gravemente. A sua volta A. protestava presso l'imperatore e presso tutti i potentati, mentre Ferdinando, che aveva bisogno dell'uno e dell'altro, procrastinava la soluzione della disputa. Morto Ferdinando (25 luglio 1564), il nuovo imperatore Massimiliano II, che per l'invasione dell'Ungheria da parte del voivoda di Transilvania e per i minacciosi preparativi di Solimano IX aveva bisogno di non irritare i principi, da cui sperava aiuti, decise di dare ad A. la sorella Barbara venticinquenne e a Francesco de' Medici la più giovane Giovanna. In attesa delle nozze, stabilite per l'anno seguente, i Medici non trascurarono alcuna occasione per eclissare in magnificenza il rivale, e preparare il terreno per l'attribuzione a Cosimo del titolo di granduca. Uno dei più clamorosi episodi della lotta di precedenza si ebbe a Trento, dove si dovevano celebrare le nozze delle due sorelle di Massimiliano. Francesco de' Medici era presente; A. aveva invece delegato a rappresentarlo il fratello cardinale Luigi. Quando il Borromeo, quale legato apostolico, si accinse a celebrare nella cappella del castello di Trento il rito nuziale del Medici, il cardinale Luigi d'Este, penetratovi a forza, protestò contro tale priorità.
A sedare lo scandalo, fu presentato opportunamente un rescritto imperiale, che ordinava di celebrare le nozze nei rispettivi paesi degli sposi.
Le nozze di A. e Barbara d'Austria furono celebrate a Ferrara il 5 dic. 1565; e si rinnovarono le feste col fantasmagorico torneo Trionfo d'Amore (11 dicembre), cui assistette il giovane Tasso. Nel 1566, scoppiata la guerra in Ungheria, mentre Cosimo I prontamente faceva pervenire a Massimiliano denari e fanti, A. offrì il suo braccio, ben contando di superare con ciò l'emulo Medici. Giunto a Vienna il 28 agosto, sfilò il 3 settembre col suo piccolo esercito composto di quattromiladuecento uomini. Al campo imperiale, presso Raab, trovò che l'imperatore, per la morte di Solimano II, aveva pattuito un armistizio e si apprestava a ritirarsi. Così, dopo perdite di uomini per malattie e dispendio di mezzi, A. ritornò in patria (18 dic. 1566): la prova di buona volontà gli procurò per il momento la gratitudine imperiale, ma nessun frutto concreto.
Poco dopo (23 maggio 1567), Pio V pubblicò la bolla Prohibitio alienandi et infeudandi civitates et loca Sanctae Romanae Ecclesiae, che era un grave colpo per la Casa estense. Risultava da essa, infatti, senza possibilità di equivoco, che era interdetta ai figli illegittimi l'investitura di feudi della Chiesa. A Roma era ben noto che A., per cure errate subite da fanciullo o in seguito ad una caduta da cavallo, non era atto a procreare. D'altra parte quegli che per vincolo di sangue gli era più prossimo era Cesare, figlio di Alfonso marchese di Montecchio, nato da Alfonso I e da Laura Dianti, dei quali mai la Chiesa volle ammettere che fosse stata regolarizzata l'unione. Sorgeva perciò improrogabile per A. il problema della successione. Quando poi Cosimo, nel 1569, riuscì ad ottenere da Pio V il titolo agognato di granduca, grande fu l'irritazione di A., che non si peritò di intralciare, per quanto era in lui, gli sforzi papali per promuovere una lega generale di principi contro i Turchi.
Intanto le enormi spese, nonostante le notevoli entrate del ducato, andavano riducendo assai il patrimonio; gli aumenti di tasse, l'imposizione di prestiti forzosi, l'instaurazione del sistema degli appalti, che sollevarono tanta ostilità, facevano sentire il loro peso a tutti gli strati della popolazione. Verso il 1570 divenne frequente lo spettacolo di torme di cenciosi, che affluivano dalle campagne in città, spinti dalla carestia. Un rovinoso terremoto (16-17 nov. 1570) accrebbe la miseria, alla quale cercò di dare sollievo con qualche iniziativa benefica la duchessa, fondando il Conservatorio delle orfane.
Morta la duchessa Barbara il 19 sett. 1572, il pensiero della successione impose ad A. la ricerca di una terza moglie. Fece però prima un tentativo presso il nuovo papa, Gregorio XIII, recandosi a Roma il 19 genn. 1573, accompagnato da Pirro Ligorio e dal Tasso, per indurlo a riconoscergli il diritto di designare un successore, al quale l'investitura di Ferrara sarebbe stata concessa per estensione. Ma il pontefice, dopo aver fatto esaminare il caso, respinse la richiesta che avrebbe comportato una deroga dalla bolla di Pio V. A questa delusione si aggiunse un'altra, di diversa natura: l'esplicita sconfessione da parte della corte imperiale di un decreto che A. aveva ottenuto da Massimiliano II, recandosi appositamente a Innsbruck e a Vienna nel febbraio 1574, e che lo aveva creato duca di prima classe dell'Impero, permettendogli di farsi tributare dai cortigiani il titolo di Altezza e di Serenissimo. L'ambizione spinse ancora A., accorso a salutare a Venezia Enrico III, ad aspirare al trono di Polonia. Per ben due volte mandò a Varsavia il Guarini per perorare la propria elezione; più tardi sognò perfino il regno di Gerusalemme.
Il decreto imperiale (26 genn. 1576),che riconosceva a Cosimo I il titolo di granduca, unì in un'ondata di comune sdegno i Gonzaga, gli Estensi ed i Farnese, aderente pure il duca di Savoia; e di questo furono testimonianza i progettati vincoli matrimoniali fra quelle case. Per A. fu prescelta la giovanissima figlia del duca Guglielmo Gonzaga, Margherita. Essa il 27 febbr. 1579 entrò a Ferrara, dando occasione a nuove serie di festeggiamenti, a cui parteciparono a gara principesse della casa e dame della nobiltà. Mancata anche in questa terza unione la prole, A. pensò invano alla possibilità di un matrimonio per il fratello Luigi; ma questi era cardinale in sacris e per di più di salute precaria e il disegno fu abbandonato. Il 13 luglio 1586 il principe Vincenzo Gonzaga, fratello di Margherita, ottenne di far uscire dall'ospedale di S. Anna il Tasso, impegnandosi a tenerlo in custodia. Si vuole che in questa decisione avesse gran parte la duchessa Margherita, cui il poeta aveva dedicato molti dei suoi componimenti poetici.
Nella speranza di conciliarsi il favore papale, grazie al quale avrebbe potuto conseguire la soluzione desiderata del problema della successione, A. accettò nel 1591 l'invito di liberare le Romagne dai banditi, inviandovi Enea Montecuccoli. Divenuto pontefice col nome di Gregorio XIV il cardinale N. Sfondrati, amico degli Estensi, A. si recò a Roma il 26 luglio 1591, poiché il papa aveva manifestamente il desiderio di favorirlo il più possibile.
Come aspirante alla successione, oltre Cesare d'Este, vi era anche la linea discendente da un fratello di Alfonso I, Sigismondo, in quel momento rappresentata da Filippo d'Este, marchese di S. Martino in Rio, parente degli Sfondrati e amico degli Spagnoli. Cesare aveva contro di sé il tenace risentimento di Lucrezia, sorella di A., che non perdonava al padre di lui di avere scoperto la sua relazione con Ercolino Contrari, ucciso per ordine del duca. A. non dubitò in un primo tempo di far cadere la sua scelta sul marchese di S. Martino, che il papa si mostrava lieto di favorire. Offrì di andare in persona con seimila uomini a combattere sotto i vessilli imperiali contro il Turco, di elevare a 20.000 scudi il censo annuo alla Santa Sede e di donare alla Camera Apostolica un milione d'oro, qualora si assicurasse all'erede designato l'investitura di Ferrara. Il 19 agosto il papa ne parlò in concistoro, ma gli fu ricordata la bolla di Pio V; tendenze antispagnole e l'ostilità del granduca di Toscana contribuirono a confermare i cardinali nell'opposizione al disegno papale. Gregorio XIV pensò allora ad una investitura motu proprio, ma, prima che si decidesse a questa misura, il pontefice venne a morte e con lui svanirono quindi tutte le speranze che A. aveva concepite.
Disgustato del marchese Filippo, A. volse allora le sue simpatie sull'altro pretendente, Cesare. I tentativi per conservare Ferrara agli Estensi furono ripetuti con Clemente VIII, sebbene questi già da cardinale si fosse mostrato contrario e, fatto papa, avesse sollecitamente rinnovata la bolla di Pio V. Rodolfo II, invitato ad interporsi presso Clemente, non gli strappò alcuna concessione; ma dietro compenso di 400.000 scudi concesse invece a Cesare d'Este (8 ag. 1594) l'investitura dei feudi imperiali di Modena, Reggio e Carpi. Un anno dopo (17 luglio 1595), A. con suo testamento nominò Cesare successore ed erede dei suoi beni "mobili et stabili, feudali et allodiali".Ma alla morte di A., avvenuta il 27 ott. 1597, si ebbe la devoluzione di Ferrara alla Santa Sede.
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