MANZONI, Alessandro
Alessandro M. nacque a Milano il 7 marzo 1785 da Pietro e da Giulia Beccaria. Studiò, non in casa, dove i genitori vivevano in disaccordo, ma nei collegi di Merate e di Lugano, e poi al Longone nella città nativa. Durante l'adolescenza, che cadde nel periodo della rivoluzione francese e della letteratura civile, mostrò inclinazioni repubblicane e studiò con ammirazione il Parini e l'Alfieri. Lasciato il collegio, fu introdotto nella società da una zia ex-monaca e fu preso dalla passione del giuoco, subito dominata. Già allora, sui sedici anni, rivelava nel sonetto autoritratto una coscienza non comune. Di un forte amore per una Luigina si confidò col Fauriel; d'altra natura fu un altro amore, concepito a Venezia: è di questo tempo un breve periodo di dissolutezza, confessato all'amico Giambattista Pagani. Nel 1804 tornò a Milano e prese a frequentare il Monti. Il gusto di allora era per la poesia classicheggiante del fastoso cantore di Napoleone; e anche il M. si accostò a quella maniera nel poemetto Il trionfo della libertà scritto dopo la pace di Lunéville, nell'Adda (1803) dedicata al Monti, e nell'Urania (1809). Ritroviamo qui schemi, ornamenti mitologici, visioni, personificazioni, tutti i procedimenti che il Monti aveva reso familiari alla poesia del tempo. Ma queste erano apparenze: il M. aveva una coscienza ben più meditativa e, se mai, le sue affinità morali erano con l'Alfieri e con il Parini. L'Urania è già montiana più nella forma che nella sostanza; il carme In morte di Carlo Imbonati, compiuto sul finire del 1805, contiene già, nonostante l'influenza dei due grandi poeti civili, un programma di vita severo che, se non è ancora religioso, è già però altamente morale ed è quindi la prima promessa d'un forte mutamento d'animo e d'arte; il sonetto a F. Lomonaco e i quattro sermoni sono anch'essi di tono alfieriano e pariniano.
A Milano aveva frequentato anche Vincenzo Cuoco: le conversazioni e l'opera del grande storico giovarono certo ad avviarlo allo studio dei problemi storici, verso i quali doveva essere indirizzato così dalla conoscenza dei grandi storici francesi contemporanei, come, e più efficacemente, dall'ammirazione e dalla lunga amicizia per Claude Fauriel (v.).
Col Fauriel s'incontrò la prima volta a Parigi nel 1805, quando la madre, rimasta sola per la morte di Carlo Imbonati, con cui conviveva, lo chiamò a sé da Milano. Allora appunto il M. cantò con candido animo la morte dell'Imbonati; più tardi, non senza segrete ragioni morali, escluse il carme dalla raccolta delle sue opere. Ma in quegli anni il legame della madre non lo offendeva: le idee della rivoluzione avevano abituato alla libertà del costume, e le unioni illegittime - esempio famoso e familiare al M. quella del Fauriel con la vedova del Condorcet - non destavano scandalo. Il Fauriel lo introdusse negli ambienti degl'ideologi: ma è presumibile che il M. conoscesse già in Italia quella filosofia che vi era stata portata dalla rivoluzione. Certo i primi quindici anni dell'Ottocento costituiscono il periodo formativo della mente del M., e in esso alle influenze della filosofia razionalista s'intrecciano e succedono quelle dei grandi scrittori religiosi della Francia; sicché sopra il fondo originale della mentalità manzoniana si vede, nella chiarezza e nella precisione logica e negli atteggiamenti morali e apologetici, un'influenza spiccatamente francese.
Nel 1808 il M. sposò Enrichetta Blondel, calvinista. Il matrimonio è il centro di un periodo di crisi, da cui uscirono rinnovate la coscienza e la mente del M. Un disagio morale preesistente e collegato ai brevi traviamenti accennati sopra; lo smarrimento della moglie tra la folla, e la misteriosa sensazione provata nella chiesa di S. Rocco, dove si era rifugiato disperato domandando a Dio una testimonianza della sua esistenza; il battesimo della prima figlia e il dolore che ne ebbe Enrichetta; questi e altri particolari, spesso singolarmente incerti quando siano veduti da vicino, costituiscono le tappe di quella conversione religiosa di Alessandro (1810), della moglie e della madre, che diede tanta materia di discussione ai suoi biografi, e non solo per il fatto che il M. evitò sempre di parlarne. La conversione fu studiata nella sua storia e nei suoi riflessi sull'opera di Alessandro, particolarmente per le possibili relazioni con la dottrina e con gli ambienti dei giansenisti. Chi negò, chi affermò, chi dubitò che egli avesse subito l'influenza del giansenismo: la questione, dibattuta largamente per la prima volta da A. Pellizzari, è stata poi minutissimamente sviluppata da F. Ruffini con risultati che ci limitiamo a riassumere, premettendo che il dibattito è stato ancora ripreso e rimane sub iudice. Il battesimo della prima figlia e l'abiura di Enrichetta avvennero in chiese rette da giansenisti; giansenisti furono i testimoni e i firmatarî dell'abiura, giansenisti Eustachio Degola e Luigi Tosi - direttori spirituali dei due coniugi e di donna Giulia -, giansenistici o filogiansenistici gli ambienti manzoniani di Parigi e di Milano, vicino al giansenismo il Rosmini - il grande amico di Alessandro dal 1840 al 1855 -, giansenistici alcuni atteggiamenti teologici e politici del poeta. A questa simpatia per il giansenismo egli era portato, oltre che dalle sue relazioni e dalla sua cultura, anche dalla vita ritirata e meditativa, simile a quella dei grandi solitarî di Port-Royal.
La fisionomia del M. pensatore e poeta si fissa con la conversione: tanto che anche le sue affermazioni critiche hanno un fondamento più nelle letture e nelle meditazioni religiose che nei teorici del Romanticismo e nella grande polemica letteraria, che egli conobbe ma da cui si tenne il più possibile lontano. Il suo romanticismo, infatti, ha una base ben più profonda e più duratura che quello di coloro di cui pure la tradizione critica lo considera come il capo: sommamente istruttiva, per questo riguardo, la lettera a Marco Coen (2 giugno 1832).
La conversione religiosa, naturalmente, lo staccò dal classicismo in quanto esso contrasti con il cristianesimo e lo avvicinò al Romanticismo in quanto esso non contrasti con gl'ideali cristiani. Il primo frutto di questa duplice conversione furono gl'Inni Sacri (1812-1822): Il Natale, La Passione, La Risurrezione, La Pentecoste, Il Nome di Maria; maggiore di tutti, senza paragone, il quarto che, per essere l'ultimo in ordine cronologico, è anche il più maturo e il più personale e chiude già, nel suo breve cerchio, un complesso mondo morale e religioso paragonabile a quello dei Promessi Sposi. La Pentecoste ritrae gli uomini vegliati dallo Spirito Santo: e la rappresentazione dei terreni affanni di quelli non è meno mirabile della solenne rappresentazione di Dio che domina su tutti.
Assai inferiori sono gli altri inni, testimonianze di un'anima meditativa e di un gusto esercitato sui classici, ma ancora deboli nel complesso, e ingombri di elementi poco significativi. Sono già segni della forza poetica del M.: nel Natale, l'amore per gli umili e il volo degli angeli fiammeggianti fra le tenebre; nella Risurrezione, il gesto di Gesù che getta via il coperchio della tomba, e tutto il quadro miracoloso che segue; nel Nome di Maria, la femminetta che depone la sua spregiata lacrima nel seno regale della Madonna.
Dello stesso decennio sono pure, tra le opere artistiche, il frammento Il proclanla di Rimini, scritto per il tentativo del Murat di unificare l'Italia; l'ode Marzo 1821, pubblicata solo nel '48; il Cinque Maggio, il capolavoro della poesia napoleonica europea, storia sintetica di Napoleone trionfatore e prigioniero, ritratta in visioni rapide e nitide, sentita con alta sapienza religiosa, sorretta da un forte senso storico; le due tragedie e l'inizio dei Promessi Sposi, intorno ai quali il M. lavorò dal 24 aprile 1821 al 17 settembre 1823.
Il Conte di Carmagnola fu composto a intervalli dal 1816 al 1819 e pubblicato sul principio del '20. Il M. vi ritrae la vita del Carmagnola, condottiero dell'esercito dei Veneziani contro quello del Visconti. da quando Venezia gli affida le sue soldatesche a quando essa sospettandolo di tradimento, lo condanna a morte. Secondo il M. il sospetto è ingiusto. L'idea della tragedia è nata nel poeta da questa convinzione: quindi la tragedia è tutta concentrata intorno al contrasto fra la natura diffidente della Serenissima e quella generosa e impetuosa del conte, e gravita verso la morte che sottrae il protagonista allo splendore effimero della gloria e fa di lui un altro uomo. Così il Carmagnola appartiene al mondo di Napoleone, di Ermengarda, di Adelchi, dell'Innominato, dei più austeri protagonisti della poesia del M., di quelli in cui il grande scrittore ha ritratto, per lo più in virtù di una crisi, la rinunzia alle gioie e alla potenza della terra. Ma il Carmagnola è il meno riuscito di questi personaggi, sia perché il trapasso dal guerriero dei primi atti al prigioniero meditativo degli ultimi è debole, sia perché anche questi, che pure sono i migliori, hanno qualche cosa di languido. S'aggiunga che la politica della repubblica, acutamente studiata, è però freddamente rappresentata. L'unico vero personaggio della tragedia è Marco: è rimasto famoso il monologo che rivela il contrasto fra la sua amicizia per il Carmagnola e la tremenda disciplina della repubblica, a cui egli è legato dal dovere e a cui finisce per cedere tradendo suo malgrado l'amatissimo amico. È questa la sola pagina in cui la diffidenza della repubblica agisca come motivo artistico animatore della tragedia. Anche più noto è il coro, conosciuto con il titolo La battaglia di Maclodio: bella lirica patriottica e religiosa, isolata dal resto del dramma, nella quale sono deplorate le lotte fra Italiani e Italiani e sono rappresentate come un castigo di Dio le invasioni degli stranieri.
La tragedia è accompagnata da Notizie storiche, che testimoniano lo scrupoloso studio dei fatti, e da una Prefazione, che ha in parte lo stesso contenuto della Lettre à M. Ch(auvet) sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie (1823). Questa lettera, provocata dalle osservazioni di un critico classicista, è la più acuta fra le condanne romantiche delle due unità, e ha un valore che trascende il momento polemico in cui fu scritta. Il M., obiettando che le due unità impediscono una rappresentazione solida e approfondita della storia, ne trae occasione per dimostrare quale incomparabile fonte d'ispirazione sia la verità storica. Nessuna poesia uguaglia quella che si può ricavare dallo studio interno dei fatti, dalla meditazione sui pensieri, sulle passioni e sul contrasto delle volontà che li hanno generati; la poesia completa la storia, e se la altera non può che renderla superficiale. Per il M. il culto della verità fu un bisogno dello spirito e fu qualche cosa più di quello che fosse per i romantici. Egli vide negli avvenimenti lontani lo stesso moto di affetti che noi vediamo in quelli contemporanei: e con quest'interesse umano per la storia si accinse a scrivere le tragedie e il romanzo, e per esso riuscì a presentare le speranze degl'Italiani oppressi dai Longobardi e le miserie dei Lombardi del '600 con una così austera e commossa evidenza.
Ma non sempre la vastità e la precisione delle sue vedute storiche, e la sua inclinazione a infondere nei fatti remoti la ricchezza dei sentimenti da cui sono scaturiti, lo hanno sorretto e gli sono bastate nella stesura delle tragedie. In queste, a parte i difetti di costruzione, si tradisce, più o meno, lo studio dei problemi storici, e non sempre il Manzoni riesce ad attuare quella massima del frammento sulla Moralità delle opere tragiche, che pure è una delle chiavi di tutta la sua arte: "La rappresentazione delle passioni che non eccitano simpatia, ma riflessione sentita, è più poetica d'ogni altra". Anche l'Adelchi, composto e rielaborato nel 1820-1822, ha parecchie parti poco incisive e fredde. Ma i due cori, la storia patetica di Ermengarda - non per nulla l'opera è dedicata alla dilettissima Enrichetta -, la figura nobile e malinconica del protagonista, quelle perfide di Svarto e di Guntigi, il viaggio del diacono Martino, tutti questi punti, in cui l'arte culmina, sono intimamente legati con la compagine della tragedia, che complessivamente è una solida e meditata rappresentazione dello sfacelo del regno dei Longobardi, della lotta fra Carlomagno e Desiderio, finita con la sconfitta del secondo e la morte di suo figlio Adelchi. Il protagonista è Adelchi: intorno a lui, la sua gente, i Longobardi, cede o tradisce; lui solo prevede e sopporta virilmente la catastrofe. Il carattere del protagonista è inventato - cosa che doleva alla scuppolosa coscienza storica del M. -; ma l'invenzione di questo personaggio tanto superiore ai suoi tempi permette al poeta d'impostare cristianamente la tragedia e di far intravedere nella sconfitta del suo popolo il castigo di Dio così per l'oppressione degl'Italiani come per l'usurpazione delle terre pontificie che Adelchi vorrebbe restituite e Desiderio conserva. La Provvidenza ha dato ad Adelchi e ad Ermengarda, sposa ripudiata e inconsolabile di Carlo, una esperienza malinconica della vita, che li redime dalle colpe della loro stirpe violenta. La tragedia va giudicata alla luce dei versi: "Te collocò la provida - Sventura in fra gli oppressi"; da questi dipende l'equilibrio morale e artistico dell'opera, tutta infusa, come I Promessi Sposi, di spirito religioso, tutta dominata da una convinzione cristiana senza esserne mai forzata. C'è nell'Adelchi un mondo di potenti e di umili o melanconici, come nel romanzo; le sorti terrene degli uni e degli altri non sono eguali nelle due opere: nella tragedia sormontano i primi, nel romanzo i secondi; ma così nell'Adelchi come nei Promessi Sposi il M. sta con i travagliati. La felicità, impossibile per Adelchi e strappata a Ermengarda, li aspetta dopo la tempesta della vita. Le due anime grandi della gente longobarda salgono, morendo, dov'è il termine d'ogni martirio: rimangono in terra, a soffrire la servitù che hanno meritato opprimendo gl'Italiani, tutti gli altri, impersonati in Desiderio spodestato che, vedendo il figlio morente che implora la liberazione da Dio, esclama: "Ei t'ode... Tu manchi! ed io... In servitude a piangerti rimango". Adelchi è l'unico che abbia pietà degl'Italiani; e anche questo fa di lui il protagonista di questa tragedia, che è insieme religiosa e patriottica ed è, per questo riguardo, la più complessa rappresentazione del millenario travaglio nazionale.
Al sentimento patriottico il M. ispirò anche l'ode Marzo 1821: ma questa, nonostante i varî pregi e la sublimità della chiusa, non lascia nel lettore l'impressione che fanno, tutt'insieme, il personaggio del diacono Martino raffigurante l'appassionata e vana speranza degl'Italiani in un liberatore, e il coro "Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti", dove la misera storia dell'anima italiana, la ferocia longobarda, la crudele avidità conquistatrice dei Franchi, il ricordo dei dolori sopportati fortemente da questi con la speranza di un gran premio sono ritratti con un'eccezionale potenza sintetica e ci meitono già dinnanzi a quel grande descrittore di folle che sara l'autore dei Promessi Sposi.
La descrizione degl'Italiani come di "un volgo disperso che nome non ha" è la sintesi di quello che il M. sentì quando, componendo il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia che, insieme con le Notizie storiche, accompagna e giustifica la tragedia, osservava con meditativa tristezza che le condizioni degli Italiani sotto la dominazione dei Longobardi non si conoscono, che "un'immensa moltitudine d'uomini, una serie di generazioni" era. passata "sulla terra, sulla sua terra, senza lasciarci traccia". Il Discorso verte specialmente sulla questione delle relazioni fra Italiani e Longobardi, considerata come un caso speciale di un più vasto problema: in quali condizioni si trovasse, in tutt'Europa, il popolo vinto di fronte al vincitore. Il M. combatte l'opinione comune che i due popoli fossero fusi già prima della discesa di Carlomagno: sulle conseguenze di quest'errore degli storici che lo hanno preceduto, egli tesse le riflessioni più feconde del suo studio. Egli è convinto che i Longobardi lasciarono agl'Italiani la loro legge non per clemenza ma per comodità, e combatte l'opinione settecentesca della bontà dei conquistatori. Fra le conseguenze della tesi fondamentale, quella che più importa ai lettori dell'Adelchi è la difesa di papa Adriano contro Desiderio: il Manzoni, contrariamente al Machiavelli, crede che i pontefici fossero gli unici difensori degl'Italiani, e sostiene che nell'intenzione papale la chiamata dei Franchi era un mezzo per aiutar gl'Italiani contro i Longobardi. Illusione, come dimostra la chiusa del coro famoso: sul collo degli Italiani premono l'uno e l'altro popolo. Questo, che è il migliore fra i saggi storici del M., sia per concretezza di verità sia per forza di meditazione, occupa un posto importante nella storiografia del Medioevo.
In tutt'altro campo sarebbe stato portato il M. da una terza tragedia, appena disegnata, Spartaco, che probabilmente avrebbe recato visibili tracce della sua nota ostilità contro la civiltà e la moralità pagana.
Intanto il M. dal 1821 al 1823 aveva composto, con una larghissima preparazione storica e con una tenace attenzione artistica, l'opera sua maggiore, I Promessî Sposi. Nel 1823 scrisse pure la Lettera sul Romanticismo, per risnondere al marchese Cesare d'Azeglio che, mandandogli il giornale torinese l'Amico d'Italia contenente la ristampa della Pentecoste, lo aveva accompagnato con una lettera in cui si meravigliava che un così grande poeta aderisse alla scuola romantica. La risposta, poiché il M. era alieno dalle polemiche, non era destinata alle stampe; ma essendo questa stata pubblicata a sua insaputa il 1846, il M. la incluse, con qualche ritocco, nelle Opere varie (edizione 1870). Essa è famosa come codice della parte più ragionevole e più temperata del Romanticismo italiano e, più precisamente, milanese. Per il M. il Romanticismo si riassume nel ripudio della mitologia, delle regole fondate sull'autorità dei retori, dell'imitazione - non dello studio - dei classici. Questa la parte negativa del Romanticismo. Assai meno precisa, diretta ed estesa è, come osserva il M., la parte positiva: essa si può ridurre, astraendo dalle degenerazioni fantastiche e lugubri, alla proposizione che l'arte deve avere per oggetto il vero e per mezzo l'interessante. Ma del vero il M. ha un concetto più morale che quello degli altri romantici: e per questo gli par di vedere nel Romanticismo una tendenza cristiana che, se non fu solo sua, in lui solo però ebbe un'attuazione larga e costante. Al Romanticismo, anzi, egli aderì in grazia di questa tendenza, perché vide in essa la via più consona alla sua coscienza di convertito. La parte più profonda della Lettera nasce da questo motivo: e perciò essa può dirsi, più che la difesa del nostro Romanticismo, la difesa del nostro Romanticismo cristiano.
Quantunque meno appariscente, è dunque più profondo che quello delle altre prose dottrinali, il legame delle Osservazioni sulla morale cattolica con le opere artistiche del Manzoni. E perciò ne parliamo a questo punto, quantunque esse fossero state iniziate già nel 1818, per sollecitazione del Tosi, e pubblicate nel 1819. Al libretto doveva seguire una seconda parte, che non fu mai finita, e di cui il Manzoni lasciò inediti i frammenti anche quando, più di trent'anni dopo, ripubblicò, riveduta, la prima parte. Le Osservazioni sono una confutazione del Sismondi che, nell'ultimo volume della Storia delle repubbliche italiane, aveva sostenuto che la morale cattolica era stata la causa principale della corruzione dell'Italia. Il M. risponde che la corruzione nasce, anzi, dal trasgredire o ignorare o interpretare alla rovescia la morale cattolica, la quale è l'unica morale tutta santa e ragionata. L'operetta non ha un vero organismo, perché è concepita come una serie di repliche alle singole affermazioni del Sismondi; e per questo e perché non ha forti addentellati con la storia della coscienza religiosa contemporanea, va giudicata soprattutto in relazione con la personalità morale e artistica del M., anche se un confronto con le opere coeve dello Chateaubriand e del Lamennais giovi a precisare e a distinguere la posizione dottrinale e la severità spirituale dell'autore delle Osservazioni. Sono caratteristici del M. gli sforzi per mostrare l'accordo della morale con la logica; l'aspetto volontaristico della sua fede; e soprattutto la penetrazione psicologica che gli detta - a proposito degli ostacoli che impediscono al povero e al ricco di accostarsi a Dio, a proposito del delitto che genera il delitto, a proposito della confessione, della maldicenza, della modestia, dell'orgoglio - pagine degne dei Promessi Sposi. Non si può, d'altra parte, tacere che, se il M. nella ricerca della verità si appella all'"intimo senso" o al "buon senso", nel perseguirla tiene spesso procedimenti complicati e prolissi, e si attarda troppo nell'esame delle verità incidentali per poter apparire un ragionatore potente; e che, se parecchie pagine tradiscono quella commozione recondita da cui è nata la sua arte più grande, troppe altre sono fredde o animate dall'enfasi oratoria in cui il fra Cristoforo del romanzo cade così raramente.
Col matrimonio, Alessandro, come scrisse al cognato Carlo, aveva adottato per sempre il sistema di una vita domestica isolata; ed egli visse con Enrichetta e con i figli in un'intimità calma e affettuosa, di cui è una chiara testimonianza il carteggio. I pnmi anni di matrimonio furono i più tranquilli, e furono turbati solo da qualche oscillazione religiosa che compie il quadro di quella conversione così meditata. Poi sopravvennero i malanni di Giulia e di Enrichetta, e le gravidanze laboriose di quest'ultima, che s'aggiungevano ai malanni nervosi di Alessandro e rattristavano la casa.
Tra il 1819 e il 1820 il M. fu a Parigi per qualche mese; nel 1827 fu per qualche settimana in Toscana, e ne approfittò per le correzioni linguistiche da introdurre nella seconda edizione del romanzo. Nel 1833 gli morì Enrichetta. Nel 1837 passò a seconde nozze con Teresa Borri vedova Stampa; e anch'essa gli premorì, come cinque dei sette figli che aveva avuto dalla Blondel. Nel 1840.1842 pubblicò la seconda edizione dei Promessi Sposi e, in appendice, la Storia della Colonna Infame. In questa il processo contro gli untori è ristudiato per mostrare che non la credenza nell'efficacia delle unzioni, non la legislazione della tortura, ma l'accecamento del furore indusse i giudici a proclamare la colpevolezza degli accusati. Nel 1845 il M. cominciò a pubblicare a dispense le Opere varie: vi comparvero per la prima volta il discorso Del romanzo storico e in genere de' componimenti misti di storia e d'invenzione, e il dialogo Dell'invenzione che, composto nel 1841, uscì nelte dispense del 1850.
La condanna pronunciata dal M. nel discorso contro il genere letterario a cui egli aveva dato un capolavoro, nacque non solo dalla preoccupazione delle critiche che, per opposti motivi, storici e letterati avevano mosso a quella specie di romanzo, ma anche da quell'amore per la verità che nel grande scrittore ormai soverchiava. Il valore del discorso è dunque da ricercarsi non nella condanna, smentita dai fatti, ma nello studio dell'evoluzione del poema epico e della tragedia storica alla luce dell'idea che il progresso della storia viene trasformando il campo dell'arte.
Il. dialogo Dell'invenzione si collega con i molti scritti sulla questione della lingua, dei quali diremo più sotto. Infatti esso ritorna, con idee più precise, al problema gnoseologico dal quale il M., facendo la critica del sensismo, aveva preso le mosse per arrivare al problema della lingua. In questo dialogo egli risolve rosminianamente la questione dell'origine delle ideei che è naturalmente indissolubile da quella dell'origine del linguaggio. Ma più che il vero argomento interessa in quest'operetta la difesa del Rosmini, alla cui filosofia il M. aderisce perché vi trova la rivendicazione e la dimostrazione delle verità che sono il naturale patrimonio dell'umanità, perché vi trova insomma la difesa del "senso comune".
Del Rosmini il M. era diventato amico da un pezzo dal 1846 al 1856 egli dimorò spesso a Lesa sul Lago Maggiore, anche per tenersi lontano dalle repressioni austriache; e da Lesa andava spesso a Stresa, dove abitava il Rosmini, e con lui discuteva di problemi filosofici e della questione della lingua. Il pensiero della patria, che allora lo angustiava, fu in lui costante, anche se la sua natura di meditativo lo tenne lontano dall'azione. Nel 1814 si era rifiutato di chiedere che il Beauharnais fosse fatto re d'Italia; nel 1838 s'era tenuto lontano dai festeggiamenti milanesi a Ferdinando I e aveva rifiutato l'onorificenza offertagli dal govemo austriaco; poi, quantunque il figlio Filippo fosse stato fatto prigioniero durante le Cinque Giornate, aveva firmato l'indirizzo con cui s'invocava l'intervento di Carlo Alberto; durante la grave malattia del 1858 non volle ricevere l'arciduca Massimiliano che veniva a chiedere sue notizie; nominato senatore, prese parte alla proclamazione del Regno d'Italia e, nonostante i tentativi fatti per impedirglielo, votò il trasporto della capitale da Torino a Firenze, primo passo verso Roma capitale. Morì il 22 maggio 1873.
Il M. aveva impiegato gli ultimi suoi anni nello studio del problema della lingua e in un saggio storico. Le prime e più larghe origini dei suoi studî sulla lingua devono risalire a un periodo anteriore alla prima edizione dei Promessi Sposi; le prove di questi studî consistono in postille a opere di filosofi francesi, su cui egli studiava, confutandoli, il problema gnoseologico e quindi quello dell'origine del linguaggio. Il romanzo poi lo mise dinnanzi a un problema pratico, quello che comunemente chiamiamo la "questione della lingua": ma le sue riflessioni antecedenti fecero sì che egli ponesse come base della questione lo studio della natura delle lingue e che la soluzione del problema specifico della lingua italiana gli fosse suggerita dalla constatazione che l'uso è la legge dominante di ogni lingua, così rispetto al vocabolario come rispetto alla grammatica. Determinata questa legge, il M., per ragioni linguistiche artistiche e storiche, fissò nel fiorentino parlato dagli uomini colti la lingua rispondente, per l'Italia, a quella legge fondamentale. Occorre però avvertire, per evitare facili obiezioni contro questa soluzione, che egli aggiungeva che, quando la lingua viva dei Fiorentini colti sia insufficiente, si può ricorrere ad altri dialetti toscani, a lingue morte, a lingue straniere, ad arcaismi, a vocaboli di qualunque altro idioma d'Italia; e che, sempre quando sia indispensabile, gli scrittori valenti possono foggiare parole o locuzioni nuove (Lettera intorno al vocabolario).
L'intero ciclo degli studî manzoniani intorno alla lingua, dalle prime osservazioni occasionali alle ultime, occupa non meno di un cinquantennio, e rappresenta un complesso grandioso, anche se l'autore non poté sistemarlo in quell'opera unica Della lingua italiana, che egli lasciò incompiuta ma di cui noi possiamo ricostruire così il piano: i° libro, natura delle lingue (argomento in gran parte svolto); 2° "quale sia la vera lingua italiana" (questo libro manca, ma la sua materia si trova, oltre che nel postumo Sentir messa e nei frammenti postumi sul sistema del padre Cesari, in dissertazioni speciali); 3° "come aver da essa quegli effetti che si hanno e che si vogliono da una lingua, e in ragion de' quali una lingua italiana si vuole e si dee volere"; anche il terzo libro manca, ed è sostituito, con il secondo, dalle dissertazioni sopraccennate: Sulla lingua italiana (lettera a G. Carena: v. Opere varie), Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (relazione al ministro della Pubblica istruzione, 1868) e relativa Appendice (1869), Lettera intorno al libro "De vulgari eloquio" (1868), Lettera intorno al vocabolario (1868) - entrambe dirette al Bonghi -, Lettera al Casanova (1871).
L'ultimo saggio storico a cui attese il M., è quello postumo e incompiuto su La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Lo schema doveva esser questo: diversità degli effetti delle due rivoluzioni; dimostrazione che l'oppressione in nome della libertà e la difficoltà di sostituire il governo distrutto derivarono dall'inutile abbattimento di Luigi XVI; esame della rivoluzione italiana, per i fini della quale, invece, era necessaria la distruzione dei governi antecedenti. L'esame della rivoluzione francese appare troppo logico, più minuto che largo, fatto con uno spirito oramai troppo diverso da quello con cui il M. s'era messo di fronte all'eroe del Cinque Maggio, cioè all'erede della rivoluzione.
Il M. occupa un largo posto nella storia della coscienza nazionale, più che in quello della formazione e dell'unificazione politica d'Italia. Spirito contemplativo e, per sua stessa confessione, poco adatto alla vita pratica, egli non ebbe parte attiva nelle vicende contemporanee; adatto, invece, alla speculazione politica, previde in più cose esattamente l'avvenire. Ma la sua influenza va ricercata nell'intimità morale dei suoi lettori - e si riassume nel significato dell'aggettivo "manzoniano", caratteristico quanto l'aggettivo "dantesco" -, e nella storia della prosa italiana, che dopo il Manzoni ebbe altri esemplari e svariate vicende, ma non dimenticò mai del tutto la via segnata dai Promessi Sposi: i quali rimangono un insegnamento contro tutti i traviamenti verso la falsità e verso i sofismi.
La singolare grandezza di questo libro fu riconosciuta subito, e, cosa rara, anche dagli stranieri: ricordiamo Goethe, Chateaubriand, Comte, Fauriel, Villemain, Lamartine, Stendhal, Sainte-Beuve. In Italia all'entusiasmo si mescolarono per qualche tempo le diffidenze dei puristi e di coloro che, fraintendendo la forte serenità del M., credettero di vedere nel suo capolavoro una lezione di rassegnazione, deleteria in tempi di oppressione politica. Ma queste critiche ormai sono cadute, e nessuno ha mai preso sul serio le stroncature di qualche tardo e isolato iconoclasta.
I Promessi Sposi hanno un fondo storico e un'anima morale e patriottica stupendamente dissimulata, o meglio perfettamente fusa nello svolgimento artistico del romanzo. Chi legge la descrizione placida, ironica, evidente dello sgoverno spagnolo nella Lombardia del Seicento, pensa, e non solo per i riflessi di esperienze personali in qualche episodio particolare, alla Lombardia austriaca del tempo del M.: e, pur non soffermandosi troppo su quest'aspetto secondario del romanzo, s'avvede che, scritto in altri tempi, esso avrebbe assunto, anche per questo riguardo, un aspetto diverso.
L'azione si svolge nei dintorni del lago di Lecco e in Milano dal novembre del 1628 alla fine del 1630. I luoghi sono quelli più cari e più familiari al M.: e l'affetto dell'autore si tradisce nella parola piana e nei particolari modesti, che sono quelli della consuetudine di ogni giorno. I tempi anch'essi sono idealmente avvicinati al lettore, non solo da uno studio diligentissimo e insieme sobrio, ma anche dall'eccezionale capacità che aveva il M. d'infondere la vita negli avvenimenti che egli studiava, una vita ricca di sentimento e di pensiero, e di dominarli e trasfigurarli con la sua austera concezione morale e religiosa. Dei molti periodi storici indagati dal M., è questo quello che egli riuscì a ricostruire e a interpretare con maggiore profondità, quello che meglio si prestò a rivelare la ricchezza morale e artistica del suo temperamento, quello che gli offrì più numerosi e meglio concatenati motivi per dispiegare tutti i toni della sua riflessione, della sua malinconia, della sua ironia, di quella sua concezione della vita che, scrutata unilateralmente, può apparire a chi ottimista a chi pessimista, e invece sfugge all'una e all'altra definizione, come tutte le posizioni mentali che superano il sentimentalismo e il partito preso e si adeguano all'inesauribile complessità della vita. Non c'è sentimento, avvenimento, istituzione, classe sociale, dinnanzi a cui l'atteggiamento del M. appaia prestabilito e semplicistico: tipico fra tutti il caso dei sacerdoti, che proprio per questo hanno dato largo motivo di disputa ai critici.
Il primo personaggio che si presenta al lettore, è appunto un sacerdote, la figura più largamente persuasiva creata dalla fantasia del M., e quella che, circonfusa quasi costantemente da un alone d'ilarità, più può far credere a una tendenza alla caricatura degli ecclesiastici, singolare e pericolosa in un uomo credente come il Manzoni. Ma anche le azioni di don Abbondio sono pesate con un giudizio sopraffino e sono considerate con una così severa sapienza, da vincere ogni sospetto di parzialità e di superficialità. La sera del 7 novembre, don Abbondio mentre ritorna dalla sua solita passeggiata vespertina, è fermato da due bravi che, in nome del loro signore don Rodrigo, gl'intimano di non celebrare il matrimonio fra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella: fatto capitale nella vita del tranquillo curato, e che rovina quel suo sistema di condotta prudente che egli, nato in un secolo di privilegiati e di prepotenti, aveva fino allora vittoriosamente seguito, mascherando la pusillanimità nativa ed evitando i pericoli della società del suo tempo. Una grida dell'anno innanzi appunto, quella che - con la fortuna dei romanzi storici dello Scott - aveva spinto il M. a scrivere il suo libro, comminava pene terribili a chi impedisse con la violenza un matrimonio: minacce inutili sotto un govemo alleato dei signorotti e dei loro bravi, e in tempi in cui occulti legami inceppavano l'opera dei magistrati e dei sacerdoti.
L'indomani Renzo viene a cercare il curato per il matrimonio: ma don Abbondio, spaventato dall'intimazione di don Rodrigo, rifiuta il suo ufficio. Fallito il ricorso all'avvocato Azzeccagarbugli, timoroso anche lui della potenza del signorotto, si tenta un matrimonio per sorpresa. Ma don Abbondio, fatto intrepido dalla paura del tremendo signore, tronca prontamente in bocca di Lucia la formula sacramentale; e gli sposi, rimasti promessi, fuggono nella notte lontano dal paesetto, avvertiti - per il provvidenziale intervento di fra Cristoforo - che la casa di Lucia intanto era stata assediata dai bravi mandati per rapire la giovane fidanzata. La drammatica coincidenza allontana per sempre dal paese nativo i due protagonisti. Lucia e la madre Agnese si rifugiano in un monastero di Monza; Renzo si avvia a Milano con una lettera di fra Cristoforo per un confratello. Dal monastero, di cui è badessa Gertrude, monacata a forza e caduta in una tresca con un signorotto, Lucia è rapita per mano degli uomini dell'Innominato, che ha come suoi complici quel signorotto e Gertrude, e come mandante don Rodrigo; ma Lucia con il suo formidabile candore provoca lo scoppio della crisi morale già latente nell'Innominato: e, poiché la mattina dopo il ratto nel paese vicino al suo castello giunge il cardinale Federigo Borromeo, egli, invece di mandare Lucia a don Rodrigo, scende dal cardinale, gli domanda una parola di conforto verso la nuova vita, e concorda con lui la liberazione di Lucia. Renzo, capitato a Milano in un giorno di tumulti per la carestia, si alloatana dal convento, segue le vicende della giornata senza partecipare alle violenze ma compromettendosi con un discorso in cui ribollono i suoi recenti rancori contro i potenti, e cade nelle mani della giustizia; ne è però subito liberato dalla folla minacciosa, e può così varcare il confine fra la Lombardia e la Venezia. Intanto anche il protettore dei due fidanzati, fra Cristoforo, è perseguitato dalla prepotenza imperante: poiché il conte Attilio, cugino di don Rodrigo, lo addita alla vendetta familiare del conte zio, e questi obbliga il padre provinciale ad allontanarlo dal paesetto di Renzo e di Lucia. Altre grandi vicende pubbliche intralciano il matrimonio che il ravvedimento dell'Innominato renderebbe possibile: la calata dei lanzichenecchi, terribile episodio della guerra per la successione di Mantova e del Monferrato, e, conseguenza della calata, la peste. Lucia, già affidata, dopo la liberazione, alla "coppia d'alto affare", don Ferrante e donna Prassede, si ammala di peste; Renzo pure, e la ritrova al lazzaretto, dove muoiono don Rodrigo e fra Cristoforo. Fra Cristoforo prima di morire fa un ultimo beneficio aí suoi protetti: scioglie Lucia dal voto di verginità fatto nel castello dell'Innominato. Cessati, dopo tanta guerra, gli ostacoli, guarito don Abbondio della peste e della paura, gli sposi rimasti promessi diventano finalmente marito e moglie.
Così intorno a due poveri contadini, a due di quei personaggi che non hanno storia, si aggira, con una grandiosa naturalezza, tutta la più varia e significativa e solenne storia del tempo. I grandi avvenimenti toccano, con le loro propaggini, anche i più umili; e nessuno si sottrae alle forze complesse e nascoste che muovono e travagliano la società contemporanea.
Un alto insegnamento storico, poco avvertito, eppure presente in tutta la trama e in tutto lo spirito del libro, scaturisce dai Promessi Sposi insieme con un alto insegnamento morale e religioso: si deve dire, anzi, che essi fanno tutt'uno e formano, alla loro volta, un tutto con la poesia che circola in ogni pagina di questo che è uno dei libri più multiformi della letteratura universale.
La prima redazione, Gli Sposi Promessi, era senza paragone inferiore all'ultima stesura, e rimane documento più di studio che d'arte, prova di quel che possa trarre talvolta la maturazione della coscienza e della fantasia da un abbozzo fiacco e ridondante. La lettura analitica ha potuto additarvi luoghi notevoli per la storia del pensiero del M., prove della ricchezza della sua meditazione, singoli passi belli considerati come frammenti, sviluppi di episodî che restano apprezzabili anche in confronto del rifacimento, lunghe pagine sacrificate alle ragioni superiori dell'armonia complessiva: ma, neppure dinnanzi alla storia di Gertrude, sviluppata con una larghezza da romanzo inserito nel romanzo ma culminante in pagine che hanno fatto pensare a Shakespeare, neppure dinnanzi a questa parte la critica ha mantenuto il rarmmarico suscitato dalla prima rivelazione. Negli Sposi Promessi l'arte del M. era minacciata dal moralismo, dall'intellettualismo e dal realismo. Le tendenze etico-cattoliche in parte lo conducevano alla declamazione, in parte facevano parere non sempre profondissimo il suo sentimento. Le tendenze intellettualistiche gli nuocevano anche più, nel triplice aspetto del logicismo, dello psicologismo e dello storicismo. A quest'ultimo si alleava, come tendenza di reazione contro la soverchia facilità della prosa narrativa o d'invenzione, il realismo. Nei Promessi Sposi quasi sempre l'artista ha assorbito il moralista cattolico, il logico, lo psicologo, lo storico, l'osservatore: negli Sposi Promessi queste varie persone erano spesso soltanto giustapposte; sicché quell'abbozzo era lo specchio tumultuario di tutte le facce della mentalità manzoniana, non la sua sintesi artistica.
In molte parti della minuta non c'era uno stile né buono né cattivo, un modo di scrivere deliberato: c'era, a volta a volta, il meditato e l'improvvisato, l'incisivo e il prolisso; c'era, del parlar comune, il vivo, il trasandato, il fiacco, il soverchio - tutto insieme -; e c'era, del linguaggo scritto - tutto insieme - il goffo, il pesante, il pensato e il tagliente. Anche questa mescolanza di eredità vecchie e d' intenzioni nuove scomparve nella prima edizione: e perciò essa poté già sembrare un'opera fondamentale nella storia della prosa italiana. Ma vi rimaneva ancora un'evidente incertezza nell'uso spicciolo della lingua, nella scelta della parola, nel giro della frase: difettava ancora nel M. la sicurezza linguistica; si tradiva spesso in lui l'uomo nato in Lombardia, che aveva imparato con fatica e non perfettamente la lingua che scriveva. La seconda edizione riparò quasi del tutto: e questa è cosa ben nota. Ma bisogna soggiungere che i critici esaminando questa differenza fra le due edizioni, sono rimasti un po' sotto la suggestione delle intenzioni e delle opinioni linguistiche del M.: il quale fu certo guidato nel suo lavoro di lima anche da un senso musicale della lingua, che gli s'era venuto perfezionando e che, esulando da ogni norma codificabile, non ha riscontri nei suoi studî linguistici e investe l'intima natura artistica dei Promessi Sposi. Cade così ogni ragione di meravigliarsi che una revisione superficiale abbia mutato tanto notevolmente il romanzo da renderci difficile l'abitudine alla prima edizione: la revisione fu meno superficiale di quel che sembri, e fatta più dall'artista che dallo studioso della lingua.
Il fondamento dei Promessi Sposi è una considerazione non tipica ma concreta della vita umana, fatta con una perspicacia uguale alla fede, alternando - via via che la materia lo esige - la freschezza del sorriso con la gravità della meditazione e della rappresentazione. Il De Sanctis ha trovato per quest'arte, sempre nobile e non mai astratta, una formula mobilissima: "il limite dell'ideale"; ma l'ispirazione ultima e costante dei Promessi Sposi è la contemplazione sovrumana del contingente, il soffio eterno dei Promessi Sposi è la fede: senza di questo il romanzo sarebbe assai più modesto. I Promessi Sposi sono insieme la rappresentazione di un'età e il giudizio del M. sul mondo: e il criterio di questo giudizio nasce dalla sua fede intelligente. Quelli della carestia, della sollevazione di Milano e della peste sono insieme quadri e meditazioni; e le meditazioni entrano nell'anima per virtù dei quadri, e perché la parola grave di umana tristezza e d'insolita sapienza getta la sua ombra raccolta anche sulle scene vive di atteggiamenti e di mosse. In varia misura, don Rodrigo, don Abbondio, fra Cristoforo, il cardinale, Gertrude, Lucia, don Ferrante sono insieme figure e problemi spirituali: e se in don Abbondio la figura è più evidente, il problema spirituale non è però meno profondo; se in Federigo Borromeo il problema è più scoperto, la figura non è però senza maestà e senza forza di commozione. Ma in tutti i personaggi, attraverso atteggiamenti varî e con evidenza non sempre uguale, traspare un'unica preoccupazione: quella del bene finale che, secondato o conculcato o dimenticato, tradisce in ogni modo la sua presenza e la sua forza onnipotente. Lucia, l'Innominato, don Abbondio sono tre aspetti caratteristici di quest'unica potenza, di questo anelito immortale che spira da tutto il romanzo e lo solleva nella sfera dei capolavori solitarî.
C'è nei Promessi Sposi una parte che sembra estranea a questa grande aspirazione: non certo l'ironia, che è solo una forma dissimulata dì quel motivo, e una gradazione diversa, suggerita dalla ricchezza del temperamento artistico e della mente del M. e dalla varia intensità della materia; ed è indispensabile alla molteplice armonia del romanzo. Sembra estranea al sentimento religioso la realtà esterna; volti, paesaggi, ambienti. Pare, infatti, che il M. la ritragga con l'animo sgombro, per la semplice forza della fantasia pittrice. E veramente certi quadri, per la modestia del soggetto, considerati in sé stessi si direbbero solo prove di una singolare lucidità di visione. Per esempio, l'osteria della Luna piena, dove tutti i particolari si staccano e si fondono con il rilievo e con l'armonia dei grandi pittori realisti. Ma se poi da quadri di questo genere, dove i sentimenti profondi sono del tutto assenti, si passa ad altri che interessano un po' di più la nostra umanità affettiva - p. es., al vespro nel villaggio di Renzo, al lago sotto la luna, al temporale che precede la fine della peste, al paesaggio autunnale che si spiega sotto gli occhi di fra Cristoforo, allora si nota che anche in queste pagine c'è la limpidezza di quelle in cui la commozione manca affatto; e si sente che un'affinità fondamentale lega fra loro tutte queste rappresentazioni straordinariamente nitide della realtà, che il M. guardava il mondo - sotto tutti i suoi aspetti: belli, brutti, tranquilli, tempestosi - con uno sguardo in cui riluceva un'inalterabile serenità. Appunto, la luce di quello sguardo non dipende solo da una forza rarissima di fantasia: c'è in essa anche il colore dello spitito, un'abitudine costante alla considerazione calma, a scrutare le cose da vicino insieme e dall'alto. Quella padronanza assoluta delle cose rappresentate, non è solo materiale ma anche morale; la lucidità della visione manzoniana non è solo fusione della fantasia con l'oggetto, ma anche dominio dello spirito su esso.
Quando dalle liriche si viene ai Promessi Sposi sembra, per questo riguardo, che lo spettacolo cambii: ma si allarga soltanto. Anche in quelle c'è il nitore della luce che circonda e intaglia le cose, e insieme il soffio dello spirito che le solleva. Dove meglio si presta l'argomento, questa verità è evidentissima: in qualche scorcio del Cinque Maggio; in quella luminosa fuga d'immagini sintetiche che è la caccia di Carlomagno; nelle soste trepidanti degl'Italiani, nella fuga disperata dei Longobardi, nella partenza epica dei Franchi descritte nell'altro coro dell'Adelchi.
Sempre, dunque, l'arte del M. rivela uno spirito saldo, uguale, ben definito: sicché la considerazione complessiva degli svariatissimi luoghi e personaggi da lui descritti ci dà l'immagine viva di un'anima che penetra il mondo nei suoi molteplici aspetti, guidata sempre da una sola convinzione, da un'immobile fede. In questi aspetti ci sono gli umili e i sublimi: quelli che sembrano solo spettacoli o oggetti di sorriso; e quelli che sono la meta di altissime meditazioni. Ma lo scherzo bonario o amaro, la visione tranquilla, la contemplazione grave sono altrettante espressioni di una sola fisionomia: i momenti vivaci, calmi o grandiosi di una sola coscienza.
Attraverso le sfumature infinite della fantasia si rivela l'atteggiamento fondamentale di uno spirito che ha conquistato, con una dura disciplina, la sapienza essenziale e la sicurezza ultima. Il carro dei morti che diffonde intorno a sé l'orrore del disfacimento e la pensosità dei destini ultraterreni; l'agonia silenziosa di don Rodrigo; il sublime ragionare di fra Cristoforo vicino alla sua ultima ora; il transito di Ermengarda; il silenzioso tramonto del condottiero fulmineo; i rimorsi di Gertrude; le ansie dell'Innominato; il popolo italiano discorde e oppresso, del Carmagnola; quello anonimo, e come cancellato dalla storia, del coro dell'Adelchi: questi grandi varchi aperti sul mistero cristiano della morte, sulle vie dell'esistenza terrena, sopra i recessi oscuri della coscienza, sono soltanto le spie più elevate di quel mondo in cui lo sguardo scorge, a più modeste altezze, don Abbondio sorpreso nella sua passeggiata vespertina; don Ferrante che vibra eroicamente la sua vana dialettica contro la forza del contagio; Agnese che fra l'onesto e il disonesto tiene il giusto mezzo, come i galantuomini del ne quid nimis, moderatori inascoltati del cardinal Federigo; il mercante di Gorgonzola; gli osti; il paesaggio domestico di "quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti"...; e tutta questa dimora terrena familiare ai nostri occhi, e tutte queste abitudini quotidiane e occupazioni modeste, fra cui pure si svolge e trapassa questa nostra vita, che è "per tutti un impiego del quale ognuno renderà conto".
Edizioni: I Promessi Sposi uscirono per la prima volta a Milano presso Vincenzo Ferrario, nel 1825-26, in tre volumi. La seconda edizione, cioè il testo del romanzo riveduto dall'autore, uscì la prima volta nel 1840-42 (Milano, Tip. Guglielmini e Redaelli). La prima edizione delle Osservazioni sulla morale cattolica è del 1819 (Milano, Lamperti). La prima edizione del Conte di Carmagnola fu pubblicata a Milano dalla tipografia di Vincenzo Ferrario, nel 1820; la prima edizione dell'Adelchi nella stessa città, dalla stessa tipografia, nel 1822. La prima edizione di In morte di C. Imbonati porta la data Parigi, Didot, 1806; quella di Urania, la data di Milano, Stamperia Reale, 1809. Gli Inni Sacri uscirono in prima edizione a Milano, il 1815, presso la stamperia di Pietro Agnelli; vi mancava La Pentecoste che uscì in un opuscolo stampato a Milano dal Ferrario il 1822. La prima edizione del Cinque Maggio uscì a Lugano, presso Francesco Veladini [1822], col titolo Il giorno quinto di maggio voltato in esametri latini da Erifante Eritense. L'ode Marzo 1821 compare dapprima, insieme con il Proclama di Rimini, nell'opuscolo intitolato Pochi versi inediti (Milano, Tipografia di Giuseppe Redaelli, 1848). Le tragedie e le liriche riconosciute dal M. si trovano raccolte nelle Opere varie (Milano, Rechiedei, 1870) che, insieme con i Promessi Sposi, costituiscono il corpus delle opere pubblicate e accettate dall'autore.
I manoscritti del M. sono quasi tutti nella Sala manzoniana della Biblioteca Braidense.
Opere postume: Il trionfo delle libertà, a cura di L. Romussi, Milano 1878; Optre inedite o rare a cura di R. Bonghi (Milano 1883-98, voll. 5; fuori serie il vol. che contiene La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 [Milano 1889]; alle postille comprese nelle Opere inedite o rare si aggiunga G. Lesca, Postille inedite di A. M. a storici della-rivoluzione francese, in Nuova Antologia, 16 marzo 1931); Scritti postumi a cura di G. Sforza, Milano 1900; Gli Sposi Promessi, a cura di G. Lesca, Napoli 1916, e poi 1927-28 (in Le opere di A. M., edizione del centenario, II); Sentir messa, a cura di D. Bulferetti, Milano 1923; Epistolario a cura di G. Sforza, Milano 1882-83, voll. 2; Carteggio a cura di G. Sforza e G. Gallavresi, Milano 1912 e 1921 (sinora volumi; giunge fino al 1831).
Altre edizioni notevoli delle opere: Opere, a cura di G. Lesca, Firenze 1923, voll. 9; I Promessi Sposi nelle due ediäioni del 1840 e del 1825 raffrontate da R. Folli, 13ª ed., Milano 1911; I Promessi Sposi, edizione critica a cura di P. Bellezza, Milano 1908 e 1930; I Promessi Sposi, commentati da E. Pistelli, Firenze 1923; I Promessi Sposi, a cura di S. Caramella, Bari 1933; Poesie scelte e annotate da A. D'Ancona, 48 ed., Firenze 1909; Liriche scelte e interpretate da A. Momigliano, Città di Castello 1914; Gli Inni sacri, a cura di M. Chini, Roma 1933; Le tragedie, gli inni sacri e le odi nella forma definitiva e negli abbozzi, a cura di M. Scherillo, Milano 1907; Liriche e tragedie pubblicate di sugli autografi con le varianti e le successive stesure da G. Lesca (ed. del centenario, I).
Bibl.: A. Vismara, Bibliogr. manzoniana, Milano 1875; (F. Salveraglio), Catalogo della Sala Manzoniana, Milano 1890; M. Parenti, Bibliogr. manzon. Firenze 1934 segg. Per la vita: P. Petrocchi, La prima giovinezza di A. M., Firenze 1898; L. Beltrami, A. M., Milano 1898; M. Scherillo e G. Gallavresi, M. intimo, Milano 1923, voll. 3; E. Rota, A. M. e il giansenismo, in Nuova rivista storica, 1927; A. Guidi, Enrichetta M. Blondel, Legnano 1927; G. Salvadori, Enrichetta M. Blondel e il Natale del '33, Milano 1929; N. Tommaseo, Colloqui col M., a cura di T. Lodi, Firenze 1929; G. Borri, Colloqui col M., a cura di E. Flori, Bologna 1929; E. Flori, A. M. e Teresa Stampa, Milano 1930; P. P. Trompeo, Rilegature gianseniste, Milano-Roma 1930; F. Ruffini, La vita religiosa di A. M., Bari 1931 (per il punto di vista cattolico, cfr. E. Rosa, in Civ. catt., 1931, I, pp. 339-340; P. Fossi, La conversione di A. M., Bari 1933). V. inoltre le opere complessive di A. Momigliano (A. M., 1ª ed., Messina 1915-19; 2ª ed., le opere complessive di A. Momigliano (A. M., 1ª ed., Messina 1915-19; 2ª ed., 1929); A. Galletti (A. M. Il pensatore e il poeta, Milano 1927); e L. Tonelli (M., Milano 1928).
Per le opere: Intorno alle Osservazioni sulla morale cattolica, la prefazione di F. Crispolti all'edizione di quest'operetta, pubblicata in Brescia il 1906. Intorno agli scritti sulla lingua: F. D'Ovidio, Le correzioni ai Promessi Sposi e la questione della lingua, Napoli 1895; C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano 1908. Sulle opere critiche: C. Tenca, Prose e poesie scelte, Milano 1888; G. A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia, Napoli 1905, 2ª ed., Milano 1923. Sulle opere storiche: G. Lombardo Radice, Uno storico italiano della Rivoluzione francese, in Studi storici, 1900; A. Visconti, Il pensiero storico di A. M. nelle sue opere, in Archivio storico lombardo, 1919; C. De Lollis, A. M. e gli storici liberali francesi della Restaurazione, Bari 1926. Sulle tragedie: M. Barbi, Di alcuni pregiudizi intorno al "Carmagnola" del M., in Miscellanea di studi storici in onore di G. Sforza, Lucca 1915; R. Grazia, Note manzoniane, Bologna 1919. Sull'arte in genere e sui Promessi Sposi in particolare: F. De Sanctis, Studi e lezioni a cura di G. Gentile, Bari 1922; F. D'Ovidio e L. Sailer, Discussioni manzoniane, Città di Castello 1886; A. Graf, Foscolo, M. e Leopardi, Torino 1898; O. Bacci, Saggi letterari, Firenze 1898; F. Romani, Ombre e corpi, Città di Castello 1901; G. Negri, Commenti critici estetici e biblici sui "Promessi Sposi", Milano 1903-04; Tommasini-Mattiucci, Don Abbondio e i ragionamenti sinodali di Federico Borromeo, Città di Castello 1904; F. Torraca, Scritti critici, Napoli 1907; G. A. Cesareo, Critica militante, Messina 1907; F. D'Ovidio, Nuovi studi manzoniani, Milano 1908; R. Renier, Svaghi critici, Bari 1910; F. Crispolti, L'origine intima dei "Promessi Sposi", prefazione all'ed. dei Promessi Sposi, Torino 1913; A. Pellizzari, Studi manzoniani, Napoli 1914; P. Lingueglia, Pagine d'arte e letteratura, Torino 1915; A. Faggi, Il parere di Perpetua e la concezione dei "Promessi Sposi", in Giornale storico della letteratura italiana, 1916; U. Troia, Dal miracolo delle noci alle letture agiografiche del sarto, Città di Castello 1916; A. Momigliano, La trasformazione degli "Sposi Promessi", in Giornale storico della letteratura italiana, 1917; C. De Lollis, Saggi di letteratura francese, Bari 1920; N. Busetto, La composizione della "Pentecoste", Milano-Roma-Napoli 1920; E. Donadoni, Scritti e discorsi letterari, Firenze 1921; A. Momigliano, Il M. illustratore dei "Promessi Sposi", in Pégaso, gennaio e marzo 1930; B. Croce, A.M., Bari 1930 (anche per gli scritti storici, la Morale cattolica e la questione della lingua); A. Zottoli, Umili e potenti nella poetica di A.M., Milano-Roma 1931; id., Il sistema di don Abbondio, Bari 1933.