deprogrammazione
s. f. Pratica finalizzata a sottrarre un adepto al condizionamento psicologico ricevuto da una setta, che fu ideata negli anni Sessanta per contrastare l’attività delle sette religiose; per estensione, ricondizionamento mentale. ◆ «La mia preoccupazione diventa più forte quando sento parlare di deprogrammazione. Siamo in molti a temere per l’incolumità del vescovo» [L. Bernasconi] (Giornale, 15 agosto 2001, p. 15, Cronache) • Le gerarchie cattoliche hanno sempre condannato le tecniche di deprogrammazione psicologica, supportate in genere da metodi violenti, come non rispettose dei diritti della persona umana. (Giacomo Galeazzi, Stampa, 20 agosto 2001, p. 13, Cronache Italiane) • In questo pamphlet, dal sintomatico titolo «Lo sbrego», [Antonio Moresco] sottolinea: «Io non ho nessun disprezzo per la cultura, ma mi rendo conto della deprogrammazione epocale messa in atto da media come quello televisivo, per creare moltitudini di schiavi allevati e di povera carne sollecitata da macchine economico-politico-mediatiche che hanno bisogno di muoversi liberamente in spazi desertificati». (Gian Paolo Serino, Repubblica, 17 agosto 2005, Milano, p. XII).
Derivato dal s. f. programmazione con l’aggiunta del prefisso de-.
Già attestato nella Repubblica del 6 dicembre 1986, p. 14, Cronaca (Enrico Bonerandi).