MANZI, Alberto
Nacque a Roma il 3 novembre del 1924, figlio di Ettore, tramviere, e di Maria (Rina) Mazzei, casalinga. I genitori ebbero anche un’altra figlia, Elena. Iscrittosi all’istituto magistrale, allora gratuito per gli allievi maschi, nel 1942 conseguì anche il diploma all’istituto nautico. Questo duplice orientamento della sua formazione, al tempo stesso tecnico-scientifico e pedagogico, avrebbe segnato l’intero arco dell’attività di Alberto Manzi, contribuendo a definire la cifra originale della sua proposta educativa.
Degli anni giovanili restano alcune immagini che lo ritraggono attore filodrammatico impegnato nella messa in scena di drammi sulla tragedia della Russia post rivoluzionaria, come Il grande sacrificio di Angelo Sala, «dramma in tre atti sulla persecuzione religiosa in Russia», come recitava il sottotitolo dell'opera, edita nel 1938.
Chiamato alle armi nella marina militare italiana, dove prestò servizio come sommergibilista, il primo giugno del 1945 ricevette il diploma d’onore in riconoscimento alla sua appartenenza al gruppo di combattimento Folgore «durante la Guerra di Liberazione contro la Germania». L’esercito, la bandiera, l’onore militare, una forte idealità patriottica e civile, i valori che si ritrovano nelle poesie dei primi anni Quaranta, descrivono il profilo di un giovane che si appresta all’impegno pubblico nell’Italia democratica e repubblicana con un forte sentimento nazionale.
Nel 1944, intanto, era nata Alda, avuta dalla relazione con Ida Renzi, con cui avrebbe ufficializzato il matrimonio nel 1946 e che gli avrebbe dato altri tre figli, Massimo, Roberta e Flavia. Come il marito, Ida Renzi era una maestra e scriveva racconti per bambini. Con il componimento Vecchio Orso vinse nel 1952 il premio del Maestro, indetto dalla Radio italiana per la trasmissione “La radio per le scuole” (Raccomandata intestata Rai Radio Italiana del 23 giugno 1952 e indirizzata alla «signorina Renzi Ida», consultabile al seguente indirizzo:http://www.centroalbertomanzi.it/seupload/raccomandataradio.pdf).
Finita la guerra e laureatosi in biologia, Alberto Manzi cominciò l’attività di maestro. Il suo primo incarico, nel 1946, fu presso l’istituto romano di rieducazione Aristide Gabelli. Vi restò un anno, ma quell’esperienza era destinata a ricoprire una notevole importanza nella sua vicenda biografica e professionale. Poco più che ventenne, Manzi si trovò allora a dover fronteggiare una 'classe' di 94 allievi, tra i nove e i diciassette anni e mezzo. Come avrebbe raccontato a Roberto Farné in un’intervista del 1997, si guadagnò il diritto a fare scuola sfidando a pugni il capo del gruppo dei ragazzi (TV buona maestra, La lezione di Alberto Manzi). I risultati furono notevoli. Al Gabelli Manzi realizzò un giornale mensile, La tradotta, il primo nel suo genere in un riformatorio, e dalla collaborazione con i giovani detenuti nacque la storia di Grogh da cui nel 1950 sarebbe venuto fuori il primo romanzo, Grogh appunto, storia di un castoro, pubblicato da Bompiani.
Il racconto di Manzi e l’esperienza che ne aveva fatto con i ragazzi del riformatorio romano attirarono l’attenzione del Movimento di collaborazione civica.
Il Movimento era stato fondato a Roma sul finire del 1945 da Giuliana Benzoni e si prefiggeva di educare i cittadini dell’Italia appena uscita dalla guerra ai costumi della democrazia. Vi collaboravano Ignazio Silone, l’educatore Cecrope Barilli, Giuseppe Dessì ed Ebe Flamini (Zucconi, 2000, pp. 64-73). Si rivolgeva soprattutto agli studenti, medi e universitari, che impegnava in un’intensa attività di volontariato e di assistenza sociale.
Nel 1947 il Movimento aveva promosso il premio Collodi per un’opera di letteratura infantile, con l’obiettivo di rinnovare, dopo gli anni del fascismo, il quadro della produzione letteraria destinata ai giovani, liberandola tanto dal suo banale moralismo quanto dai moduli frusti della vecchia avventura salgariana. Grogh fu presentato al concorso e premiato come miglior libro da una giuria di cui facevano parte Antonio Baldini, Ignazio Silone, Corrado Alvaro e Cesare Zavattini.
Cominciava così, nel quadro di un intenso fermento civico di rinnovamento della pedagogia italiana del dopoguerra, la vicenda di Manzi come scrittore per l’infanzia.
Pochi anni più tardi sarebbe arrivato Orzowei, il libro certo di maggior successo dell’autore, premio Andersen nel 1956, riedito da Bompiani in quello stesso anno dopo essere uscito nel 1955 per Vallecchi e tradotto in 32 lingue.
Orzowei, «il trovatello», è il nomignolo dispregiativo affibbiato a Isa, ragazzo bianco abbandonato che cresce in un villaggio di neri bantu in Sud Africa. Il suo sarà il destino di un uomo doppiamente escluso. Scacciato dal mondo che pure lo aveva accolto bambino perduto, ad Isa è chiusa la via di un ritorno alla comunità bianca. È un «muso bianco», come ha notato a suo tempo Antonio Faeti, dopo che la letteratura per ragazzi aveva approntato un lungo catalogo di musi neri, musi gialli, musi rossi (A. Faeti, Gli amici ritrovati. Tra le righe dei grandi romanzi per ragazzi, Milano 2000, p. 210).
Soprattutto, Isa muore, ucciso in una guerra tribale. È una scelta che ritorna nella narrativa di Manzi e che rivela molto della sua pedagogia difficile. Se non fosse così, ha spiegato a suo tempo l’autore, il lettore si sentirebbe autorizzato a rimuovere da «dentro di sé» il problema che Isa si è posto e così, soddisfatto, non ci penserebbe più: «No, il problema non è risolto. Isa muore ammazzato nel tentativo di risolvere il problema, ma non ci riesce. Muore e passa il problema al lettore che, da questo malessere causato dal finale inaspettato, deve sentirsi pungolato a risolvere, perlomeno a tentare di risolvere, anche solo nel suo piccolo, il problema che Isa gli lascia: è necessario che l’uomo torni – o cominci – a rispettare l’uomo. Questo il problema da risolvere» (Alberto Manzi. Storia di un maestro, a cura di F. Genitoni - E. Tuliozi, Modena 2009, p. 40). A metà degli anni Settanta, il romanzo sarebbe stato trasformato da una produzione italo tedesca in una serie televisiva, trasmessa dalla prima rete RAI in tredici puntate a partire dal 28 aprile del 1977.
Alla fine degli anni Quaranta, intanto, a Milano, dove si era recato per ritirare il premio Collodi, Alberto Manzi aveva conosciuto Domenico Volpi. Volpi era allora il nuovo direttore del Vittorioso, il settimanale per ragazzi fondato nel 1937, ma fin dal 1946 faceva parte dell’ufficio centrale del movimento Aspiranti a Roma. In quel biennio fatale per la storia della nuova democrazia italiana, il movimento rappresentò un aspetto molto significativo del rinnovato impegno politico della gioventù cattolica intorno alla figura di Pio XII. Nel 1948, quell’impegno sarebbe culminato con il clamoroso raduno a Roma dei 'baschi verdi' e con il richiamo che esso portava con sé agli «arditi della fede» a radunarsi come «un esercito» intorno all’«altare» della Chiesa cattolica (Cfr. Preziosi, 2000, pp. 200-206).
Volpi volle Manzi come collaboratore del periodico, affidandogli la parte relativa alla divulgazione scientifico-naturalistica. Sul Vittorioso Manzi avrebbe scritto molto nel corso degli anni Cinquanta, in particolare per la rubrica “Occhi sul mondo” e le tante voci della “piccola enciclopedia”.
La prima metà degli anni Cinquanta rappresentò, dunque, un momento di passaggio importante nella biografia di Manzi. Dopo l’esperienza romana nel riformatorio Aristide Gabelli, insegnò a Campagnano di Roma, mentre si preparava per la sua seconda laurea in pedagogia, specializzandosi successivamente in psicologia.
Fu questa l’occasione per entrare in contatto con Luigi Volpicelli (che lo volle suo assistente nel 1953) e, per suo tramite, con quel lavoro di riformulazione dei presupposti intellettuali della pedagogia italiana cominciato già negli anni Trenta nel quadro della critica fascista all’idealismo gentiliano. Si trattò di un incontro decisivo e molto importante per valutare adeguatamente la posizione intellettuale dello stesso Manzi e della sua originale esperienza magistrale nell’evoluzione delle idee educative tra fascismo e post fascismo. Nel tentativo di uscire dalla cornice 'liberale' e 'borghese' della teoria idealistica dell’educazione, Volpicelli, che pure era stato allievo di Gentile con il quale si era laureato nel 1927, aveva cominciato infatti già a partire dai primi anni Trenta un lavoro di ricerca che lo avrebbe portato lungo quel decennio a riconoscere l’importanza del modello sovietico di scolarizzazione di massa e, più in generale, la rilevanza politica e teorica del nesso tra costruzione di un ordine sociale di tipo nuovo e riforma della scuola (Parlato, 2000, pp. 183-184). Lavoro e politica erano, nella concezione di Volpicelli, i pilastri di un rinnovamento dell’istruzione che doveva assicurarne, finalmente, l’allineamento alle ambizioni totalitarie del fascismo. Su questa linea si sarebbe mossa la politica scolastica di Giuseppe Bottai, del quale Volpicelli fu uno dei principali ispiratori sul terreno pedagogico.
È a questa influenza decisiva, allora, cui non erano estranee nemmeno le sollecitazioni provenienti dal pragmatismo americano à la John Dewey, che bisogna ricondurre l’interesse, più volte rilevato, di Manzi per le nuove correnti attivistiche della teoria dell’educazione, e in particolare per l’opera dello studioso sovietico Lev Vygotskij.
Sulla base di questo aggiornamento intellettuale, la generazione di giovani studiosi di pedagogia a cui apparteneva Alberto Manzi, e in generale i maestri formatisi tra gli anni Trenta e Quaranta che sarebbero entrati nei ruoli della pubblica istruzione finita la guerra, si metteva così in contatto con quelle questioni molto speciali che una società arretrata, a forte base rurale contadina, poneva sul terreno della riforma scolastica ed educativa: il problema di come insegnare ai poveri.
Nei primi anni Cinquanta, tale complesso di questioni ricompariva nella spiccata sensibilità che Manzi riservava ai problemi della scolarizzazione delle classi popolari, e in maniera specifica a quello che da sempre era il tema cruciale e irrisolto dell’impianto di un sistema scolastico moderno e di portata nazionale: la perifericità del mondo rurale, la sua irraggiungibilità.
Al problema delle scuole rurali, Manzi dedicava i suoi appunti: abbandonate nelle loro strutture materiali e nella qualità degli insegnanti che venivano loro destinate, si legge in un quaderno di quegli anni, le scuole dei contadini mancavano al loro obiettivo minimo, insegnare a leggere e scrivere. Provate a far leggere gli alunni di una quinta rurale, osservava retoricamente Manzi. Fate scrivere per iscritto i loro pensieri (Che cosa va male nelle scuole rurali?, in Genitoni - Tuliozi, 2009, p. 34).
Il rapporto con Volpicelli, ad ogni modo, non valse a tenerlo all’Università. Nel 1954, Manzi lasciava la Scuola sperimentale del magistero di Roma.
Un evento sicuramente centrale di quegli anni, e come è facile intuire tutt’altro che estraneo alla tematica popolare-contadina della pedagogia di Manzi, fu il viaggio in America latina. La duplice formazione, scientifica e pedagogica, fece valere qui la sua peculiarità. Nell’estate del 1955, infatti, Manzi ricevette dall’università di Ginevra un incarico per ricerche scientifiche nella foresta amazzonica. Andato per studiare le formiche, vi avrebbe scoperto molto di più. Fu la rivelazione delle condizioni sociali del mondo rurale latino americano, tra Ande e Amazzonia, e l’inizio di un rapporto, non senza pericoli, che sarebbe durato per oltre vent’anni, fino al 1977. Da allora in poi, tutte le estati, Manzi si sarebbe recato ad insegnare 'agli indios' a leggere e a scrivere, prima da solo e poi accompagnato da un gruppo di studenti universitari. Il 'maestro' elaborò un vero e proprio programma per la scolarizzazione dei contadini sudamericani e nella sua attività poté contare sull’appoggio del pontificio ateneo salesiano. Di quell’esperienza restano quattro romanzi, La luna nelle baracche (Firenze 1974), El loco (Firenze 1979), E venne il sabato e Gugù, pubblicati postumi (Iesa, Monticiani (SI) 2005). Il tema italiano del popolo, nella sua specifica declinazione rurale contadina, di cui si sono viste le complesse ascendenze ideologiche, tra fascismo e post fascismo, si offre ad Alberto Manzi come una perspicua chiave di lettura dell’esperienza in Sudamerica: di fronte alla brutale violenza della sfruttamento dei contadini e alle inquietudini teologiche che in quegli stessi anni attraversano il sub continente latino americano, Manzi ritrova le ragioni di un’opzione a favore della 'periferia' che tanta parte ha nella costruzione della sua pedagogia e che lo colloca in uno spazio ideologico difficile da definire, all’interno del quale si ritroveranno, nel corso degli anni, spinte populiste, pedagogie degli oppressi, guevarismo e peronismo.
Maestro elementare nella scuola intitolata ai fratelli Bandiera a Roma, Manzi fu particolarmente attivo sul fronte della letteratura per ragazzi, sia come riduttore e traduttore di classici (Il libro della Giungla, L’isola del tesoro), sia come autore di libri di divulgazione scientifica.
Tutta questa prima fase della sua attività educativa culminò nel 1960 con la celebre trasmissione Non è mai troppo tardi (1960-1968). Manzi aveva già avuto un’intensa collaborazione con la Radio italiana. Sfruttando l’esperienza del Gabelli, già nel 1950 aveva ideato, per la trasmissione Il vostro racconto, un romanzo da scrivere alla radio costruendolo, puntata dopo puntata, con i contributi narrativi dei giovani ascoltatori. Il racconto si intitolava Il tesoro di zi’ Cesareo. Manzi ne aveva scritto il capitolo iniziale.
La trasmissione televisiva era un’ idea di Nazzareno Padellaro, pedagogista cattolico e direttore, tra il 1939 e il 1943, della rivista Tempo di scuola, altro luogo di propaganda e di discussione del progetto politico pedagogico di Bottai (Raicich, 1996, p. 382). Nel dopoguerra Padellaro aveva recuperato la sua posizione di alto funzionario della scuola ricoperta durante il fascismo e ai tempi di Non è mai troppo tardi era direttore generale del ministero della Pubblica istruzione.
La struttura del progetto prevedeva che la messa in onda della trasmissione fosse accompagnata e sostenuta sul territorio nazionale dalla costituzione di punti di ascolto televisivo, i cosiddetti PAT, oltre duemila. Un insegnante avrebbe seguito la trasmissione insieme al pubblico di allievi e poi svolto con loro l’attività didattica di consolidamento.
Non è mai troppo tardi nacque nel quadro di un impegno all’epoca molto forte della televisione di Stato sul terreno dell’alfabetizzazione delle classi popolari e più in generale della divulgazione culturale. La trasmissione faceva parte dei programmi di Telescuola, i cui corsi erano iniziati nel 1958 con il sostegno del ministero della Pubblica istruzione e con l’ obiettivo di consentire ai ragazzi che risiedevano in zone dove non era arrivata l’istruzione post elementare di portare a compimento il ciclo dell’obbligo. Ma nel suo ambito andarono in onda, tra il 1960 e il 1964, anche le centinaia di puntate registrate dal pittore Enrico Accatino dedicate all’educazione artistica.
Ispiratrice di Telescuola e sua direttrice fu Maria Grazia Puglisi, una professoressa di storia e filosofia a Roma che aveva lavorato all’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), come annunciatrice, fin dal 1940. Caposezione dei programmi culturali della RAI nel dopoguerra, dopo un viaggio di studi negli Stati Uniti, aveva ideato Teleclub (1953).
L’idea che stava alla base del programma (e che portò ad individuare in Alberto Manzi il maestro cui affidare Non è mai troppo tardi) era di superare la concezione della didattica televisiva come messa in scena, davanti ad un pubblico remoto, di una situazione del tipo insegnante più classe. L’obiettivo era: fare di quello stesso pubblico la propria classe. Di qui la necessità di trovare un maestro in grado di tradurre questa intuizione in una didattica concepita in funzione delle esigenze e delle potenzialità del mezzo e non semplicemente di usare la televisione al servizio della didattica scolastica (Farné, 2012).
Alberto Manzi fu capace di fornire questa soluzione e divenne la chiave dello straordinario successo della trasmissione. Messo di fronte alla telecamera, chiese ed ottenne dei fogli e un carboncino per disegnare di fronte agli spettatori lettere e parole. Lo stratagemma si rivelò efficacissimo. Nel 1965, Non è mai troppo tardi venne premiata a Tokyo, su indicazione dell’UNESCO, come una delle trasmissioni televisive più efficaci nella lotta contro l’analfabetismo e ancora nel 1987 il suo storico conduttore ricevette dal governo argentino l’invito a tenere un corso per i docenti universitari che avrebbero dovuto elaborare il Piano nazionale di alfabetizzazione. Due anni più tardi l’ONU riconobbe gli sforzi dell’Argentina e conferì al paese un premio internazionale per il migliore programma di alfabetizzazione adottato in tutto il Sudamerica.
La scuola dove Alberto Manzi tornò alla fine della sua esperienza televisiva era la stessa dove già insegnava da anni e dove sarebbe rimasto fino al conseguimento della pensione, l’istituto Fratelli Bandiera di Roma. Il metodo di Manzi, su cui si è molto insistito, la sua pedagogia anti formalistica, quel suo muovere da casi concreti, da quello che i bambini portavano in classe, era profondamente radicato nella tradizione scolastica, più di quanto di solito si creda. Quando ad esempio Manzi racconta, nell’intervista a Roberto Farné, del bambino che gli chiede delle corde vocali, nota che il bambino, per il quale le corde vocali sono ventuno, tante quante le lettere dell’alfabeto italiano, porta con sé e combina due tipi di conoscenze, una appresa prima e fuori della scuola, il fatto appunto di possedere le corde vocali, e l’altra frutto di quel tipo particolare di sapere che è il sapere appreso in classe, l’alfabeto. Nella sua spiegazione Manzi ritiene di dover partire da questo dato. Ora è forse utile notare in proposito che in questo modo, il maestro elementare riassume le due questioni fondamentali dell'insegnamento così come sono state codificate da una lunghissima tradizione che risale nientemeno che a Platone e Aristotele. L’idea cioè che l’allievo non entra in classe con la testa vuota, pronta per essere riempita dal maestro, e che insegnare significa al tempo stesso trasmissione di contenuti e confutazione di false credenze. In ogni caso, da qualsiasi lato lo si voglia cogliere, l’insegnamento è sempre commisurato alla capacità di colui che lo riceve. È in altri termini il principio, fissato nel XVII secolo, della ratio auditoris e che diventa la base della fondazione della scuola in senso moderno, in quanto cioè scuola per tutti. La rilevanza di Alberto Manzi, nella tradizione scolastica repubblicana, sta allora nel testimoniare la profondità di una cultura magistrale non ancora risolta sul piano di un empirismo frammentario e senza spessore.
Amatissimo dai suoi allievi e vivo nel ricordo degli ex alunni, Manzi fu anche un maestro molto insofferente nei confronti della crescente burocratizzazione della scuola italiana che a partire dalla seconda metà degli anni Settanta subiva una nuova stretta.
Nel 1977, infatti, la legge n. 517 del 4 agosto impose ai maestri della scuola elementare la scheda di valutazione personale degli alunni. Il maestro era tenuto a compilare e a tenere aggiornato un documento in cui dovevano essere riportati, «con osservazioni sistematiche», i livelli di maturazione raggiunti dai bambini. Un anno dopo, il ministero precisava, con la circolare n. 243 del 21 ottobre 1978, che le osservazioni dei maestri non potevano ridursi al solo profitto scolastico, ma dovevano prendere in considerazione l’espressione dell’intera personalità dell’alunno in ogni sua manifestazione.
Alberto Manzi si rifiutò di compilare le schede di valutazione e per due anni consecutivi, dal 1978 al 1980, non ottemperò alla richiesta del ministero. Deferito al Consiglio di disciplina del Provveditorato agli studi di Roma, fu sospeso per due mesi dall’incarico e vide dimezzato il suo stipendio.
Le polemiche suscitate dalla decisione del provveditore arrivarono fino all’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini al quale si indirizzarono i genitori degli alunni di Manzi in difesa dell’operato del maestro (Corriere della Sera, 23 maggio 1981, ora in Archivio del Centro Alberto Manzi).
Nelle motivazioni che Manzi oppose alla burocrazia ministeriale agivano, sicuramente, forti argomenti di derivazione attivistica ma più in generale una decisa resistenza alla riscrittura dell’identità infantile sulla base degli assunti del progressismo pedagogico, con le sue richieste di uniformità comportamentali e con la sua insistenza sull’integrazione comunitaria dell’individuo: «Non è mio dovere – affermava nell’intervista al Corriere della Sera dopo i provvedimenti disciplinari a suo carico – parlare della vita del ragazzo, della sua partecipazione individuale alla vita della scuola […] non è mio dovere […] dare un giudizio relativo al comportamento psicologico dell’alunno». Obbligato ad ottemperare alle richieste del ministero, Alberto Manzi oppose il suo laconico giudizio: in ogni caso, l’allievo fa quel che può e quel che non può non fa.
Da questo punto di vista, Alberto Manzi è il tipico rappresentante di una generazione di maestri che si era formata nel quadro di una cultura pedagogica che affidava ancora alla scuola il compito principale di accompagnare lo sviluppo della autonoma personalità intellettuale del bambino senza sopportare nessuna forma di riduzionismo cognitivo (A. Manzi, Verso una scuola di pensiero, in Tensione cognitiva. Un’ antologia di scritti di Alberto Manzi sull’educazione scientifica, introduzione di R. Farné, Università di Bologna, Centro Alberto Manzi, s.d., pp. 8-13). In questo Alberto Manzi sarebbe rimasto fino alla fine fedele alla lezione appresa alla scuola di Luigi Volpicelli, che aveva declinato l’attivismo pedagogico sulla linea di una tradizione educativa italiana molto concreta e, soprattutto, sempre consapevole «dei bisogni del paese» (Volpicelli, 1961, pp. 78-83).
Messo a riposo a partire dal 1987, Manzi si trasferì a Pitigliano in provincia di Grosseto con la seconda moglie, Sonia Boni. Aveva incontrato Sonia nel 1982 alla scuola elementare Fratelli Bandiera, dove la giovane collega prestava servizio come supplente. Dalla loro relazione sarebbe nata, il 20 settembre del 1988, Giulia.
Dopo aver fatto parte nel 1993 della Commissione della legge quadro in difesa dei minori, l’anno successivo Manzi accettò la candidatura a sindaco del comune di Pitigliano offertagli dai Democratici di sinistra.
Si spense il 4 dicembre del 1997 all’età di 73 anni.
Le carte di Alberto Manzi, conservate presso l’archivio dell’omonimo centro, sono state donate dall’autore all’Università di Bologna. L’intervista a Roberto Farné, Tv buona maestra. La lezione di Alberto Manzi, per la regia di Luigi Zanolio, del 13 giugno 1997, a cura del Dipartimento di scienze dell’educazione dell’Università di Bologna, è visibile al seguente indirizzo:
https://www.youtube.com/watch?v=gKQ7GbworSw (15 gennaio 2016).
L. Volpicelli, Idea dell’attivismo, in G. Frontali - A. Marzi - L. Volpicelli, Il fanciullo (dai sei ai dodici anni), Torino 1961; M. Raicich, Di grammatica in retorica, Roma 1996; G. Parlato, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna 2000; A. Zucconi, Cinquant’anni nell’Utopia, il resto nell’aldilà, Napoli 2000; Che cosa va male nelle scuole rurali?, in Alberto Manzi. Storia di un maestro (catal.), a cura di F. Genitoni - E. Tuliozi, Modena 2009, p. 34; R. Farné, Alberto Manzi, in il Mulino, 2012, 4, online al seguente indirizzo:
http://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:2518 (15 gennaio 2016); E. Preziosi, Il Vittorioso. Storia di un settimanale per ragazzi. 1937-1966, Bologna 2012; G. Manzi, Il tempo non basta mai. Alberto Manzi, una vita tante vite, scritto in collaborazione con A. Falconi e F. Taddia, Torino 2014; sull’esperienza di Telescuola e sulla figura di Maria Grazia Puglisi cfr. della stessa Funzione sociale del mezzo televisivo. Un’ esperienza: Telescuola, Quaderno del gruppo campano UCID, s.l. 1960.