CARAFA, Alfonso
Nacque a Napoli il 16 luglio 1540, figlio di Antonio, successivamente marchese di Montebello, e di Brianna Beltrame.
All'età di nove anni venne mandato dal padre alla corte del prozio cardinal Gian Pietro, a Roma. Qui egli ricevette una preparazione di tipo umanistico dal precettore Gian Paolo Flavio, il quale seguì e condivise le rapide fortune curiali del giovanissimo discepolo. Le testimomanze dei contemporanei concordano nell'attribuire al C. le funzioni di un assiduo cameriere del cardinal Gian Pietro, il quale vedeva in lui come un figlio adottivo da far crescere a propria immagine per affidargli la tutela della potenza famigliare. Subito dopo l'ascesa al pontificato del prozio, si cominciò quindi a parlare per lui del cardinalato. Nel concistoro del 18 dic. 1555 furono in molti i cardinali che, sicuri d'interpretare le riposte intenzioni di Paolo IV, caldeggiarono l'inclusione del C. nella lista dei neoeletti. Ma la risposta del papa, allora, fu negativa, con grande delusione del nipote che rimase ancora per qualche tempo confinato nel ruolo di cameriere segreto. Solo il 15 marzo 1557 fu creato cardinale, dell'Ordine dei diaconi; il 9 aprile dello stesso anno, continuando la pioggia di benefici sulla famiglia, il C. ricevette l'arcidiocesi di Napoli (col titolo di amministratore, data la giovane età). Negli anni successivi gli Vennero conferiti altri ricchi segni del favore papale: la commenda delle abbazie di S. Stefano del Como dei SS. Vittore e Costanzo nel marchesato di Saluzzo (13 luglio 1559), di S. Maria di Tubenna in diocesi di Salerno, di S. Maria di Mirasole presso Lodi e altri benefici minori; il titolo di governatore di Sutri, di Todi, di Benevento. Cresceva contemporaneamente la sua autorità in Curia. Il cardinale Carlo Carafa suo zio, partendo nell'ottobre '57 per la corte di Filippo II, delegò la direzione politica dello Stato della Chiesa a un consiglio nel quale il C. figurava come il "capo... in suo loco" (G. M. Alberti a C. Carafa, Roma, 5 nov. 1557, in De Maio, p. 34). L'impegno di assoluta fedeltà che legava il giovane C. al capo riconosciuto e potente della casata si manifestò pienamente in questa occasione: egli tenne costantemente informato il cardinal nipote sull'andamento delle cose in Curia e diresse la diplomazia papale in modo da favorirne la missione alla corte spagnola. Si adoperò in particolare per ottenere dal re di Francia Enrico II il permesso di tornare a Roma per Pietro e Diomede Carafa, trattenuti a Parigi come ostaggi.
Dai non molti documenti rimastici di questa sua attività risulta piuttosto chiaramente che egli accettò di essere lo strumento della politica di potenza della famiglia: mentre trasmetteva al cardinale Carlo le richieste di sempre più alti compensi avanzate dai parenti per le trattative con Filippo II, garantiva a tale politica l'acquiescenza dell'anziano papa, totalmente fiducioso in un pronipote così precocemente grave e austero.Dopo il ritorno del cardinale Carlo a Roma nella primavera del '58, il C. dovette di nuovo cedergli ogni autorità politica e fu completamente assorbito dalla quotidiana consuetudine col rigido e ascetico Paolo IV. Negli incarichi che gli furono affidati mostrò di non volersi minimamente scostare dalla volontà e dalle idee del papa. Membro della commissione di cardinali e canonisti incaricata di esaminare la legittimità della successione imperiale di Ferdinando d'Austria al fratello Carlo V, si limitò ad approvare l'atteggiamento tenuto da Paolo IV, accettandone le anacronistiche posizioni di principio e insinuando sospetti sull'ortodossia del nuovo imperatore. Un comportamento di questo tipo valse al C. la fiducia e il favore del papa, il quale non solo lo colmò di doni (con benefici ecclesiastici e con elargizioni una tantum come quella di 4.000 scudi del 17 maggio 1559), ma creò appositamente per lui un nuovo e ricchissimo ufficio curiale, quello di reggente della Camera apostolica. Paolo IV ne propose l'istituzione e il conferimento al C. nel concistoro del 28 nov. 1558, dopo un lungo elogio delle virtù del pronipote.
Fu subito evidente che l'ufficio comportava potere e ricchezza in misura eccezionale, infeudando ancor più ai parenti del papa le strutture fondamentali dello Stato della Chiesa. La bolla di fondazione dell'ufficio, letta nel concistoro del 6 marzo 1559, stabiliva per il reggente rendite e poteri amplissimi. Il camerlengo in carica, cardinale Sforza, vide così implicitamente ridotta la sua autorità, ma attese tempi migliori per protestare.
Il C. continuò a salire nella stima e nei favori del papa e fu solo in parte toccato, all'inizio del 1559, dalla brusca crisi dei rapporti tra Paolo IV e la sua famiglia. Poté infatti restarsene a Roma mentre i suoi parenti più stretti, colpiti dal bando, dovettero allontanarsene. Gli fu però vietato di "trattare con gli essuli" e di "intercedere presso Nostro Signore per alcuno de' suoi", come scriveva l'inviato genovese Gabriele Salvago il 2 febbr. 1559 (De Maio, p. 66). Per aver contravvenuto a quest'ordine, intrattenendo rapporti con lo zio Carlo, venne trattato con durezza dal papa e corse il rischio di venire esiliato anche lui. Ma, a parte questo episodio, Paolo IV ebbe piena fiducia in lui e continuò a servirsi della sua collaborazione nel disbrigo della corrispondenza coi nunzi e degli affari esteri in genere. Nell'estate del 1559 si diffuse anche la voce che il C. stesse per assumere l'amministrazione politica dello Stato, allora tenuta collegialmente dal Sacro Consiglio, quando la morte del papa interruppe bruscamente l'arco ascendente della sua parabola e segnò l'inizio di un rapido declino.
Nel conclave che seguì il C. si fece ancora guidare dalla logica degli interessi famigliari, cercando di far eleggere "persona che giontamente habbi ad accomodar et per raccomandate le cose nostre et di casa nostra", come scrisse al padre l'11 ottobre (De Maio, p. 214). Dopo aver successivamente sostenuto le candidature dei cardinali Pio da Carpi e Gonzaga, si rassegnò ad accettare quella del cardinale Medici solo per l'insistenza dello zio Carlo e dopo aver sollevato sul conto del futuro Pio IV sospetti d'eresia. Il lunghissimo conclave si chiuse dunque negativamente per il C. e per i suoi parenti, anche se per qualche tempo essi si cullarono nelle illusorie promesse di Filippo II. Le prime avvisaglie dell'ostilità di Pio IV si ebbero quando questi, nell'aprile del 1560, aprì un'inchiesta sulle grandi ricchezze del C., accusandolo di aver trafugato gioielli e denaro di Paolo IV negli ultimi giorni di vita di quest'ultimo. Il C. corse ai ripari sia allegando testimonianze dalle quali risultava che Paolo IV aveva espresso in qualche modo il suo consenso a tali appropriazioni, sia prevenendo eventuali testimoni come il cugino Antonio Carafa perché mantenessero "taciturnità et segretezza" (De Maio, p. 218): ma il 7 giugno dello stesso anno fu arrestato e tradotto in Castel Sant'Angelo. Il ritrovamento in Napoli da parte del nunzio Odescalchi di gioielli e denaro per 100.000 ducati da lui fatti nascondere aggravò la sua posizione; fu accusato anche di possesso di libri proibiti, ma a questo proposito si difese agevolmente affermando che i libri erano appartenuti a Paolo IV.
Col suo arresto crollò anche l'istituzione del reggente di Camera. Già nel periodo della sede vacante il camerlengo cardinale Sforza si era rifiutato di dividere la propria autorità col reggente e di riconoscere i poteri attribuiti a quest'ultimo da Paolo IV. Allora, in mezzo a una città tutta in rivolta contro la propria famiglia, il C., "pallido et sbattuto", aveva dovuto rinunziare a sostenere i propri diritti (relazione di E. Stanghelini al duca di Mantova, 21 agosto 1559, in De Maio, p. 313). Ora la vendetta di Pio IV contro i nipoti del suo predecessore cominciava con l'abolizione del reggentato. Appena arrestato il C., il papa dichiarò al cardinale Sforza la sua intenzione di restituirgli quell'autorità che i provvedimenti di Paolo IV avevano messo in forse. Il C. cercò di salvaguardare i propri diritti redigendo, il 19 dicembre 1560, una protesta che trasmise al cardinal Vitelli. Ma il duro trattamento carcerario e la sorte a cui andarono incontro gli altri membri della sua famiglia caduti nelle mani del papa ne fiaccarono la resistenza. La notte del 5 marzo 1561 poté seguire tutti i momenti dell'esecuzione dello zio cardinale Carlo e fu preso da tale disperazione che, secondo una testimonianza contemporanea, "si volse amazzar di dolore" (De Maio, p. 93). Il 23 marzo si decise a firmare la domanda di grazia e a rinunziare al titolo di reggente, firmando contemporaneamente una polizza per l'ammontare di 100.000 scudi. Il 27 aprile, ormai libero dal carcere ma obbligato al domicilio coatto nella sua abitazione, firmò l'atto di soppressione dell'ufficio e contemporaneamente fece redigere un nuovo atto di protesta che non ebbe però alcun seguito.
A questa data il C. era preoccupato soprattutto dal problema di come raccogliere il denaro che si era impegnato a pagare. La ricca parentela si rifiutò di aiutarlo. Cercò allora, col consenso del papa (1º giugno 1561), di cedere in affitto per nove anni i benefici ecclesiastici di cui era titolare, compresa la mensa arcivescovile di Napoli, per la quale il padre gli corrispose 14.000 ducati. Il tentativo non ebbe però il successo sperato. Mentre i mercanti fiorentini già drizzavano le orecchie alle voci di un'asta di tutti i benefici del C., questi si decise, dopo lunghe trattative, a cedere anche una delle sue più ricche prebende, l'abbazia di S. Stefano del Corno nel Lodigiano. Riammesso finalmente in concistoro il 10 ottobre, vi si adoperò per risolvere altre questioni beneficiarie della famiglia, ma senza successo.
Nell'estate del 1562, in un clima teso per le minacce di attentati al papa, venne arrestato un notaio della Camera apostolica, il francese Giovanni de la Save, che fu trovato in possesso di documenti compromettenti per il C.; questi si trovava allora a Bauco e, appena gli giunse l'ingiunzione di tornare a Roma, passò il confine e si rifugiò a Sant'Angelo a Scala, nel Regno di Napoli. Da qui il 30 agosto mandò una richiesta di protezione a Filippo II, il quale il 16 ottobre rispose ordinando al viceré di non dar corso a nessuna richiesta papale di estradizione relativa al Carafa. Fu così che l'archidiocesi di Napoli ebbe un vescovo residente. Più che il modello del rigido Paolo IV o l'influsso dei gesuiti, che nel periodo del carcere gli erano stati particolarmente vicini, fu questa definitiva rottura con l'ambiente ostile della Curia a portare il C. a Napoli, dove entrò il 25 ott. 1562.
Nella misura in cui la protezione del viceré gli garantì una certa tranquillità, egli poté anche dedicarsi maggiormente alla propria preparazione culturale e al governo della diocesi. Già negli anni romani aveva tentato nella misura del possibile di farsi seguire da buoni maestri; a Napoli gli impegni pastorali e di governo rendevano ancora più urgente non solo una buona formazione umanistica e retorica ma anche e soprattutto una discreta conoscenza del diritto civile e canonico. Dopo aver tentato di farsi raggiungere da Giulio Poggiani e dopo un periodo di non facili rapporti col letterato calabrese Luigi Russo, il C. si trovò finalmente a suo agio con Leonardo Malaspina. L'esigenza di studiare il diritto fu da lui avvertita nella fase preparatoria del sinodo diocesano; allora si rivolse al gesuita Giambattista Bonocore, insegnante nel collegio della Compagnia, e pretese che venisse sollevato dall'obbligo di tenere le sue lezioni per insegnare a lui soltanto. Ciò provocò uno scontro col provinciale P. Salmeron, appianato dall'intervento del Polanco.
L'attività episcopale vera e propria ebbe la sua fase più importante nel sinodo diocesano aperto il 4 febbr. 1565. In esso, sotto la guida del C. e del suo vicario Giulio Santoro, si procedette, leggendo e discutendo puntualmente i decreti tridentini, alla loro applicazione. A questo il C. giunse però dopo un contatto diretto coi problemi della sua diocesi attraverso l'esame del clero, la riforma dei monasteri femminili, la visita pastorale (attività già iniziate sotto i suoi vicari generali Giulio Pavesi e Luigi Campagna). I risultati di queste iniziative sono difficilmente valutabili, per la scarsezza della documentazione e perché l'opera del C. fu presto interrotta da ostacoli esterni e infine dalla morte. È evidente però che egli procedette sulla via dell'applicazione dei decreti tridentini in maniera metodica e puntigliosa, cercando di adeguarsi ad una concezione della dignità e autorità ecclesiastica che discendeva molto probabilmente dal modello del grande proto Paolo IV. Come lui si preoccupò di ottenere - previa dispensa, data la sua minore età - l'ordinazione sacerdotale (16 apr. 1564) e la consacrazione episcopale (30 giugno 1565). Come lui incoraggiò la repressione dell'eresia, anche se proprio per una procedura inquisitoriale vide in pericolo nuovamente la sua esistenza. L'esecuzione capitale di Gianfrancesco Alois e di Gianbernardino Gargano, condannati per eresia dal vicario Campagna (marzo 1564), che emise anche un editto di confisca dei loro beni, scatenò una forte protesta cittadina, alimentata dal timore che si volesse introdurre l'Inquisizione a Napoli. Il carattere indeciso del C. - dissimile in questo dal prozio - lo fece oscillare a lungo tra le posizioni contrapposte del Campagna e del viceré da un lato, intenzionati a ricorrere anche alle armi, e del popolo e della nobiltà cittadina dall'altro, chevolevano invece l'allontanamento del vicario. Grazie anche alla mediazione di Paolo Burali richiesta dal C., il Campagna fu convinto ad allontanarsi e il 24 aprile partì per Roma. Qui alimentò l'irritazione e i sospetti di Pio IV con una serie di accuse contro il C., che si sommarono a quella di congiura contro il papa mossagli negli stessi giorni da un medico di Terra d'Otranto, Ortensio Abbaticchio, inquisito per eresia. Santoro, invitato a Roma per l'inchiesta, ha lasciato nei suoi appunti la vivida impressione dell'odio del papa contro il Carafa. I rapporti di questo con Roma si tesero ancor più all'inizio del '65 per una questione legata all'abbazia di S. Stefano del Como; una protesta solenne del C. contro il papa e il cardinale Borromeo per avergli sottratto quel beneficio provocò un monitorio papale, bloccato però dall'intervento del viceré. In mezzo a questi contrasti, il C. improvvisamente si ammalò; il 28 agosto dettò testamento e il 29, dopo essersi fatto portare in processione le reliquie di s. Gennaro, morì. I consueti sospetti di avvelenamento si appigliarono in questo caso ai pessimi rapporti col papa e si diffusero molto rapidamente; in Germania se ne fece portavoce Hans Jakob Függer. Anche per questo, probabilmente, Pio IV elogiò a più riprese la memoria del defunto, cardinale.
Fonti e Bibl.: Un'esauriente rassegna delle fonti e della bibliografia in R. De Maio, A. C. cardinale di Napoli (1540-1565), Città del Vaticano 1961; ivi, in append., sono riprodotti l'epist. e il testamento del C., nonché documenti a lui relativi. Si veda inoltre: Nonciatures de France,Correspondance des nonces en France Carpi et Ferrerio 1535-1540, a cura di J. Lestocquoy, Rome-Paris 1961, ad Indicem; P. Villani, Origine e caratt. della nunziatura di Napoli (1523-1569), in Ann. dell'Ist. storico ital. per l'età moderna e contemp., IX-X (1969-70), pp. 506 s., 510; R. De Maio, Riforme e miti nella Chiesa del Cinquecento, Napoli 1973, ad nomen.