ADOZIONISMO
. Il termine (da adozione) designa, nella storia del dogma cristiano, due gruppi di eresie diverse. In senso stretto, indica le dottrine cristologiche predicate in Ispagna al tempo di Carlo Magno; ma Adolfo von Harnack lo ha applicato anche ad una tendenza molto più antica, che riguarda il dogma della Trinità; e la diffusione della sua Dogmengeschichte ha provocato la fortuna di questo termine. D'altronde, le dottrine cristologiche e le trinitarie sono tanto strettamente collegate tra loro, e dipendono in maniera così diretta dall'interpretazione data alla redenzione operata dal Cristo, che converrà altresì esaminare, per maggior chiarezza, in quale relazione reciproca stiano i due movimenti.
1. Adozionismo trinitario nella Chiesa antica. - Il pensiero cristiano si è trovato, fin dall'origine e specialmente da quando volle reagire alle dottrine emanatistiche dello gnosticismo, nella necessità di dover mettere d'accordo la dottrina della divinità del Cristo con l'affermazione del monoteismo. Il problema si poteva risolvere in due modi, ciascuno dei quali ha trovato nella storia i suoi propugnatori: sia insistendo sull'unità di natura del Verbo con Dio Padre, in modo da farne una sola persona; sia insistendo sul lato umano della persona di Gesù, e ammettendo la sua divinità soltanto come una specie di "divinizzazione". In entrambi i casi, il monoteismo più rigido era salvo, in un'epoca precedente la definizione di Nicea e in cui la discussione non aveva ancora condotto alla definizione esatta dei termini (e dei concetti) di essenza (o sostanza: ούσία) e di persona (ὑπόστασις, substantia). Ma il confondere i due indirizzi in contrasto nel sec. II e nel III sotto un unico nome non giova né alla chiarificazione dei concetti, né alla intelligenza storica dei varî movimenti ereticali. È pertanto più opportuno riservare il nome di "monarchianismo" alla tendenza, propria della fede popolare, ad affermare l'unità divina (e l'unità del governo divino del mondo, μοναρχία) secondo la quale il Verbo incarnatosi in Gesù non differiva, nemmeno come ipostasi, dalla persona del Padre (sicché se ne può dedurre che il Padre si è incarnato ed ha sofferto: patripassianismo), distinguendone invece "l'adozionismo, eresia delle classi dotte e delle intelligenze raffinate". Secondo questo, in sostanza, Gesù non era che un uomo, per quanto infinitamente superiore agli altri; che, in virtù dei suoi meriti speciali, aveva avuto il privilegio, non solo di essere l'organo d'una nuova Rivelazione, bensi anche di essere assunto all'unione con la divinità, adottato da Dio come Figlio.
Non si può dire precisamente quale sia stata l'origine di questa corrente. Mentre, da un lato, poteva apparire soddisfacente ai cristiani provenienti dall'ebraismo (ché Gesù diventava cosí, in fondo, un profeta superiore agli altri ed era salvato il monoteismo), essa deve essere apparsa plausibile anche alla mentalità ellenica, preparata a questa concezione da quanto si diceva degli eroi, e dalla pratica ormai diffusa delle apoteosi di sovrani, già designati con l'appellativo stesso di "Signore" (κύριος) con il quale i traduttori greci della Bibbia avevano reso il nome sacro di Jahvè.
In ogni modo, questa corrente dottrinale sembra essere stata accolta da alcuni gruppi cristiani già fin da epoca abbastanza antica. Nel racconto del battesimo di Gesù secondo il Vangelo di Luca (III, 22) una forma del testo (la cosiddetta "occidentale") che risale almeno al 150, perché si trova in Giustino martire (oltre a Clemente Alessandrino, alle versioni latine - codici a, b, c, ff2, r1 - e al Codex Bezae, D) fa che la voce dal cielo dica a Gesù, con le parole del Salmo II, 7: "Tu sei il mio figlio unico (interpretazione più plausibile che "prediletto"), oggi io ti ho generato" σὺ εἶ ὁ ὑιός μου ὁ ἀγαπητός, ἐγὼ σήμερον γεγέννηκά σε); e alcuni critici (p. es. Streeter, The Four Gospels, Londra 1924, pp. 143, 188, 276) ritengono che questo sia il testo originale. Ma è stato fatto notare che il carattere stesso della scena, anche accettando il testo corrente (codici B ecc.): "in te mi compiacqui" (ἐν σοί ευδόκησα) la rende sempre suscettibile di un'interpretazione in senso adozionistico.
Tra i gruppi cristiani che accettarono l'adozionismo nel corso del sec. II e del III, e prescindendo dalla cristologia e teodicea di autori quali, p. es., Erma, abbiamo scarse e malsicure notizie (Epifanio, Panarion, haer. 51) degli "Alogi" (giuoco di parole polemico: ἄλογος "stolto, senza ragione" e ἀ-λόγος, "senza Logos, senza Verbo"), che respingevano insieme la dottrina del Verbo del quarto Vangelo, e per conseguenza questo, attribuito all'eretico Cerinto, e l'Apocalisse. Conosciamo meglio Teodoto di Bisanzio. Costui, accusato di avere ceduto alla persecuzione, si difese sostenendo di aver rinnegato non Dio, ma un uomo. Per lui dunque Gesù non era che un uomo, vissuto più santamente, che nel battesimo era stato assunto alla dignità di Cristo (Messia; perciò, diceva, i miracoli cominciano dopo il battesimo), pur senza diventare Dio. Alcuni seguaci ritenevano che Gesù fosse stato deificato con la risurrezione. Teodoto diffuse la sua eresia in Roma, dove papa Vittore lo condannò, verso il 190; ma trovò pure dei seguaci, che tentarono anche di organizzarsi in setta dissidente, al tempo di Zefirino. Loro capo fu un secondo Teodoto, il banchiere, rimproverato dagli ortodossi di preferire alla Bibbia autori profani come Euclide, Aristotele e Galeno. Alle dottrine del maestro, alquanto modificate, egli aggiungeva considerazioni, suggeritegli probabilmente da qualche passo dell'Epistola agli Ebrei (VII, 3) su Melchisedech, che riteneva più grande di Gesù, attribuendogli delle funzioni di mediatore tra l'uomo e gli angeli, e tra l'uomo e Dio. Con Artemone che fu l'ultimo rappresentante di questa corrente teologica in Occidente, l'adozionismo romano finiva, per ritornare alla sua patria, in Oriente, dove avrebbe trovato il suo più illustre assertore in Paolo di Samosata, le dottrine del quale meritano di essere studiate a parte.
2. Adozionismo cristologico spagnuolo. - Giova ricordare, innanzi tutto, quali erano, allo scoppiare della controversia (fine dell'VIII secolo), le condizioni politiche della Spagna, divisa fra il piccolo regno indipendente di Oviedo, le Marche carolingie, e il dominio arabo del centro e del sud. In questa regione la lotta ebbe origine dalla confutazione che il vescovo Elipando di Toledo fece delle dottrine di un tale Migezio. Costui, a quanto pare, sosteneva le incarnazioni di tutte e tre le Persone divine: del Padre in Davide, del Figlio in Gesù, dello Spirito Santo in S. Paolo. Più che ricollegarsi al priscillianismo, come qualche critico ha sostenuto, egli sembra dunque aver sostenuto una dottrina "economica" della Trinità, con manifestazioni successive delle varie persone nelle differenti epoche della storia, in conforinità ad un piano preordinato. Per confutarlo, Elipando dovette sostenere recisamente il carattere trascendente della divinità, giungendo così a separare, più che distinguere, l'elemento umano dal divino nella persona di Gesù. Mentre il Concilio di Calcedonia aveva affermato l'unione ipostatica delle due nature, umana e divina, nell'unica persona di Cristo "veramente Dio e veramente uomo.... consustanziale al Padre secondo la divinità, e consustanziale ad un tempo a noi secondo l'umanità", Elipando faceva della filiazione divina un attributo, non tanto della persona del Cristo, quanto della natura. Egli affermava la divinità e l'eternità del Verbo, consustanziale al Padre; ammetteva altresì la unione ipostatica del Verbo con l'umanità in una sola persona. Egli evitava così il nestorianismo; ma vi ricadeva per un altro verso, sostenendo che, se il Verbo si può chiamare veramente Figlio naturale di Dio, la filiazione della natura umana non si poteva intendere se non come il risultato di una speciale elezione, o predestinazione, o adozione. La natura umana del Cristo non ha partecipato alla Creazione: "ché Dio non ha creato le cose visibili mediante colui che è nato dalla Vergine, bensì mediante Quegli che è (figlio) non per adozione, ma per generazione, per virtù non della grazia ma della sua natura" ossia, il Verbo (Quia non per illum qui natus est de Virgine visibilia condidit - scil.: Deus -, sed per Illum qui non est adoptione sed genere, neque gratia sed natura").
A questa concezione Elipando deve essere giunto per più d'un motivo. Si attribuisce generalmente grande importanza al fatto ch'egli potrebbe aver avuto conoscenza di qualche scritto di Nestorio, attraverso gli Arabi, che a loro volta ricevettero numerose opere filosofiche greche in versioni siriache, opera di nestoriani. D'altronde il commento a S. Paolo di Teodoro di Mopsuestia era stato tradotto in latino, ed aveva una certa diffusione (come prova, tra l'altro, la complessa tradizione paleografica del commento dell'Ambrosiaster). Ma Elipando doveva avere altresì ereditato il pessimismo antropologico di Sant'Agostino, e questo soprattutto doveva impedirgli di ammettere che la natura umana fosse suscettibile di una vera filiazione divina. Egli trovava inoltre il termine adoptio nella liturgia mozarabica in uso nella sua chiesa. Ma questo era per lui, probabilmente, sinonimo di assumptio: "dire che Dio ha adottato l'umanità era dire prima di tutto che il Verbo si è unito ipostaticamente all'umanità": perciò Elipando accusava i suoi avversarî di docetismo (eresia che afferma il carattere soltanto apparente del corpo del Cristo). Inoltre, convinto di interpretare rettamente il dogma della duplicità di natura nell'unità di persona (abbiamo visto invece in che consistesse l'equivoco), Flipando accusava i contraddittori come seguaci di Eutiche e anche come ariani o bonosiani.
La lettera di Elipando a Migezio, anteriore al 782, venne a conoscenza di Beato di Libana e dell'abate Eterio di Cosma, che iniziarono la controversia. Elipando rispose con una lettera all'abate Fedele; possediamo la replica di Beato ed Eterio. Intervenne il papa Adriano, che segnalò gli errori di Elipando. Questi aveva trovato un sostenitore in territorio carolingio, il vescovo Felice di Urgel. Anzi, da costui, il termine adoptio era inteso in senso giuridico e significava una vera e propria adozione di Gesù fatta da Dio, mediante la grazia. Egli esagerava ancora l'impossibilità per la natura umana di conseguire la perfezione senza la grazia, ed il carattere trascendente della divinità: "Non possiamo credere in alcun modo che Dio Padre onnipotente, il quale è spirito, generi dalla propria natura la carne" (nullo modo credendum est ut omnipotens Deus Pater qui spiritus est, ex semetipso carnem generet). Era altresì particolarmente sensibile al valore soteriologico della sua dottrina: la nostra redenzione è quella stessa operata dal Cristo, la grazia che noi riceviamo la stessa ch'egli ha ottenuto; dunque, "se adottiva è la nostra filiazione da Dio, tale deve essere stata la sua".
Contro l'eresia che si diffondeva nei suoi stati, Carlo Magno volle intervenire. Felice si dovette difendere in un concilio, tenuto a Ratisbona nel 792, e ritrattarsi, anche di fronte al papa. Ma, ritornato alla sua sede episcopale, si rifugiò in territorio arabo, probabilmente presso Elipando, il quale, insieme con altri vescovi, tentò nel 793 (l'anno in cui i Musulmani saccheggiarono Pamplona) e nel 794 di ottenere, da Carlo Magno e dall'episcopato, la riabilitazione di Felice. Si adunò allora un concilio a Francoforte, cui intervennero, con i legati papali, Paolino d'Aquileia e altri vescovi italiani, che redassero un loro Libellus (in due recensioni: la più lunga è l'originale), mentre i vescovi di Gallia e di Germania inviarono ai loro colleghi di Spagna una loro Synodica. Il concilio condannò nuovamente l'adozionismo; e la condanna fu confermata da papa Adriano e negli anni successivi da un sinodo romano, da uno di Cividale (Forum Iulii) e da papa Leone III.
L'intervento di Leidrado, vescovo di Lione, provocò un nuovo concilio, che fu tenuto ad Aquisgrana, probabilmente nella primavera dell'800. Dopo un lungo dibattito con Alcuino, Felice si ritrattò, e fu affidato a Leidrado; ma il successore di questo, Agobardo, trovò dopo la morte di Felice (813) un nuovo trattatello, che confermava i vecchi errori. Intanto però una missione, a cui partecipò anche S Benedetto d'Aniano, otteneva il ritorno all'ortodossia di quasi tutta la Spagna. Alcuino poteva scrivere al vescovo Arnone di Salisburgo annunciandogli la conversione di ventimila dissidenti, e Carlo Magno vantarsi di aver ottenuto l'unione religiosa dei cristiani di Spagna, al di là e al di qua dei confini politici, apparendo come il loro naturale difensore di fronte agl'infedeli. Egli aveva inoltre adempiuto alla sua missione di "figlio e difensore della Santa Chiesa Cattolica" e quasi di "vescovo esteriore", di novello Costantino, che riceveva d'altro canto la sua solenne consacrazione nella cerimonia romana della notte di Natale di quello stesso anno 800. E, nell'801, veniva conquistata Barcellona.
Fino a questo punto, l'adozionismo, sia quello trinitario dei primi secoli, sia quello cristologico (entrambi, attraverso l'affermazione dell'assoluta trascendenza di Dio, finiscono col trovarsi molto vicini) appaiono in dipendenza del modo in cui viene posto e affrontato il problema centrale della religione cristiana, quello della salvezza. Ma, mentre per Teodoto ed i suoi seguaci la natura umana appare perfettibile in modo da poter essere anche divinizzata (per quanto si affermi d'altra parte la trascendenza del Verbo, che Paolo di Samosata definì per il primo come "consustanziale", ὁμοούσιος, al Padre), Elipando e Felice insistono sul fatto che, anche giunta alla massima perfezione nel Cristo, vi è sempre un abisso tra di essa e la divinità.
Nello sforzo ulteriore per giungere ad una trascrizione concettuale dell'esperienza religiosa cristiana, dottrine analoghe si ripresentarono, nel corso del secolo XII e dei successivi, soprattutto in dipendenza delle concezioni trinitarie di Abelardo e dei suoi seguaci. Se gli avversarî di Abelardo insistono sulle conseguenze strettamente teologiche delle sue dottrine, queste si presentano d'altra parte in forma dialettica, e sono strettamente collegate con il grande problema della scolastica, la questione degli universali. Ma non è possibile affermare, in maniera assoluta, che il problema propriamente religioso, del senso e del valore da dare alla Redenzione, rimanga estraneo alla preoccupazione degli scolastici medievali, da Abelardo a Ugo di S. Vittore, da Pier Lombardo a Duns Scoto, da Gerhoch di Reichensberg a Gilberto Porretano. Certo è che, a seconda dell'importanza che si attribuisce al fattore religioso-sentimentale, ne viene una maniera diversa di considerare tutto il pensiero medievale; e che, a mano a mano che ci si avvicina al mondo moderno, le preoccupazioni di carattere nettamente filosofico tendono sempre più a prendere il primo posto. Perciò, per gli svolgimenti ulteriori dell'adozionismo, rimandiamo agli articoli sulla Scolastica e sui suoi rappresentanti.
Bibl.: i. Ipplito, Haer Ref. ("Philosophumena"), VII, 35 e 36; IX, 3 e 12; X, 23 e 24; Contra Noetum, 3, 4; il cosiddetto "Piccolo Labirinto" in Eusebio, Storia Eccles., V, 28; Pseudo-Tertulliano, Adversus omnes haereses, 23-24; Epifanio, Panarion, haer. 53 e 54; J. Tixeront, Histoire des dogmes, 4ª ed., Parigi 1915, I, p. 347 segg.; R. Seeberg, Lehrbuch der Dogmengeschichte, I, 3ª ed., Erlangen-Lipsia 1920, pp. 562 segg.; F. J. Bethune-Baker, An Introduction to the carly History of Christian Doctrine, 3ª ed., Londra 1923, p. 96 segg.; Manuale introduttivo alla Storia del cristianesimo, I, Foglino 1925, p. 365 segg.
2. Le opere di Elipando, Felice, Eterio e Beato sono nel vol. 96 della Patrologia latina; quelle di Paolino d'Aquileia, Alcuino, Agobardo, rispettivamente nei voll. 99, 100, 101, 104. V. inoltre: Werminghoff, Concilia Aevi Karolini, I, i, in Monumenta Germaniae Historica, Leges, Hannover e Lipsia 1906; Flores, España Sagrada, V, 2ª ed., Madrid 1763, p. 334 segg.; Vuillermet, Elipand de Tolède, Brignais 1911; Tixeront, op. cit., III, 3ª ed., Parigi 1912, pp. 526 segg.; Seeberg, op. cit., III, 2ª e 3ª ed., Lipsia 1913, p. 53 segg.; gli articoli di Möller e Hauck in Realencyklopädie für Protestantische Theologie und Kirche, I, p. 180 seg. e XXIII (Ergänzungen), p. 13 seg.; e di Quilliet, in Dictionnaire de théologie catholique, I, I., s. v.