Ai faux ris, pour quoi traï aves
. Questa, che al v. 40 è detta cianson (Rime dubbie V), e che infatti della canzone rispetta la struttura metrica, meglio si direbbe un ‛ descort ', in quanto composto in lingua trina (v. 41): vi si alternano il latino, l'italiano e un francese " con forme non ammissibili nel parlare della Francia propria " (Contini), che da taluni filologi (Diez, Bartsch) venne anche inteso come provenzale (prima il Novati, poi il Crescini lo riconobbero per francese). L'alternanza delle lingue corrisponde a quella delle rime.
La canzone consta di tre stanze più un congedo; ciascuna stanza ha 13 versi (6 + 7), 11 endecasillabi e 8 settenari, con rima ABC BAC c DEe dFF: è il medesimo schema delle due canzoni dantesche Io son venuto (dove tuttavia il settenario è uno solo e nella fronte le rime sono diversamente disposte, ABC ABC) e Voi che 'ntendendo (tutti endecasillabi). Il congedo, conformemente a un frequente uso dantesco e a una specifica dichiarazione in Cv II XI 2-3, non riprende una parte definita della stanza, ma sta a sé. Attribuita a D. in molti codici, è adespota nel Laurenziano XLI 15; mentre nell'autorevole Barberiniano lat. 3953, copiato attorno al 1330 forse da Niccolò de' Rossi, l'attribuzione è resa illeggibile da una rasura: è probabile, data l'estensione di essa, che sia stata cancellata la rubrica Dante o idem (nel cod. Marucelliano c 152, affine al Barberiniano, essa è appunto Dante). La rasura potrebbe comunque essere stata fatta dal copista (o da un successivo possessore del codice) accortosi dell'errore di attribuzione, e in questo caso la canzone dovrebbe considerarsi adespota, sempreché la rubrica erasa fosse Dante; se poi il nome cancellato fosse stato un altro, se ne potrà dedurre solo che l'autore della canzone fosse ignoto. Nei manoscritti che l'attribuiscono a D. essa segue in genere le 15 canzoni della tradizione Boccaccio; non sappiamo né chi l'abbia aggiunta né su quale autorità l'abbia fatto.
Mentre il Barbi nelle note all'edizione del '21 (p. 138) propendeva decisamente a negare a D. la paternità di una composizione di così scarso rilievo poetico, la critica più recente (si veda soprattutto il Di Benedetto e il Mazzoni) sembra più disposta ad accettarne l'attribuzione, sulla base soprattutto di alcune affinità stilistiche che la cianson ha con altre poesie sicuramente dantesche (ut gravis mea spina del v. 42 ricorda la crudele spina del v. 49 di Io son venuto; il richiamo alla superbia dei Greci, oltre che a If XXVI 74-75, si può accostare al v. 6 di Un dì si venne a me Malinconia; Et quid tibi feci del v. 2 ricorda l'esordio Popule mee, quid feci tibi? dell'epistola di D. ai Fiorentini, perduta, di cui fa menzione Leonardo Bruni. Si tratta tuttavia, come si può vedere, di argomenti tutt'altro che decisivi e perentori).
Fu stampata per la prima volta nel 1491, ultima delle canzoni, in appendice a un'edizione veneziana della Commedia; inserita nella giuntina del 1527 come trentesima (ultima) della seconda sezione di rime dantesche comprendente componimenti di attribuzione non sempre inoppugnabile (Morte poi ch'io non trovo, che la precede, è di Iacopo Cecchi), venne accettata come dantesca in quasi tutte le edizioni successive del canzoniere; prima dell'edizione del '21 (in cui il testo della canzone fu curato dal Crescini) solo il Fraticelli e il Giuliani la inserirono tra le dubbie.
La situazione poetica è convenzionale: il poeta si lamenta dell'indifferenza di una donna - che alcuni, tra cui lo Scherillo e il Crescini, per un supposto gioco di parole tra gravis... spina (v. 42) e Malaspina, vorrebbero appartenente a quella celebre famiglia -; con un sorriso traditore ella l'ha fatto prima innamorare, e adesso non si cura del suo travaglio. Si tratta in complesso di una prova di abilità, in cui raramente s'incontra un'immagine viva (mai tocca di fioretto il verde, il bocciolo di un fiore, v. 13) o un'energica disposizione sintattica e lessicale (Ben avrà questa donna cor di ghiaccio, v. 27; amorem versus me non tantum curat / quantum spes in me de ipsa durat, vv. 38-39; forse pietà n'avrà chi mi tormenta, v. 44; si scrulla, " si scuote ", v. 24).
Bibl. - F. Novati, Studi critici e letterari, Torino 1889, 206; D.A., Vita Nuova e Canzoniere, a c. di M. Scherillo, Milano 1921, 384 nota; G. Mazzoni, Almae luces malae cruces, Bologna 1941, 134; L. Di Benedetto, Sulle opere minori di D., Salerno 1947, 44-45; Contini, Rime 239-242; A. Pézard, " La rotta gonna "..., I, Firenze 1967, 102-103 (sull'interpretazione dei vv. 24-26).