Firenzuola, Agnolo
Per il F. (Firenze 1493-Prato 1543), come per molti intellettuali del suo tempo, la presenza di D. tra i modelli della letteratura fu tutt'altro che pacifica. Per quanto fiorentino di nascita, la sua formazione seguì percorsi esterni (talvolta con polemica estraneità) nei confronti di quello specifico clima cittadino in cui il recupero e la reinterpretazione attualistica dell'opera dantesca ricevé complesse risonanze culturali e politiche, attraverso i decenni della crisi delle libertà comunali, fino al 1540 e oltre: il lungo soggiorno romano, alla corte di Clemente VII, e poi il rifugio periferico di Prato, lo esclusero da quella temperie; e anche se certo distacco che trapela dalle sue opere nei confronti del mito di D. può farsi risalire al circolo dei raffinati ideali formali di cui si era fatto portavoce il Bembo, l'isolamento provinciale non gli consentì di procurare alle sue scelte di gusto un retroscena critico coerente, il segno di una specifica ideologia letteraria. Una ‛ voce ' negativa dunque, quella del F., sia pure per via di esclusioni più che per giudizi organici.
Come sempre avviene in certa critica cinquecentesca (e come era avvenuto anche nelle Prose del Bembo), bisogna distinguere due tipi di riferimenti: quelli che si collocano nei contesti di una storia delle forme ‛ volgari ' e quelli in cui invece si discute del recupero e della riapplicazione dei modelli. In sede cronologica, l'auctoritas dantesca è rispettata, omessa invece dove la selezione delle forme investe i problemi attuali dell'imitazione: in questo caso (sia nel Discacciamento che nei Ragionamenti) non vale che la lezione " del Petrarca nostro ". Sull'emarginazione del modello dantesco, da parte del F., pesa comunque una somma di fattori, dalla selettività del petrarchismo bembesco (con l'implicita ricerca di una nuova dimensione stilistica) fino a un dissenso di tipo culturale, che attraverso D. investiva probabilmente certe forme d'impegno dottrinario ed esegetico che si andarono sviluppando nel centro fiorentino, particolarmente intorno al '40; e non si può neppure escludere un risentimento tipicamente cinquecentesco nei confronti dell'opera dantesca, come esemplare di un sistema formale e di un'organizzazione culturale su cui continuava a pesare la condanna espressa da alcune zone della cultura umanistica. È anche di questo tipo la limitazione che emerge quasi per inciso nel Celso, il trattato platonico composto intorno al 1541, dove il tono si fa addirittura ironico, implicando tutto un retroscena di riserve, non solo sull'attendibilità, dottrinale, ma anche sulle forme, ispide e arcaiche, dell'espressione: " Dante nella sua (Colezione), la quale, a comparazione del Convito di Platone, a fatica è bere un tratto, dice che la bellezza è armonia " (ediz. Seroni, p. 538). Altri giungono a motivare in senso ancora più tipico il ‛ disdegno ' del F. per D., individuando una dimensione ‛ decadentistica ' della sua esperienza, nella quale (al di là della lezione del Bembo) " valgono le ragioni di una letteratura minore, di un ‛ divertimento ' letterario, fino all'equivoco... di considerare provinciale e rozzo Dante e la sua opera " (Seroni).
Bibl. - Per le opere ricordate si veda l'ediz. a c. di A. Seroni, Firenze 1958. Scarsi sono i riferimenti critici specifici al rapporto F.-D.; per un orientamento generale: G. Fatini, A.F. e la borghesia letterata del Rinascimento, Cortona 1907; A. Seroni, Il ‛ disdegno ' del F. per D., ora in Leggere e sperimentare, Firenze 1957, 22-28; A. Vallone, L'interpretazione di D. nel Cinquecento, ibid 1969, 87.