Kitsch
〈kič〉 s. m., ted. [propr. «scarto»; prob. der. del ted. dialettale kitschen «intrugliare»]. – 1. Nell’uso com., produzione di oggetti presuntamente artistici, ma in realtà caratterizzati da ornamentazione eccessiva e dozzinale, banali e di cattivo gusto. Più propriam. il termine (comparso in Germania verso il 1860 e diffuso con l’attuale connotazione limitativa nella letteratura critica tedesca tra il 1920 e il 1940) indica ogni degradazione in senso manieristico dell’opera d’arte che, nella moderna civiltà di massa, assume aspetti rispondenti, quasi sempre grossolanamente, alle esigenze estetiche di destinatarî mediamente acculturati: riproduzione in serie del prodotto artistico (quadro, scultura, ecc.), che diviene così economicamente accessibile a gran numero di persone a scapito della sua autenticità e unicità; sostituzione dei materiali originarî (carta anziché tela, plastica invece di avorio, alterazione di colori e dimensioni, e analogam., nella musica, sovrapposizione di un ritmo di danza moderno su un brano di musica classica); inserzione o aggiunta di elementi giustificativi (termometri a forma di torre Eiffel, barattoli contenitori a forma di statua, e sim.); alterazione anacronistica del contesto (cronologico o ideologico) in cui di necessità si colloca l’opera originale; adozione, di solito del tutto acritica, dei principî manieristici dello straordinario, dell’eccessivo, del sovrabbondante. 2. In funzione attributiva o predicativa (e in genere con iniziale minuscola): gusto k., arredamento k., oggetti k.; per estens., riferito a persona, essere k. (e analogam. atteggiamento, comportamento k.), non essere sé stessi, assumere atteggiamenti o comportamenti innaturali, non autentici, vestire in modo vistosamente eccentrico e di dubbio gusto, per seguire una moda.