VARALDO, Alessandro
Nacque a Ventimiglia il 25 gennaio 1876, da Giuseppe Varaldo, originario di Savona, e da Eugenia Rolando, ventimigliese.
Frequentò le elementari nel Collegio delle Scuole Pie a Savona, dove mise in mostra sin dalla più tenera età una particolare predisposizione per la letteratura. È Varaldo stesso a darcene notizia, parlando, con accenti chiaramente riconducibili a un autoritratto d’autore, di una vera e propria predestinazione («Posso vantare una delle più ferme, e ormai perdute nel tempo, vocazioni letterarie»,Varaldo, 1919, p.7). E si potrebbe identificare un preciso momento in cui avvenne quella sorta di illuminazione che lo avrebbe segnato per tutta la vita, quando cioè acquistò, appena settenne, il primo libro: un’edizione dell’Amleto ricordata con echi di una venerazione feticistica («Era un volumetto dalla copertina verde, sulla quale si vedeva una torre, dei guerrieri e uno spettro» Confidenze, in L’illustrazione del Popolo, 6 giugno 1943, p.9). Due anni più tardiVaraldo citò il dubbio amletico del terzo atto in un tema scolastico la cui traccia era «Che cosa vorreste fare da grande?». Quell’episodio suscitò la preoccupazione del maestro Scolopio che avrebbe convocato anche il padre di Alessandro per renderlo partecipe dell’accaduto («Che cosa abbia ascoltato dal maestro e che cosa gli abbia risposto, non l’ho mai saputo. Non era, mio padre, un severo ed ottuso genitore, non mi sequestrò l’Amleto, scoperto sotto il mio cuscino.» Confidenze, in L’illustrazione del Popolo, 6 giugno 1943, p.9).Giuseppe Varaldo dopo l’accaduto ricondusse il figlio nell’alveo di letture più consone e tranquillizzanti: fece l’abbonamento al Giornale dei bambini di Collodi, che fu fedele compagno di Alessandro nell’infanzia e prima adolescenza.
La formazione giovanile di Varaldo si compì poi nel liceo ginnasio, dove ebbe come insegnante Dante Cattani, allievo di Giosue Carducci. Successivamente frequentò il liceo Cassini di Sanremo, dove trovò Luigi Gualtieri (Mostra commemorativa su A.V., in La voce intemelia, XXXVIII(1983), 10) come insegnante di Letteratura italiana (vi aveva ottenuto la cattedra nel 1886).
Nel già citato articolo (Varaldo, 1919), l’autore fa un quadro abbastanza dettagliato delle sue letture adolescenziali, teso a rimarcare tanto la predestinazione letteraria quanto la sua versatile curiosità.
Sappiamo che frequentò poeti come Giovanni Prati, Felice Cavallotti e Olindo Guerrini, fu lettore di De Amicis, Fogazzaro e soprattutto grande estimatore di D’Annunzio. Ma l’idea di un esercizio attivo della letteratura fu presente in lui fin dall’adolescenza: mettendo alla prova la sua capacità prensile, da queste letture trasse ispirazione sul piano tematico-formale per le sue prime creazioni letterarie prettamente imitative. Scrisse dunque tragedie, drammi, poesie d’impronta verista e racconti militari, fino ad accumulare centinaia di pagine manoscritte.
La prima pubblicazione giunse nel 1893, quando Varaldo, firmandosi con lo pseudonimo «Aldo Dorval», si risolse a mandare un suo sonetto dal titolo Morta al giornale letterario fiorentino La Bohème, che lo pubblicò in prima pagina. In quegli stessi anni si trasferì a Genova, inserendosi rapidamente negli ambienti culturali giovanili. Con alcuni amici fondò un giornale letterario, l’Endymion, nato con l’ambizioso scopo di farsi promotore della poesia decadente e simbolista di modello dannunziano. Il progetto naufragò dopo soli nove numeri, e a quel punto Varaldo avviò una collaborazione con il giornale torinese Gazzetta del Popolo della Domenica, diretto da Augusto Berta. Fu questa l’occasione per intrecciare una fitta rete di rapporti con certa intellighenzia del capoluogo sabaudo, i cui contatti con la cultura ligure erano all’epoca molto intensi.
L’esordio letterario di Varaldo si deve far risalire al 1897, quando tredici suoi componimenti furono pubblicati nel Primolibro dei trittici (Bordighera), una silloge di sonetti simbolisti curata, oltre che da Varaldo stesso, da Alessandro Gribaldi e Mario Malfettani (autori di altrettante poesie divise per sezioni tematiche). Nelle intenzioni il volume avrebbe dovuto aprire una serie di raccolte, ma il progetto non si concretizzò poiché gli autori si dirottarono su altri progetti. Varaldo, in particolare, divenne redattore del Caffaro, un quotidiano genovese di tendenze repubblicane e liberali; e fu nel supplemento di questa testata che pubblicò, tra il 6 luglio e il 9 novembre 1898, il suo primo romanzo dal titolo I Signori di Nervia, opera di cui in realtà non dovette andare molto orgoglioso, in primis perché ne avrebbe rielaborato i materiali nel ’21, facendoli confluire nel romanzo I cuori solitari (Milano), e in secondo luogo poiché non venne mai rievocata nei vari racconti dei suoi esordi, che l’autore preferisce far risalire al primo libro, La principessa lontana (Castrocaro 1898), una raccolta di quattro novelle con prefazione di una fittizia narratrice (l’aristocratica Iolanda). A queste due prose seguì un’opera di tutt’altro tenore: un singolare poema in sonetti, con prologo ed epilogo in martelliani, dal titolo Marine liguri (Milano). L’anno seguente pubblicò un saggio critico sul poeta Hégésippe Moreau (Per un poeta della vecchia scuola, Castrocaro), mentre nel 1900 fu la volta di un altro romanzo (da lui sempre reputato il «primo», Varaldo, 1919, p.8), Due nemici (Torino), che sarebbe stato ristampato una prima volta nel 1919 e poi successivamente nel 1931 e 1932, con Mondadori.
Già dal racconto dei suoi esordi emerge chiaramente il tratto distintivo di Varaldo, ossia l’estrema versatilità che gli permise, negli anni successivi, di attraversare disinvoltamente le forme e i generi tra loro più diversi, mantenendo per periodi anche lunghi dei ritmi di lavoro forsennati (sarebbe arrivato a pubblicare anche tre o quattro volumi all’anno, il tutto senza mai interrompere le sue assidue collaborazioni giornalistiche), vittima di una vera e propria grafomania, similmente a D’Annunzio. L’unica costante che si può individuare in queste prime prove letterarie, e che rimarrà grossomodo costante nel prosieguo della sua carriera, è la presenza a tratti predominante, a tratti di contorno, delle terre liguri, e di Ventimiglia in particolare.
Nel 1901, a riprova di quanto detto, Varaldo si confrontò anche con la scrittura teatrale, scrivendo la sceneggiatura di una commedia dal titolo Diamante o Castone, per il Circolo artistico di Como. L’opera ottenne un buon successo, ma l’autore sulle prime resistette alla tentazione di dar seguito alla sua carriera di commediografo. Cedette qualche anno più tardi, nel 1906, quando per la sua attività di critico teatrale del Corriere di Genova (con cui collaborava sin dal 1903) entrò in contatto con l’attore Virgilio Talli, che lo incalzò affinché gli scrivesse una commedia. Fu con queste premesse che il 19 ottobre 1906 andò in scena, al Politeama Regina Margherita, La Conquista di Fiammetta. Nonostante la presenza di attori importanti come Gilda Zucchini, Lyda Borelli e Talli stesso la commedia fu sostanzialmente un fiasco: «[il pubblico] si aspettava da me, articolista paradossale, un fuoco d’artificio di motti e di aforismi, e s’ebbe invece un grigio e serio studio d’ambiente della piccola borghesia, con audacie eccessive, ma senza la possibilità della minima risata» (Varaldo, 1919, p.9). Quell’insuccesso causò un’improvvisa battuta d’arresto nella sua torrentizia produzione letteraria. Sul declino del primo decennio del Novecento, infatti, Varaldo si concentrò più che altro sul giornalismo, ma è da segnalare anche l’avvio di un altro versante della sua scrittura, ossia la traduzione. L’esito più interessante in questo campo risale al 1909, quando pubblicò a Milano, con Sonzogno, la prima traduzione italiana del Paradoxesur le comédien di Denis Diderot. L’anno dopo tentò nuovamente la fortuna con una commedia, L’altalena, più divertita e divertente rispetto alla precedente, e per questo più ammiccante nei confronti del pubblico e meno propensa all’analisi sociale. E vi si ritrova appieno una caratteristica che da allora sarà tipica di Varaldo, ossia la grande attenzione per l’intrattenimento del pubblico («mi spiace che, sul Sinai, Mosè non abbia avuto che dieci comandamenti. L’undecimo io lo medito sempre, e l’ho sempre dinanzi quando scrivo […]: “NON ANNOIARE”», Varaldo, 1919, p.10).
Il successo dell’Altalena (che come altre sue opere fu tradotta in spagnolo, da Enrique Tedeschi)instradò definitivamente la carriera di Varaldo, che a quel punto accantonò il giornalismo in favore della creazione letteraria. Tornò dunque al romanzo, con Genova sentimentale (Genova, 1913), ma da fine anni Dieci e per tutti gli anni Venti fu soprattutto l’attività di commediografo a fare le sue fortune. Nel 1917 al teatro Alfieri di Torino andò in scena Appassionatamente, nuova commedia che riscosse un buon successo, ma che fu aspramente criticata da Antonio Gramsci sulle pagine dell’Avanti! del 22 novembre 1918. Gramsci puntò il dito principalmente sul carattere disimpegnato della scrittura teatrale di Varaldo, rea peraltro di essere caratterizzata da un accumulo disordinato di spezzoni comici irrelati, con l’approdo finale al «sentimentalismo rugiadoso della moralina democratica» (l’estratto si può leggere in A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino 1971, p.411). Ormai lanciato come commediografo, Varaldo approdò tra il 1919 e il 1920 alla direzione del quindicinale Comoedia, in seno al quale ripubblicò Appassionatamente (Comoedia, II (1920), 13) e La conquista di Fiammetta (Comoedia, III (1921), 14). E il 1920 fu generalmente un anno di svolta: Varaldo entrò infatti nella ‘scuderia’ Mondadori e soprattutto fondò la Società Italiana Autori ed Editori, di cui fu anche primo direttore generale (mentre la presidenza onoraria fu conferita a D’Annunzio). Divenne così il punto di riferimento per molti letterati e professionisti del teatro (come Eleonora Duse, Pirandello, D’Annunzio stesso), destreggiandosi come poté in un ruolo tanto impegnativo in una fase della storia italiana molto delicata, agli inizi del Ventennio. Particolarmente spinosa, in particolare, la questione del diritto d’autore, la cui legislazione entrò in vigore nel settembre del 1926 a partire da un progetto di Varaldo stesso (Ferraro, 2013, p.251).
Quello stesso anno un gruppo di intellettuali guidati da Giuseppe Brunati avviò una protesta interna alla SIAE nei confronti di Varaldo, accusato di aver impresso una tendenza affaristica alla direzione dell’ente. Complici queste difficoltà, e la crescente invasività delle ingerenze del regime, Varaldo abbandonò la direzione della SIAE nel 1928, sostituito da un gerarca fascista. Sarebbero ancora da chiarire le dinamiche del suo rapporto con il regime: nonostante questo episodio, in cui Varaldo mostrò qualche insofferenza,il suo atteggiamento nei confronti di Mussolini fu pienamente simpatetico in questa fase (come desumibile da alcuni lacerti della sua corrispondenza privata con Mondadori, oggi conservata presso l’omonima Fondazione), salvo poi lasciare il passo a una condotta di basso profilo e infine, dopo la caduta,a un’aperta ostilità. Fu insomma un atteggiamento tipicamente ‘parabolico’, in apparenza, in cui pure si intravide qualche crepa.
Intanto nel 1928, lasciata la SIAE, rispose alla chiamata «patriottica» di Marinetti ed entrò nel Gruppo dei Dieci, dichiaratamente fascista sin dal suo atto costitutivo. Con i Dieci pubblicò l’epistolario enciclopedico Approcci quello stesso anno e lo sperimentale, ucronico romanzo collettivo Lo zar non è mortonel 1929.
Anche in quegli anni di impegni più ‘politici’, comunque, la vena letteraria di Varaldo continuò a esprimersi riccamente, e fu probabilmente proprio in virtù di questa estrema prolificità che Mondadori decise di accoglierlo nella collana dei suoi ‘Gialli’, primo autore italiano a rientrarci. Fu così che il romanzo Il sette bello uscì con il numero 21 della collana, e anche se forse non si trattò del primissimo esempio di poliziesco italiano, è pur vero che fu il primo ad essere‘canonizzato’. Ottenne un buon successo: tre tirature e 23.000 copie stampate, che garantirono al suo autore una presenza piuttosto costante nella serie dei ‘Gialli’ (in totale ben otto, sino a Il tesoro dei Borboni del 1938), oltre a schiuderne le porte agli autori italiani in generale (nel 1932 infatti pubblicarono anche Alessandro De Stefani e Arturo Lanocita). Il giallo di Varaldo era, beninteso, piuttosto distante dal modello inglese: vi si percepisce chiaro il retaggio per così dire ‘ottocentesco’ dell’autore, e per converso vi si riconoscono intatte alcune caratteristiche ormai tipiche della sua scrittura, come la configurazione manichea dei personaggi, ben lontana da certo psicologismo di gusto novecentesco, o la costante tendenza al ‘riempimento’ della pagina volto all’intrattenimento del lettore (specie con colpi di scena, cfr. La gatta persiana, a cura di F. De Nicola, Torino 2019, passim, in partic. introduzione).
Gli anni Trenta furono dunque particolarmente fruttiferi, e consolidarono la fama di Varaldo come romanziere e giallista, destinata a sopravvivere, pur debolmente, dopo la morte, adombrando gli altri versanti della sua produzione.
Nel 1933 Varaldo, ormai autore di punta Mondadori, divenne direttore della collana Romanzi di cappa e spada, mentre nel ’37 gli fu affidata temporaneamente la direzione del giornale satirico Settebello, prima che con l’acquisizione di Mondadori fosse sostituito da Zavattini.
Nel frattempo le ingerenze del regime cominciarono a farsi sentire anche sulla produzione giallistica: in particolare non era vista di buon occhio la diffusione capillare di quei romanzi economici, con contenuti ritenuti spesso ‘immorali’ da parte della censura fascista. Fu allora che Varaldo propose a Mondadori di alzare il prezzo dei volumi, nel disperato tentativo di ‘salvarli’. Fu però tutto vano: con lo scoppio della guerra i gialli smisero d’esser venduti.
A quel punto si riaffacciò in Varaldo quell’insofferenza nei confronti dell’opprimente controllo del fascismo, espressa anche nel già citato carteggio con Mondadori. È in virtù di questa che si può sospettare che il suo allontanamento da Mussolini non fosse solo dettato dalle circostanze post-belliche, anche se i toni particolarmente aspri di un articolo del 1947 dal titolo emblematico (Tragico e buffo figuro Mussolini visto da Senise, in Giornale d’Emilia, 2 febbraio, pp.1-2) sembrano suggerire il contrario. Ivi, Varaldo avrebbe posto quasi in ridicolo il ‘duce’, sottolineandone l’indole nevrotica e distratta, l’umore ondivago e persino la pusillanimità.
Nel febbraio del 1944 giunse un altro importante riconoscimento: Varaldo infatti fu nominato ‘pro-commissario’ dell’Accademia nazionale d’arte drammatica, in sostituzione di Silvio d’Amico (cui era molto vicino, e che dopo un periodo di detenzione al Regina Coeli, tra il 5 e il 22 ottobre, era stato attenzionato dalla polizia, cfr. lettera del 9 aprile 1944 di Vito Pandolfi, in Lettere a un maestro di scuola umana, in Stilos, 9-22 maggio 2006, pp. 12-13).
Né le vicende belliche, né i nuovi impegni con l’Accademia avevano potuto rallentare i febbrili ritmi del lavoro creativo di Varaldo: basti pensare che nel 1942 erano usciti ben quattro romanzi, e due raccolte di novelle. Subito dopo il ’45 la sua produzione ebbe un’ultima sfiammata: trasferitosi a Milano, vi pubblicò diverse raccolte di novelle (Piccole storie di ieri e di oggi e Avventure e figure dell’ottocento, nel 1946, e Leggende e storie dell’Ottocento l’anno dopo) e un romanzo (Il mondo è piccolo, 1946).
Morì a Roma il 18 febbraio 1953, all’età di ottant’anni, lasciando un numero sterminato di opere: sessanta romanzi, trenta lavori teatrali, oltre mille novelle e un numero considerevole di articoli di giornale, frutto della collaborazione con 136 testate giornalistiche (anche in spagnolo e portoghese, cfr. Mostra commemorativa…, cit.).
A.V., La mia biografia, in Racconta novelle, 15 dicembre 1919, pp. 7-10; A. De Angelis, Ritratti in lapis: «I due Varaldo», in Comoedia, VII (1925), pp. 727-730; R. Simoni, A.V. un fecondo creatore di intrecci romanzeschi, in Stampa sera, 18 settembre 1931, p.3; M. Parodi, Ultima sosta di V. a Genova, in Genova, XXXIII (1953), 2, pp.34-38; A.V., La marea, a cura di A. Ferraro, Massa 2011; D. Orecchia, Cronache d’inizio Novecento. Appunti su A.V. e l’attore, in Actingarchivesreview, II (2012), 3, pp. 85-110;A. Ferraro, Muyseñornuestro A.V., in Cuadernos de Filología Italiana, XX (2013), pp. 243-273.