ALBERTO AZZO
Della stirpe degli Obertenghi, visse tra la fine del decimo e la fine dell'undecimo secolo; morì nel 1097. Dal padre, marchese Alberto Azzo I, ereditò il governo della Marca della Liguria Orientale, comprendente i comitati di Luni, Genova e Tortona, ai quali tuttavia era sottratta la giurisdizione delle città di Genova e Tortona (fin dal 958 i cittadini di Genova avevano ottenuto da Berengario II che nessun ufficiale regio potesse esercitare le proprie funzioni nell'ambito della città; il districtus sulla città di Tortona e tre miglia intorno era stato concesso fin dal 979 da Ottone II al vescovo), del comitato di Milano e probabilmente anche della iudiciaria Montesilicana. In tutti questi comitati l'esercizio effettivo della sua autorità era tuttavia quasi del tutto scaduto di fronte alle nuove forze, ecclesiastiche e cittadine, che la politica dei re italici prima, degli imperatori tedeschi poi, e la naturale evoluzione economico-sociale avevano potenziato.
Nel luglio 1014 gli furono confiscati i beni da Enrico II, perché aveva partecipato, insieme con il nonno Oberto II, il padre e gli zii, all'ultimo tentativo d'una parte della grande feudalità laica italiana, condotta da Arduino d'Ivrea, di opporsi al sovrano tedesco. A. doveva avere allora circa diciott'anni. La sua disgrazia, se pure non durò a lungo (intorno al 1019 gli Obertenghi erano rientrati nel favore imperiale), ebbe certo una notevole importanza in ordine al peso ed all'incidenza che il marchese avrebbe potuto avere nella vita politica del suo tempo, viste le possessioni ed i comitati di cui era erede. Le forze ecclesiastiche e quelle laiche ad esse legate, infatti, non poterono che trarre nuovi vantaggi, oltre a quelli già acquisiti, dalla impotenza cui erano ridotti gli Obertenghi, così che finirono con il sostituire praticamente l'autorità del conte e del marchese nell'ambito della sua giurisdizione, portando a termine un processo che aveva avuto i suoi inizi già prima dell'età degli Ottoni. Esempio tipico Milano, ove la nobiltà cittadina, rappresentata dai "capitanei", si legò sempre più all'arcivescovo, divenendone vassalla, e dove il "vicecomes" finì col dipendere dalla massima autorità ecclesiastica anziché da quella laica.
Nel campo più ristretto dei rapporti familiari, l'allentarsi dei vincoli, una volta assai stretti, tra il ramo obertino, al quale apparteneva. A., e quello adalbertino, non fu dovuto probabilmente solo alla morte di Oberto II ed alla divisione patrimoniale che ne seguì dopo il 1014, ma anche alle lotte politiche di questi anni, che videro membri della famiglia obertenga schierati su fronti opposti. Entrato successivamente, durante il regno di Corrado II, nell'orbita della politica imperiale, A. si legò alle tradizioni ed al mondo germanico, contro le precedenti tradizioni e spinto da soli motivi d'interesse, sposando probabilmente su ispirazione stessa dell'imperatore, tra il 1034 ed il 1036, Cunizza, figlia di Guelfo II conte di Altdorf, possessore di vasti beni in Svevia e Baviera; da questo matrimonio trasse, oltre che indubbi vantaggi politici, anche notevoli vantaggi materiali nell'ambito del territorio di Monselice, ove gli Obertenghi avevano già beni e, probabilmente, giurisdizione. La sua figura acquistò infine fisionomia intera allorché, morto il padre, la cui probabile ultima attestazione rimonta al più tardi al 1026, e morto lo zio Ugo durante l'assedio posto da Corrado II a Milano contro il ribelle arcivescovo Ariberto nella primavera del 1037, A. entrò in possesso dei beni e dei titoli che erano stati dei suoi progenitori.
Non essendo in grado di fare una politica propria, A. seguì - e ne fu strumento - la politica di Corrado II prima, come attesta il suo matrimonio, di Enrico III poi, sotto il regno del quale abbiamo il maggior numero di testimonianze della sua crescente attività politica. Titolare di quel comitato di Lunigiana la cui importanza come passaggio tra il Nord ed il Sud d'Italia è nota, ed in cui l'influenza del marchese obertengo era assicurata non tanto dal titolo comitale, quanto dalla proprietà di numerosi beni situati in punti strategici (Arcola, Pontremoli, la valle del Teverone) dominanti i passi della Cisa e del Bretello (passaggi per la Toscana e l'Emilia); titolare inoltre anche di quel comitato di Milano in cui più evidenti che altrove erano i segni dell'evoluzione sociale-economico-politica della società italiana, in condizioni di giovarsi della particolare politica di Enrico III, era naturale che egli potesse riaffermare la sua influenza. Probabilmente estraneo alla lotta scatenatasi a Milano nel 1042 tra i "cives" ed i "valvassores" ed i "capitanei" neganti i diritti cui i primi anelavano, A. svolse in questo torno di tempo la sua azione nel comitato genovese, ove, nel gennaio 1044, presiedette, insieme con il cugino Alberto, un placito a favore del monastero di S. Fruttuoso. Pacificatasi Milano nel gennaio 1045, il marchese nel novembre dello stesso anno era già nella città intento ad esercitare il proprio ufficio di conte, presiedendo un placito a favore dei canonici di S. Ambrogio, circondato dai propri vassalli, esempio tipico del tentativo fatto da Enrico III per raggiungere il dominio sulla capitale lombarda rivalutando, tra le altre, anche forze, come quelle dei conti, che le recenti vicende avevano fatto decadere. Naturalmente la restaurazione del conte di Milano, il cui ultimo placito prima di questo risaliva al 1021, fu cosa effimera: è questo l'unico atto di giurisdizione di A. sul comitato di Milano di cui rimanga memoria, per quanto il marchese ne sia rimasto sempre titolare.
Nel luglio del 1047 partecipava ad un placito a favore della Chiesa di Piacenza, presieduto a Broni dal messo regio Rinaldo, anche in questo caso strumento attivo della politica enriciana intesa a ristabilire l'autorità centrale risolvendo conflitti possibili o con l'invio di messi regi o col proprio intervento personale. Il 30 nov. 1050 era nell'avito comitato lunigianese, ad Arcola, per una donazione al monastero di S. Venerio al Tino, nella sua qualità di "comes istius Lunensis comitatus". La nomina del cognato di A., Guelfo III, a duca di Carinzia con annessa anche la marca veronese, nel giugno 1047, aumentò certo ancora il prestigio del marchese obertengo, possessore di beni nella marca veronese. A ciò concorse probabilmente un preciso calcolo politico in funzione anticanossiana: si pensi all'atteggiamento ostile all'imperatore preso da Bonifacio di Canossa negli anni 1047-48.
Tra il 1049 ed il 1051 A. contrasse un secondo matrimonio con una dama francese, figlia del conte del Maine, Erberto Svegliacane, vassallo del conte d'Angiò, nozze forse sollecitate dallo stesso conte d'Angiò, Goffredo il Martello, nell'intento di aver l'aiuto di qualche potente nella lotta che andava conducendo contro il duca di Normandia Guglielmo, per conservare il predominio nel Maine. Non sappiamo tuttavia se questo matrimonio poté essere accetto ad Enrico III, né quali vantaggi materiali ne trasse il marchese.
Nel giugno 1055 A. riconobbe, in un giudizio presieduto dall'imperatore a Borgo S. Ginesio, la proprietà della corte di Naseto, situata sullo spartiacque appenninico verso Reggio, al monastero di S. Prospero di Reggio. Non è necessario vedere in questo episodio un indizio d'una posizione di Enrico III ostile al marchese; si trattava di uno dei tanti casi in cui un laico si era appropriato di beni ecclesiastici; d'altra parte, nella fattispecie, il marchese poteva credere in buona fede di avere dalla sua il diritto. La morte di Guelfo III di Carinzia, avvenuta il 13 nov. 1055, non fece altro che rafforzare ed estendere l'influenza di A.: la vasta eredità dei Guelfi, infatti, andò tutta al figlio del marchese e nipote del defunto, Guelfo, che si nominò IV, e che ebbe tanta parte nella lotta scoppiata nel ventennio successivo contro Enrico IV.
Non abbiamo notizie precise del marchese durante il burrascoso periodo seguito alla morte di Enrico III, che vide lo sviluppo del movimento popolare riformatore in Milano ed il delinearsi aperto della crisi nei rapporti tra papa ed imperatore. Probabilmente A. fu favorevole alle correnti più illuminate dell'elemento ecclesiastico, propugnatrici di una profonda riforma nel costume e nelle abitudini del clero. Nel 1069 si recò in Francia col figlio Ugo, su sollecitazione unanime della popolazione del Maine e fors'anche con l'appoggio del nuovo conte d'Angiò, Folco le Requin, desiderosi l'una e l'altro di sottrarre la regione al dominio normanno che Guglielmo era riuscito praticamente ad imporre nel 1063.
S'oppose alla chiamata ed alla venuta del marchese italiano il clero locale con alla testa il vescovo Arnaldo. Tuttavia ragioni, diciamo così, materiali, l'esaurirsi cioè dei mezzi che avevano permesso ad A. di impadronirsi del Maine e di accattivarsene il popoìo ed i capi, l'ostilità del clero costantemente filonormanno, e forse anche la necessità di tornare in Italia, dove la scomparsa di Goffredo di Lorena, morto il 24 dic. 1069, poteva provocare mutamenti nella situazione politica, resero breve il soggiorno del marchese in Francia e vane le velleità con cui certamente s'era recato al di là delle Alpi. Già prima della quaresima del 1070 A. abbandonò la regione, lasciandovi, ma inutilmente, il figlio Ugo, che a sua volta prima del marzo 1071 era già di ritorno, e la moglie Gersenda, di cui non si sa più nulla.
In Italia il marchese dovette dimorare in Lunigiana, ove catturò, in una data non precisabile tra il marzo 1071 e il giugno 1073, il vescovo di Le Mans, Arnaldo, di ritorno da una sua missione a Roma. Lo fece probabilmente più per personali motivi d'inimicizia sorti durante il soggiorno francese, che non per motivi generali d'ostilità nei riguardi del clero e della Chiesa. Presumibilmente dal giugno 1073 il marchese obertengo spostò definitivamente la sua residenza dalla parte occidentale dei suoi territori (Lunigiana, Tortonese, Genovesato), ove per lo più sino allora aveva agito, a quella orientale, e precisamente nel territorio veneto. Quasi tutti gli atti conosciuti, successivi a questa data, sono infatti per lo più stipulati ad Este, sede poi definitiva della casata estense che appunto da A. discese. Il primo di questi atti, una donazione fatta dal figlio Guelfo IV, col consenso paterno, all'abbazia camaldolese della Vangadizza, è appunto del 21 giugno 1073. Le ragioni che spinsero il marchese obertengo ad allontanarsi dalle terre originarie della sua casa non ci sono del tutto chiare: si possono forse porre in relazione con l'acquisto da parte di A. del comitato di Gavello, del quale egli è, secondo alcuni studiosi, il primo tra gli Obertenghi ad essere titolare.
Le importanti vicende del pontificato di Gregorio VII videro spesso in primo piano la figura del marchese, riprova dell'importanza e influenza materiale che egli doveva avere, nonostante che i titoli di cui si fregiava fossero solo formali, tipico esempio dell'atteggiamento assunto dalla feudalità italiana nei frangenti di una lotta, quella delle investiture, che poneva in discussione questioni di principio e grandi interessi materiali. A. partecipò al primo sinodo tenuto nella quaresima del 1074 da Gregorio VII, probabilmente per il desiderio del papa di prendere contatto diretto con quegli elementi laici che potevano appoggiarlo nel suo programma di riforma; ed il marchese obertengo, per le sue vaste parentele (suo figlio Guelfo IV era dal 1070 duca di Baviera), per la sua esperienza e per le relazioni contratte in Francia, per le sue ricchezze, era probabilmente tra quelli sui quali il papa contava. E che in questo momento egli godesse la piena fiducia del grande pontefice risulta da una lettera del 17 marzo 1074 con cui Gregorio VII lo indica al duca Géza d'Ungheria come il più efficace intermediario tra il duca stesso ed il "servitium Apostolicae Sedis":e "carissimus fidelis noster" lo chiama il papa in altra lettera della stessa epoca indirizzata a Rodolfo arcivescovo di Tours. Non è tuttavia sicuro che A. fosse "fidelis" della Chiesa romana nel preciso senso feudale del termine, ed in tal veste presente al sinodo del 1074, pur essendo titolare d'un beneficium della Chiesa romana stessa, la cui concessione solo in via d'ipotesi si può attribuire a Gregorio VII, come ipotetica è la sua identificazione con il comitato di Gavello, del quale, come abbiamo detto, A. risulta il primo detentore tra gli Obertenghi.
Estraneo alle grandi vicende del 1075 che portarono alla rottura aperta tra papa ed imperatore, A. non si dimostrò insensibile alle richieste degli ambienti monastico-eromitici riformatori, accordando la sua protezione alle spoglie dell'eremita francese s. Teobaldo, vissuto nella regione vicentina, spoglie che volle esposte per un anno alla pietà dei fedeli; e facendo oggetto della sua generosità il monastero camaldolese della Vangadizza, posto nel Polesine di Rovigo, al quale donava il 26 sett. 1075 una serie di beni.
Nel 1077 presenziò a Canossa, insieme con Matilde, Adelaide ed Amedeo di Torino, ed Ugo di Cluny, ai preliminari dell'assoluzione di Enrico IV e fu tra i garanti degli impegni presi dal re con Gregorio VII. È da pensare che A., più che su sollecitazione di Enrico IV, offrisse spontaneamente i propri servigi di mediatore, sapendo di essere ben accetto al papa e volendo d'altronde accaparrarsi anche la benevolenza del re nell'incertezza delle ragioni che lo avevano spinto ad attraversare le Alpi. A ricompensa di questa sua azione mediatrice A. dovette sollecitare, anche se ciò non risulta esplicitamente dal documento, la conferma dei suoi beni per i propri figli Ugo e Folco, che Enrico IV emise probabilmente a Verona ai primi di marzo del 1077.
Il privilegio è importante sotto vari aspetti, perché ci dà un quadro d'insieme della consistenza ed ubicazione dei beni costituenti il vastissimo patrimonio di A. (questi s'estendevano per tutta l'Italia centro-settentrionale nei comitati di Gavello, Padova, Ferrara, Vicenza, Verona, Brescia, Cremona, Parma, Luni, Arezzo, Piacenza, Modena, Tortona, nominati in quest'ordine nel privilegio); ed anche perché è un segno sia dell'accordo stabilitosi tra il re tedesco e quegli elementi della grande feudalità italiana cui il nostro marchese apparteneva, sia del riconoscimento da parte di questi ultimi della sua autorità sovrana, sebbene già si potesse vedere che Enrico non ottemperava a tutti gli impegni presi a Canossa. Sulla base di questo privilegio appare comunque giustificato l'appellativo di "ditissimus marchio Italiae" che le fonti attribuiscono ad A., al pari d'un altro potente del tempo, Bonifacio di Canossa. A., dopo essersi probabilmente trattenuto a Verona per tutto il mese di marzo, compare ancora a fianco di Enrico IV a Pavia, ove ai primi di aprile ne sollecitò, insieme con altri fedelissimi, la concessione del comitato del Friuli alla Chiesa di Aquileia.
Attivissimo nella cura dei propri interessi personali e di quelli della propria famiglia, ai primi del 1078 il marchese era a Troia per il matrimonio del figlio Ugo con una figlia di Roberto il Guiscardo, matrimonio celebrato con fasto alla presenza dello stesso duca normanno. Si preoccupava d'altra parte di associare i figli nel rinnovo d'un contratto a livello per la corte di Lusia nel Veronese, stipulato nel maggio dell'anno seguente.
Scagliata nel marzo 1080 la seconda scomunica papale contro Enrico IV, ragioni di principio e la necessità di difendere i propri beni dalla pressione dell'elemento ecclesiastico prevalentemente enriciano spinsero A., al contrario di quanto era avvenuto dopo la prima scomunica, a staccarsi da Enrico IV per avvicinarsi decisamente ai suoi avversari, allacciando contatti con la marchesa di Canossa, Matilde, presso la quale si trovava nel settembre 1080, a Ferrara, forse in relazione ad aiuti da concedere alla parte gregoriana, e presso la quale fors'anche si rifugiò temporaneamente. Attiva comunque dovette essere la sua partecipazione alla lotta contro l'elemento scismatico-enriciano, per quanto non ne siano rimaste testimonianze precise, se dalle fonti imperiali si meritò l'appellativo di "impius" ed "iniquissimus ".
In questa opposizione fu solidale col padre il figlio Ugo, partecipante con le truppe matildine allo scontro di Tricontai del 1091; Ugo, successivamente, tra il 1093 ed il 1095, dovette appoggiarsi, per contrasti di interessi col fratello Folco, sorti forse in seguito ad una divisione patrimoniale che A. sembra aver fatto tra i figli alla fine della sua vita, alla parte antimatildina, alla quale certamente avevano aderito fin dall'inizio delle ostilità altri membri della famiglia obertenga.
Negli ultimissimi anni della sua vita A., nonostante la tarda età, operò ancora facendo da intermediario per una riconciliazione tra il figlio Guelfo IV, che fin dal 1077 aveva perduto i propri beni per la sua opposizione ad Enrico IV, ed il re tedesco: in relazione a questo avvenimento è infatti da mettere la presenza di A. a fianco dell'antipapa Clemente III a Padova nel febbraio del 1096.
L'ultima testimonianza rimastaci di A. è una donazione a favore del monastero della Vangadizza di numerosi beni posti nel comitato padovano: questa donazione, fatta il 13 apr. 1097, fu stipulata a Rovigo ed è il primo atto di Obertenghi stipulato nel comitato di Gavello che ci sia giunto.
Il 20 agosto del medesimo anno A. doveva essere già morto. Venne probabilmente sepolto in quel monastero della Vangadizza da lui tanto beneficato, nel quale giaceva già il corpo della prima consorte Cunizza di Altdorf.
La sua scomparsa segnò l'inizio d'una serie di discordie patrimoniali tra i figli Guelfo IV e Folco, terminata solo ai tempi di Federico Barbarossa con l'investitura dei beni italiani contestati data, il 27 ott. 1154, ai figli di Folco da Enrico il Leone, duca di Sassonia e nipote di Guelfo IV.
Oltre a Guelfo IV, avuto da Cunizza e progenitore della casa di Braunschweig, da cui si diramarono le case di Hannover regnanti in Germania ed Inghilterra, a Ugo, di cui l'ultima notizia risale al 13 apr. 1097, e a Folco, capostipite dei marchesi d'Este, avuti da Gersenda, A. ebbe certamente anche una figlia di nome Adelasia.
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